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Storiella degli impiccati
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 13/12/2019 0 Comments 23 min read
piccolacreta N°1 - henri de toulouse lautrec Previous Il Fancazzista d'oro Next

Testo: Gian Marco Griffi
Copertina: Julio Armenante

De nostre mal personne ne s’en rie:
Mais priez Dieu que tous nous veuille absouldre!

Villon



Ci ordinarono di distruggere il ponte. 
Io ero addetto a trasportare il materiale e Ennio era addetto a parlare alla ricestrasmittente. 
La terza alba di montagna ci sorprese allo scoperto in un prato deserto, un uccello si levò in volo dall’oscurità dell’ovest, volteggiò nei pressi dell’orsa minore e si tuffò nel mare del nulla dietro il sole, poi riemerse rovente come una fenice ferita e scarnificata, si appollaiò su un albero e prese a osservarci.
Era il dodici maggio millenovecentoquarantaquattro e non avevamo ancora sparato un colpo. 
Ennio recitò una poesia a memoria, come se recitare una poesia a memoria fosse la cosa più normale del mondo quando ti ordinano di distruggere un ponte, poi caricò il moschetto, prese la mira e sparò. L’uccello provò a levarsi in volo ancora una volta, ma non ci riuscì. 
Chiesi a Ennio perché l’avesse fatto. Rispose che gli uccelli portano rogna. Chiesi di che cosa stesse parlando. Non avevo mai sentito un’idiozia tanto grossa. Gli uccelli non portano rogna. Dimostrami il contrario, disse lui. Non riuscii a dimostrarlo. 
Ci mettemmo in marcia verso le montagne. Faceva caldo, il pomeriggio era impregnato da un intenso profumo emanato da fiori gialli e rossi che crescevano ai bordi del sentiero. Ennio disse che i fiori erano uno spreco di colore. Io gli domandai cosa intendesse dire con ‘spreco di colore’, lui disse che intendeva quello che aveva appena detto. Uno spreco di colore. Non avevo mai sentito nessuno definire i fiori uno spreco di colore. Ma Ennio era così. Recitava poesie a memoria, pensava che gli uccelli portassero rogna e detestava i fiori. 
A metà strada tra il campo e il ponte ci dissero che il ponte non doveva più saltare. 
Ennio disse Come non deve più saltare? Quello che parlava nella ricetrasmittente disse Non deve più saltare perché è un ponte del tutto inutile. 
Ennio disse Come inutile? Quello che parlava nella ricetrasmittente disse Inutile, Gesù santo, inutile, cosa vuoi che ti spieghi il senso della parola inutile. Ennio disse di provarci. Quello che parlava nella ricetrasmittente disse Ecco, disse, inutile come spiegare il senso della parola inutile. 
Ci organizzammo per tornare indietro. Eravamo su di giri. L’ultima cosa di cui avevamo voglia quella mattina era far saltare un ponte e rischiare di rimetterci le chiappe. Tutti gli altri percorsero il sentiero che portava a valle, cantando canzoni. Ma Ennio disse che voleva far saltare il ponte lo stesso. Gli chiesi se era impazzito. Disse che non era impazzito. Dissi che invece mi sembrava che fosse completamente impazzito. Dissi che ci avevano appena ordinato di rientrare. Guarda gli altri, gli dissi. Stanno cantando, tornano al campo. Lui non disse niente e invertì la rotta. Io lo seguii. 
Alla fine disertammo e finimmo in Svizzera. 

Ci nascondemmo un paio di giorni in un casolare abbandonato. Non avevamo niente da mangiare, fummo costretti ad andarcene. Ennio continuava a perseguitarmi con quella storia del ponte. 
Io gli dissi di finirla, che eravamo in Svizzera e che in Svizzera ponti da far saltare non ce n’erano. 
Dormimmo nella baracca di un pastore. 
Durante la notte mi svegliai più volte e vidi che Ennio non c’era. Mi domandai dove fosse finito. Poi mi girai dall’altra parte e continuai a dormire perché ero spossato. 
Quando mi svegliai Ennio era in piedi di fronte a me.
Gli domandai dove avesse passato la notte. Mi disse che era andato a zonzo per le montagne. Mi disse che aveva parlato con le montagne e con le stelle. Gli chiesi Con le pecore no? Mi disse che aveva parlato con i fiumi e con i burroni. Gli dissi di farla finita. Mi disse che aveva parlato con gli alberi e con i massi. Gli dissi di andare al diavolo. Mi disse che aveva avuto un’illuminazione. Gli dissi che non ricominciasse con la storia del ponte da far saltare. Disse che se ne fregava del ponte. Dissi Magnifico. Disse che aveva avuto un’illuminazione. Dissi che avevo capito. Disse che avrebbe portato giustizia laddove la giustizia mancava. Dissi che dovevamo nasconderci fino alla fine della guerra. Disse che dovevamo partire e ci serviva un mezzo di trasporto. Dissi che se ci avessero trovato i soldati tedeschi, ma anche quelli italiani e quelli svizzeri, se ne esistono, ci avrebbero fucilati seduta stante. Disse che dovevamo trovare un mezzo di trasporto. Dissi Che cosa stai farneticando. Non disse niente. Chiesi Quale mezzo di trasporto. Disse Un mezzo di trasporto qualsiasi. Chiesi Per andare dove? Disse Per andare a portare giustizia laddove manca giustizia. Dissi che si facesse furbo, che non mi raccontasse più sciocchezze, che stesse zitto, che dovevo pensare. Disse che andava a cercare un mezzo di trasporto. Imprecai. Bestemmiai. Lo seguii. Arrivammo in un villaggio che sembrava abbandonato. Il villaggio era effettivamente abbandonato. Mi chiesi per quale ragione fosse abbandonato. Non c’era anima viva. Lui disse che non gli importava. Disse Meglio così. Trovammo un paio di automobili inutilizzabili. Un trattore inutilizzabile. Tre cavalli morti. Un cane morto. Dissi che facevamo meglio a tornare al comando e dire che ci eravamo persi sulle montagne. Sperare che si bevessero la storia. Disse che non sarebbe tornato indietro per niente al mondo. Disse che potevo andare dove volevo. Imprecai. Dissi che non lo lasciavo da solo. Chiese perché. Provai a spiegarglielo, ma spiegare l’affetto è sempre difficile. Dissi che eravamo tutti e due monferrini. Che venivamo dallo stesso schifoso posto e che eravamo insieme in un altro schifoso posto. Non disse niente. Trovammo una motocarrozzetta. Disse che si chiamava sidecar. Il sidecar era funzionante, ma senza benzina. Cercammo la benzina per tre ore. La trovammo. Ennio disse che era ora di partire. Chiesi Per andare dove? Disse che di preciso non lo sapeva. Chiesi Come sarebbe non lo sai di preciso? Non disse niente. Imprecai. Bestemmiai ripetutamente. Dissi Non appena metteremo il nostro culo su quel sidecar potremo considerarci uomini morti. Mi disse di mettermi nel carrozzino. Gli dissi Neppure morto. Disse di mettere le chiappe nel carrozzino. Litigammo. Gli diedi un gancio destro, lo mancai. Lui rispose con un montante, e mi colpì sul lato destro della mascella. Mi infilai nel carrozzino e partimmo. 

Ci fermammo nei pressi di un lago. Volevamo fare un bagno. Ci coricammo sulla riva del lago attendendo che il sole ci asciugasse. All’improvviso scorgemmo la testa e le braccia di un uomo che nuotava. Scattammo in piedi e imbracciamo i moschetti. A quel punto l’uomo ci vide, cambiò rotta e si avvicinò alla riva. Quando fu a venti metri, alzò un braccio e disse qualcosa in una lingua che non capimmo. Uscì dall’acqua con le mani alzate. Indossava un paio di braghe marroni e calzava un paio di scarpe rotte. Gli puntammo i moschetti finché non fu seduto di fronte a noi. Lo interrogammo.

Parlava italiano, disse che era un pescatore svizzero. Ennio non ci poteva credere. Non si fidava. Gli disse che era un emissario dell’esercito mandato per riprenderci. L’uomo disse che non sapeva di cosa stesse parlando. Disse di chiamarsi Stosser. Gli strinsi la mano e gli domandai cosa stesse facendo. Scambiammo qualche parola. Dovreste liberarvi di quei fucili, disse. Aveva ragione. Ennio disse sì, così puoi ammazzarci meglio. L’uomo disse che non aveva alcuna intenzione di ammazzarci. Disse che c’era un cimitero dietro il bosco. Ci raccontò degli spettri. Ennio tenne il suo moschetto puntato sulla faccia del tizio per tutto il tempo. Gli offrii qualcosa da mangiare. Sbranò una razione in meno di un minuto.
Ennio appoggiò il moschetto per accendere una sigaretta, ma lo riprese subito in mano.
Poi il tizio ci salutò e si rituffò nelle acque del lago. Ci addormentammo. Quando ci svegliammo Ennio disse che si era trattato di un sogno. Gli chiesi a cosa si riferiva. Disse che si riferiva al nuotatore. Io gli dissi che non era stato un sogno, che lo avevo visto e toccato, e quando era successo ero ben sveglio. Ennio disse che avevamo incontrato uno spettro. Io dissi che non avevamo incontrato uno spettro, ma un uomo in carne e ossa. Disse che quel tizio era uno spettro e io un pollo. Dissi Come un pollo? Lui disse Sì, un vero pollo.
Gli dissi che avremmo fatto meglio a dar retta allo spettro e gettare i fucili. Disse no, li seppelliremo nel cimitero. Cercammo il cimitero. Lo trovammo subito. Sembrava abbandonato, sulle tombe era cresciuta l’erbaccia. Adoperammo due vanghe recuperate nel capanno dei becchini per seppellire i fucili. Sentimmo il verso di un uccello. Fabbricammo una croce di fortuna con un paio di assi. Sentimmo un animale strascicare nella sterpaglia.
Ennio disse che eravamo esposti ai turbamenti degli spettri, che gli spettri non ci avrebbero mai più lasciati in pace, giacché eravamo disertori e vigliacchi. Gli spettri della guerra si faranno beffe di noi, ci impediranno di dormire, e quando riusciremo a dormire ci impediranno di svegliarci, e quando riusciremo a svegliarci ci ritroveremo per sempre, ogni qualvolta ci sveglieremo, ai piedi di una forca, al cui cappio pende lo spettro di un uomo che ci detesta per la nostra vigliaccheria. Gli dissi che era matto come un cavallo. Disse che il nostro destino era segnato. Gli dissi di piantarla con queste stronzate. Disse che gli spettri ci avrebbero accompagnato per sempre, a meno che non avessimo dato prova del nostro coraggio e non ci fossimo resi utili alla causa della guerra. Gli domandai quale fosse la causa della guerra. Disse che la causa della guerra era sopravvivere e aiutare gli altri a sopravvivere.
Lasciai perdere, giacché una cosa che ho imparato, con Ennio, fin da quando eravamo bambini, è che è completamente inutile perdere tempo cercando di fargli cambiare idea, o di convincerlo di qualsiasi cosa. 

Avvistammo in lontananza un gruppo di contadini. Lui fermò il sidecar, si nascose dietro a un cespuglio. Chiesi cosa stava facendo. Disse di aver avvistato un battaglione nazista. Gli dissi Ma quale battaglione nazista, saranno dodici contadini con quattro biciclette e tre vacche. Mi disse di tacere. Attaccò il manipolo di contadini a mani nude. Ne stese un paio, ma i contadini svizzeri sono robusti. Gli si avventarono contro in cinque. Io non mossi un dito. Lo suonarono per bene. Tornò sanguinante e tumefatto. Aveva il naso rotto, probabilmente. E una mascella che cominciava a gonfiarsi. Gli dissi che dovevamo nasconderci, Cristo Santissimo, non andare a zonzo per la Svizzera. Mi disse che dovevamo portare giustizia laddove mancava. Gli chiesi se pensava che prendere a botte dei contadini svizzeri significasse portare giustizia. Disse che gli svizzeri erano degli schifosi. Non seppi dargli torto. Mi disse che avrebbe sterminato i nazisti, gli italiani, i russi e gli svizzeri. Soprattutto gli svizzeri. Chiesi perché odiasse tanto gli svizzeri. Disse che aveva avuto un’illuminazione. Dissi Esponimi questa illuminazione. Non disse niente. Imprecai. Lo maledissi. Lo ingiuriai.
Lui mi parlò di scheletri che camminano tenendosi per mano. Di astrazioni vorticose e radiazioni cosmiche. Parlò di onde magnetiche e generali baffuti e marionette monche. Parlò di apocalissi e diavoli. Di uomini che cadono dal nulla nel nulla. Parlò di donne blu e di uccelli contorti e di mostri tentacolari. Parlò di aurore chimiche e strali lucenti magnetici. 
A Davos incontrammo una donna che vendeva spremute di melagrana. Parlava italiano. Le chiesi se in Svizzera si coltivasse il melograno. Lei disse che il melograno possedeva una molecola in grado di combattere la senescenza muscolare. Non ci capii niente. Disse che la melagrana allungava la vita. Dissi che ne avevo proprio bisogno. Lei aggiunse che la allungava a tutti, tranne ai disertori. Dissi che non eravamo assolutamente disertori. Lei disse Come no. Ennio disse che voleva una spremuta di melagrana. Io dissi che non avevamo soldi. La donna disse che ci avrebbe regalato due spremute di melagrana in cambio di un favore. Ennio disse di sì. Io domandai Quale favore? La donna dei melograni disse Prima bevete la spremuta. Dissi che non bevevo nessuna spremuta finché non avessi saputo in cosa consisteva il favore. La donna dei melograni disse che dovevamo consegnare un messaggio. Chiesi Un messaggio a chi? Disse che non lo sapeva. Ennio bevve la sua spremuta di melagrana. Bevve anche la mia. Dissi che non avremmo consegnato nessun messaggio. Ennio disse che era tutta la vita che attendeva quel momento. Dissi Ma quale momento, quale momento, di cosa diavolo stai parlando? Disse che aspettava precisamente questo momento. Seguimmo la donna dei melograni in un appartamento. Facemmo l’amore con lei, a turno. Lei avrebbe gradito la simultaneità, ma io provavo vergogna. Inoltre non volevo vedere neppure per sbaglio il pisello di Ennio. Quando fu tutto finito la donna dei melograni disse Bene, è ora di discutere dei nostri affari. Prima ci servì il pranzo. Mangiammo due ore senza smettere mai. Bevemmo il caffè. Dormimmo dieci ore. Il mattino seguente, la donna dei melograni ci consegnò il plico. Disse che dovevamo portarlo a Lucerna. Hotel Krone, stanza cinquecentotré, disse. All’hotelrezeption parlate con Odilon, ripetetegli queste parole: “La pluye nous a débuez et lavez, et le soleil desséchez et noirciz”. Mi chiese di ripetere le parole. Domandai se potevo annotarle. Disse di no. Ennio Disse che le avremmo imparate a memoria. Disse Bravi, ora cominciate a studiare e a ripetere. Passammo tre ore a ripetere “La pluye nous a débuez et lavez, et le soleil desséchez et noirciz”, sbagliando ripetutamente termini e pronuncia. Disse che avevamo una speranza. Io dissi che non ne avevamo neppure una. Ennio disse che la speranza era l’unica cosa che ci restava. Poi ripeté “La pluye nous a débuez et lavez, et le soleil desséchez et noirciz” parola per parola, pronunciandola come se fosse nato e cresciuto a Bordeaux, o a Place du Châtelet a Parigi. Tre volte. La donna dei melograni disse Magnifico, meglio di così non si poteva dire. Disse Quando Odilon vi consegnerà le chiavi della stanza, salite, lasciate il plico e andatevene. Dissi che se ci avessero trovati a Lucerna ci avrebbero fucilati. Lei disse che non avrebbero mai sprecato proiettili per due disertori, al massimo ci avrebbero impiccati. Io dissi che era un sollievo, e aggiunsi che non andavamo da nessuna parte. Lei disse che avevamo promesso. Io dissi che non avevo promesso un bel niente. Ennio prese il plico. La donna dei melograni ci diede abiti civili, un bacio e due taniche di benzina. 

Partimmo per Lucerna con il sidecar. Per tutto il viaggio Ennio parlò della donna dei melograni, agitandosi come un pazzo. Disse che era la donna più bella che avesse mai visto in vita sua. Gli dissi che Tilde, la figlia del podestà, era molto più bella. Mi disse che non la conosceva. Dissi Come sarebbe che non la conosci? Disse di no. Lasciai perdere il discorso. Anche se sapevo che la conosceva benissimo. Mi chiese se anche per me la donna dei melograni fosse la donna più bella del mondo. Gli dissi Ma neppure per sogno. Fermò il sidecar a bordo strada. Disse di fargli un esempio di una donna, al mondo, più bella della donna dei melograni. Feci il nome di Marlene Dietrich. Disse che al confronto era una bruttona. Feci il nome di Greta Garbo. Disse che non c’era confronto. Feci il nome di Louise Brooks. Disse che non aveva idea di chi fosse. Dissi che in quel preciso momento, al mondo, stavano respirando milioni di donne di cui lui non aveva, né avrebbe mai avuto, idea. Lui non disse niente. Mise in moto il sidecar. Replicò che la donna dei melograni era la più bella donna del mondo e che la discussione doveva ritenersi conclusa. Non dissi niente. 

Arrivammo a Lucerna. 
Dal sidecar scorgemmo una statua al centro di una piazza. Una comunissima statua qualsiasi. Ennio accostò e mi chiese per quale ragione ci fosse una statua di Hitler a Lucerna. Gli dissi Infatti non c’è proprio nessuna statua di Hitler a Lucerna. Lui disse che ce l’avevo di fronte. Dissi che si sbagliava, che la statua non era di Hitler. Ribadì che quella di fronte a noi era la statua di Hitler. Sul basamento della statua c’era scritto ‘Wilhelm Tell’, chiunque fosse quel tizio. Ennio disse che era chiaro come il sole, cristallino, che la statua rappresentasse quel buffone Hitler. Gli rammentai che noi eravamo dalla parte di Hitler. Lui disse che semmai, dalla parte di Hitler, c’ero io. Gli dissi che c’era anche lui. Disse No, giammai. Mi fece scendere dal sidecar. Chiesi Cosa vorresti fare? Disse che il sidecar non ci serviva più. Dissi che ci serviva eccome, altrimenti come saremmo tornati a casa? Disse che avremmo trovato un’automobile, un camion, un treno. Chiesi nuovamente cosa aveva intenzione di fare. Mi intimò di tacere. Scesi dal carrozzino. Quando fu solo, mise in moto il sidecar. Si lanciò a tutta velocità in direzione della statua. A dieci metri si gettò dal sidecar. Il sidecar si schiantò contro la statua. Imprecai. Bestemmiai. Lo maledissi. Lui rimase in terra dolorante a guardare la statua mezza crollata. Gli abitanti di Lucerna erano basiti. Qualcuno si sincerò delle condizioni di Ennio. Pensavano a un incidente. Dissi alle persone che il sidecar aveva il manubrio guasto. Sembrarono bersela. Ennio si alzò zoppicando. Chiamarono un’ambulanza, ma noi eravamo già distanti. La statua di quel Wilhelm Tell era messa male. Mi ripromisi di scoprire chi era, ma poi me ne dimenticai.
Quando entrammo nella hall del Krone guardammo i portieri dietro al bancone. Portavano tutti la stessa divisa e una targhetta con il nome. Non c’era nessun Odilon. C’era un Aurelién, un Gustave e un Dieterik. Ordinammo qualcosa da bere attendendo quell’Odilon. Bevemmo tre bicchieri di vino del Vallese. Dissi che il grignolino era mille volte meglio. Ennio concordò. 
Quando Odilon attaccò il turno andammo al banco. Ennio pronunciò la frase concordata. Chiese cosa significasse in italiano. Odilon ci consegnò le chiavi della stanza cinquecentotré senza fiatare. Cinquième étage, disse. Salimmo in stanza. Lasciai il plico sul letto. Uscimmo dalla stanza. Ennio tornò indietro per prendere il blocco note e la penna che si trovavano sul tavolino della stanza. Lo guardai in cagnesco. Mi fece un gesto come per mandarmi a stendere. Dissi che dovevamo trovare un mezzo di trasporto. Lui disse che doveva scrivere una lettera. Dissi Che lettera, dobbiamo sparire. Disse che doveva scrivere una lettera alla donna dei melograni. Gli giurai che questa volta lo avrei lasciato lì da solo. Disse che avrebbe scritto una lettera alla donna dei melograni. Ordinai una bottiglia di vino del Vallese. Impiegò due ore per scrivere, reclamando continuamente consigli che non avevo. Scrisse che pensava ogni secondo a lei. Scrisse che sentiva la sua mancanza. Scrisse che era folle d’amore per lei. Scrisse che per lei avrebbe combattuto contro i nazisti e contro i russi e contro gli svizzeri. Chiese come si chiamasse, perché era stanco di chiamarla ‘donna dei melograni’. Fece un suo ritratto. Concluse la lettera con le parole ‘tuo per sempre’. 
Chiesi dove pensava di spedirla. Disse che l’avrebbe affidata al portiere. Gli dissi che non ci pensasse neppure. Si alzò e la diede al portiere. 

Rubammo una macchina. Tornammo al cimitero e dissotterrammo i fucili. Ci dirigemmo verso le montagne. Disse che il nostro compito non era concluso. Gli dissi che il mio compito era più concluso che mai. Aggiunsi che sarei andato a nascondermi in montagna. Mi chiese per quanto tempo. Dissi il tempo necessario. Disse E se la guerra durasse ancora dieci anni? Risposi Starò in montagna dieci anni. Disse E se la guerra durasse ancora cent’anni? Dissi Qualcuno mi seppellirà in montagna. Disse E non ci pensi al Monferrato? Dissi Sì, ci penso ogni momento. Disse E ti piace che sia infestato dai porci? 

Decidemmo di tornare a casa. Pensavamo che una volta a casa qualcuno ci avrebbe nascosti. E che avremmo combattuto contro i porci. Lasciammo la macchina prima del confine, tagliammo per un sentiero, e un’ora dopo eravamo in Italia. Dopo cinque ore di cammino, Ennio disse che sentiva già l’odore delle nostre vigne. Mi chiese se lo sentivo anch’io. Risposi che ero stanco morto. Trovammo una baita disabitata dove passare la notte. C’era ancora la stufa. E un paio di vacche libere. Alla fine ci restammo quasi un mese. 

La prima notte seppellimmo di nuovo i fucili. La mattina dopo li dissotterrammo. Chiesi a Ennio perché lo facessimo. Disse che provava vergogna e colpa per aver ucciso quell’uccello, il giorno in cui cominciò la nostra vita da disertori. 
Ci preparammo a partire. Ennio disse che in una settimana saremmo arrivati a casa. Ma non partimmo. Ci sentivamo al sicuro.
Quella notte tornammo a seppellire i fucili. Era una notte alpina scura d’ombre giganti e luminosa di Via Lattea. Avevo i muscoli indolenziti e mi stavano uscendo i calli sulle mani. Mi guardò scavare una fossa sempre più profonda. Disse di smettere, che la buca era sufficiente. Dissi no. Dissi che avrei scavato una fossa grande come tutta la catena alpina e profonda come l’inferno, pur di seppellire tutti i fucili del mondo. Lui chiese E le pistole? Anche le pistole, dissi. E i carrarmati, i cannoni, i pugnali, le baionette e le bombe a mano. Disse che se anche avessimo scavato una fossa tanto grande da poterci seppellire tutte le armi conosciute, dalle clave ai bombardieri americani, gli uomini avrebbero fatto la guerra lo stesso. Disse che per ammazzarsi avrebbero usato le forchette e le zappe, i forconi per il fieno e gli uncinetti delle donne, le canne delle biciclette e i turiboli dei preti. Aveva ragione. 
Ci preparammo di nuovo a partire. Non partimmo.
Alla baita scrisse una lettera d’amore per la donna dei melograni. Gli chiesi di leggermela. Disse no. Mezz’ora dopo, quando ero già addormentato, mi svegliò e me la lesse. Concludeva dicendo che l’amore era l’unica terra sotto la quale avremmo potuto seppellire per sempre tutte le armi del mondo. Che l’amore è una terra difficile da trovare, ma bisognerebbe cercarla incessantemente. Che se tutti gli esseri umani fossero stati innamorati come lo era lui in quel momento, la guerra sarebbe finita subito. Mi chiese se era una cosa banale da dire. Dissi no. Lui disse sì, e stracciò il foglio. Disse che l’amore finisce sempre. Dissi che non era così. Si voltò e borbottò qualcosa che non capii. 
Eravamo felici di aver seppellito i fucili. Due giorni dopo li dissotterrammo per andare a caccia. La fame vinse il nostro odio per le armi. Cacciammo cervi e caprioli. Per qualche tempo la sera andavamo a seppellire i fucili nello stesso posto dal quale la mattina prima li avevamo dissotterrati e dal quale la mattina dopo li avremmo dissotterrati nuovamente. Era come se ci vergognassimo di averne ancora bisogno. Un essere umano, disse Ennio, non dovrebbe avere bisogno di un’arma mai. Quando parlava così, scoprivo di volergli bene. Anche se in realtà gliene ho sempre voluto. Da quando avevamo sette anni e rubavamo l’uva.
Andammo avanti per un bel po’ di giorni a prepararci per partire senza partire, a sotterrare e dissotterrare i fucili. Quando poi finimmo le munizioni, li sotterrammo per sempre. Fu una liberazione. Dissi che avrei preferito morire di fame, pur di non essere mai più obbligato a impugnare un moschetto. Disse che ero uno scemo, ma non lo pensava davvero. 

Più volte avvistammo soldati italiani e tedeschi. Ennio sosteneva che non cercassero noi. Io ero d’accordo con lui, mi dicevo che di noi se ne fregavano, che probabilmente ci avevano dati per morti. Ennio disse che l’unico modo per cui potevano scoprirci era per caso. Dissi che non avevo mai creduto al caso. Lui disse che avrei dovuto. Dissi No, il caso non esiste. 
Poi un’alba livida e fredda di fulmini e grandine ci svegliò con fucili e mitragliatori mentre sognavo un campo di girasoli sotto casa mia. 
Quegli schifosi. Cercavano benzina, latte, formaggio, un riparo per il temporale che sopraggiungeva da nord-ovest. Trovarono noi. Trovarono le nostre piastrine, appese a un chiodo accanto alla stufa. L’avevo detto, che avremmo dovuto gettarle in qualche precipizio, o sotterrarle insieme ai fucili. Ennio chiese da fumare. Ci allungarono due sigarette. Pensai al volto di mia mamma quando mi diceva di star lontano dai guai. Era bella, mia mamma. Aveva un occhio marrone e un occhio mezzo verde, e quasi tutti i denti in bocca. Aveva i capelli profumati anche di sera, dopo la campagna. Mi sembrò di odorarli proprio in quel momento. Guardai Ennio che fumava in un angolo, la schiena appoggiata alla parete. Mi venne da piangere, ma non piansi.
Poi la pioggia ci bagnò e ci dilavò, e il sole ci disseccò e ci annerì.

autori Gian Marco Griffi letteratura Racconti Storiella degli impiccati


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