Testo: Veronica Galletta
Copertina: Chiara Casetta
Accucciato sul bagnasciuga, il bambino scavava con movimenti secchi, la piccola paletta gialla impugnata come un piccone. Ad ogni colpo una nuvola di sabbia gli gravitava attorno, smossa dal vento del primo pomeriggio, che sembrava essersi alzato di colpo, come emerso dalle acque. Ogni tanto si fermava, voltando il collo morbido verso il molo, richiamato dal clangore metallico della gru. Visto da dietro, sembrava un piccolo papero spennato.
Anche l’uomo guardava verso il molo.
La gru procedeva con lentezza, caricando uno dopo l’altro i grossi blocchi per poi depositarli sulla scogliera; preso il blocco, la pinza come lunghe dita dalle unghie ricurve, aspettava che la fune terminasse la sua oscillazione naturale, per poi piazzarlo nel punto indicato dall’operaio in piedi sul muro paraonde. L’operaio si sbracciava, e urlava, ed echi delle sue urla arrivavano fino alla spiaggetta, fino a loro, veicolate e deformate dal vento.
L’uomo si alzò dalla sdraio, abbassando il capo per evitare che una delle stecche dell’ombrellone lo colpisse in viso. Uscì dall’ombra e strizzò gli occhi, per difenderli dal sole; con una mano tese i pantaloni e con l’altra ci ficcò dentro la camicia, prima davanti e poi dietro e poi davanti ancora, con un gesto più cauto, per poi risedersi di nuovo. Il vento si faceva sempre più intenso. Grecale. Il vento peggiore per stare in spiaggia.
Il bambino proseguiva nel suo lavoro, mostrando al nonno le spalle. Le braccia e la nuca, uniche parti scoperte, di un porpora acceso, quasi abbagliante.
Una raffica colse il bambino di sorpresa, facendolo cadere all’indietro, sul sedere, mentre il cappellino gli scivolava di lato. Una donna, da un asciugamano accanto, si voltò verso l’uomo, lanciandogli un’occhiata inequivocabile. L’uomo sospirò, senza alzarsi, solo puntò i gomiti sulla tela ruvida della sdraio, per farsi più su. Sua nuora lo avrebbe ammazzato.
Carlo!, urlò in direzione del bambino, Carlo!, ripeté cercando di alzare la voce, ma senza risultato, maledetto grecale, e si mosse ancora sulla tela arcuata, goffamente, fino a che non si rassegnò ad alzarsi. Percorse i pochi passi che lo separavano dalla riva, Carlo!, disse ancora mentre di nuovo si infilava la camicia dentro ai pantaloni, con i medesimi gesti, prima davanti poi dietro poi di nuovo davanti.
Solo quando fu quasi su di lui il bambino si voltò, e protetto dalla sua ombra gli sorrise. Ciao nonno. Faccio i lavori, gli disse indicando davanti a sé, poi riprese con la paletta a scavare e ammucchiare i ciottoli da una parte, a formare una catasta ordinata. Faccio i lavori ripeté indicando verso il molo. L’uomo si voltò anche lui, il vento sempre più forte lo rendeva adesso simile all’asta di una bandiera, un ridicolo tricolore spento sui toni del beige.
Aperta la pinza, la gru si voltava ora verso il pontone, a cercare un nuovo blocco, il cavo dietro come un pennacchio. Piccole creste spumose aggredivano adesso la grossa chiatta di lato e da dietro, aperte come le fauci di piccoli squali. L’uomo guardò verso ovest.
Andiamo sotto l’ombrellone, disse al bambino, tendendogli una mano per farlo rialzare. Sei troppo rosso e se ti scotti tua madre si arrabbia con me.
Ma io voglio fare i lavori, protestò il bambino indicando la sua piccola diga in ciottoli.
Un rumore più forte, un colpo secco arrivò dal molo, a testimoniare che un altro blocco era stato posato, seguito dalle urla dell’operaio a terra. L’uomo guardò il pontone, ne valutò per un istante il dondolio, poi si voltò di nuovo verso il nipote. Se vieni sotto l’ombrellone il nonno ti racconta come si fanno i lavori, disse, e subito la mano calda del bambino si infilò nella sua. L’uomo lo prese per un braccio. Vedi quei grossi blocchi, proseguì mentre si incamminavano, i passi incerti sul terreno instabile, la sabbia che gli insinuava nelle scarpe, dentro i calzini. Quei blocchi si chiamano tetrapodi.
Tricetrapodi, disse il bambino, come i dinosauri.
No, te-tra-po-di, ripeté l’uomo, cercando di scandire meglio le sillabe, Servono per… aggiunse, ma non ebbe modo di finire la frase, le sue parole coperte da uno schianto profondo, come una frattura nel terreno, e allora si voltò, il bimbo che gli scivolava dal collo, giusto in tempo per vedere il grosso tetrapodo colpire il molo, cadere sulla scogliera, indugiare su un vertice per poi rotolare giù, sulla spiaggia, verso di loro.
Nella nuvola alta di polvere e sabbia che ne seguì, l’operaio in cima al muro paraonde non si vide più.
Coglioni, fare i lavori d’estate e con questo vento, coglioni! urlò l’uomo agitando le braccia verso il molo e poi ficcandosi la camicia dentro ai pantaloni al solito modo, prima davanti, poi dietro e ancora davanti, mentre il bimbo sotto di lui piangeva, i piedini nudi affondati nella sabbia nera. Coglioni, ripeteva, Coglioni che non sanno come si lavora, mentre la donna dell’ombrellone accanto si precipitava su di loro, prendendo il bambino in braccio, gli asciugava le lacrime, gli offriva da bere, e tutta la spiaggia attorno a loro adesso pareva un turbinio di gente che si allontanava e che si avvicinava, come un’onda, e nell’aria ora di ghiaccio non più le parole dell’operaio Più giù, Più su, ma le sirene dei mezzi, le intermittenze sfalsate dei vigili del fuoco, dell’ambulanza, della Capitaneria di Porto, le sirene dei mezzi che arrivavano via terra e via mare, circondavano il pontone e il molo tutto, a ricacciare i bagnanti dalla piccola spiaggetta fino al bar della Piazza, qualche decina di metri più in là.
Nella confusione dei corpi seminudi e unti, l’ingegner Bussoli, con la sua camicia di cotone azzurro chiaro dalla quale si intravedeva la canottiera, con i suoi pantaloni con le pence e i mocassini fuori moda era l’unico ad avere un aspetto adeguato, perfettamente a suo agio, se non fosse stato per quel bambino di neanche quattro anni, costumino con le paperelle gialle, che di nuovo teneva per mano, e trascinava fino al nastro bianco e rosso che era stato tirato frettolosamente, e dietro al quale stavano i soccorsi, per poi piazzarsi lì, dritto, impettito, fino a quando finalmente non sentì Ingegner Bussoli! Che piacere, e vide il maresciallo Bini venire verso di lui, le braccia larghe, ad accoglierlo come per tanti anni era stato.
Eh… maresciallo…, disse l’uomo alzando il mento a schernirsi, e lasciata la mano del bambino di nuovo a sistemarsi la camicia nel medesimo gesto, Mio nipote, sì, il figlio di Riccardo, riprese, Se lo ricorda.
Come no, ingegnere anche lui, dico bene?
Ingegnere, ingegnere, adesso… sa come sono all’università adesso, no…
E lo so, e lo so. Anche i lavori, sa? Anche i lavori… Da quando non c’è più lei… ma non c’è bisogno manco di dirlo, vero?
L’ingegner Bussoli non replicò, se non con un movimento della mano, alto, una torsione che ricordava i ballerini di tango, mentre il bambino li guardava da sotto in su, in silenzio, le gote impiastrate di sabbia e sale.
Ai miei tempi, ai miei tempi, riprese dopo un po’, quasi a voler ricominciare da capo, la medesima conversazione di prima, ma l’altro faceva già si allontanava, un primo passo indietro, poi un altro, come un gambero.
Ingegnere, mi ha fatto piacere, si decise infine a dire, Ora devo andare. Ma torni a trovarmi, eh… Torni. Mi spiace per quello che è successo, sa? Mi spiace veramente.
Il vecchio distolse lo sguardo.
Il piccolo capannello si compresse per un attimo, spinto indietro dalle braccia a croce degli uomini della Protezione Civile, mentre una barella sfilava verso la bocca dell’ambulanza già aperta. Sopra l’operaio guida, intubato e legato strettamente con le cinghie, a fare tutt’uno con il mezzo.
L’ho sempre pensato io, che lei non c’entrava niente, sa…, proseguiva il maresciallo, e adesso è l’ingegner Bussoli che fa un passo indietro, Lei, proprio lei, con tutti i lavori che ha seguito, un altro passo ancora, Figuriamoci se uno come lei poi aveva biso—
Tricetrapodo!, urlò il bambino tirando adesso la mano del nonno, Tricetrapodo!, ripeté cercando di muoversi verso la barella. L’operaio guida voltò appena il capo verso di loro, gli occhi iniettati di terrore.
Tri-ce-tra-po-do!, disse ancora il bambino, adesso scandendo bene le sillabe, mentre il capannello si disperdeva e loro soli restavano là, davanti ai mezzi di soccorso.
Il bambino guidò il vecchio verso il molo, si sedette fra due bitte, battendo con la manina accanto a sé a fare posto al nonno. Il vecchio si sedette, le gambe ciondoloni verso l’acqua. Il vento era calato. Alla loro destra un grosso gabbiano sventrava un piccione con colpi secchi, metodici.
Nonno, mi racconti i lavori?, disse il bambino al vecchio, e il vecchio cominciò a raccontare.