Malgrado le mosche è stata investita di una responsabilità: partecipare alla giuria di qualità che ha effettivamente assegnato tre borse pigre a tre autori. Il primo classificato ha vinto la partecipazione gratuita al GSSP, il secondo e il terzo classificati si sono aggiudicati una settimana gratuita e uno sconto sulla quota di iscrizione.
I racconti dovevano concentrarsi sul tema della pigrizia e non superare le duemila battute, dice: perché vi pesa il culo. No, perché così è stato deciso. Sono le regole, ogni situazione ha le sue regole, che dobbiamo fare. Poi si possono giudicare sbagliate, si possono cambiare, si possono contestare, ma in partenza ci sono, altrimenti come si fa a giocare.
Ma non volevamo parlare di questo.
Qui invece vogliamo pubblicare i racconti arrivati ai primi tre posti. O meglio, avremmo voluto farlo, ma ne pubblicheremo solo due. Vi pesa il culo, starete pensando. No. È che non abbiamo ottenuto l’autorizzazione a pubblicare per uno dei tre racconti.
Questo giustifica in qualche modo il ritardo assurdo con cui stiamo pubblicando questi benedetti racconti, che peraltro sono scritti molto bene, hanno spirito e avrebbero meritato maggiore considerazione? No. Vi pesa il culo, lo state dicendo di nuovo.
Crediamo che la reiterazione della stessa domanda retorica sia alquanto fastidiosa e soprattutto denoti scarsa fiducia e altrettanto scarsa educazione. Diamoci tutti una calmata.
Abbiamo avuto dei problemi. Diciamo in parte dovuti al riscaldamento globale e in parte alle condizioni di vita dell’essere umano in quest’epoca di capitalismo spietato. Non che in passato sia mai stato un simpaticone, il capitalismo. Abbiamo però l’impressione che la vecchiaia l’abbia ulteriormente incattivito. A una certa età bisognerebbe morire.
I racconti sono:
“Un tè sul crinale” di Ismele – primo classificato
“Una mattina difficile” di Alessandro Palmesino – terzo classificato
Un tè sul crinale
di
Alberto “Ismaele” Cogo
La donna appoggiò la tazza sul davanzale e spinse in avanti gli scuri. Si era fatta sera su quel crinale, abitato per secoli da briganti e ora da lei.
– Signora, posso?
Non rispose. Osservò il bosco arrossire sotto l’ultima luce del giorno, già più corto del precedente. Le riuscì di sentire un colpo sordo tra le piante. Forse due cervi in lotta per un angolo della montagna. Si voltò e tornò a sedersi sulla poltrona.
– Dopo quel faro nel Maine, questo è il posto più malinconico che ci siamo trovati. Com’è che si chiama, Mario?
– Appennini, signora.
– Già, Appennini. Chiuderesti la finestra per favore?
L’uomo obbedì.
– Anche il tè.
Le portò la tazza.
– Che volevi, Mario?
– Mi perdonerà signora, ma la cosa si sta complicando.
– Ne abbiamo già parlato più volte.
– Certo signora, ricordo a memoria ogni parola che mi ha detto negli ultimi sei mesi. Ma adesso è grave.
La donna piegò la testa e chiuse gli occhi.
– Gli ospizi non hanno più stanze. Mettono i vecchi sui letti a castello nei corridoi.
Lei sbadigliò portandosi la mano aperta alla bocca.
– Ci sono famiglie intere senza lavoro. Marmisti che chiudono, fiorai che boccheggiano. Il mercato dei fazzoletti di carta è crollato.
– Gli uomini hanno sempre tribolato, Mario. Non è un gran problema. Anzi, dovrebbero essere lieti di questa mia pigrizia.
Mario era immobile a due passi dalla poltrona. Indossava una camicia di flanella e pantaloni di velluto a coste. Il riporto viaggiava come un’onda da un orecchio all’altro.
– Hai dato da mangiare ai cani?
– Poco, signora.
La donna lo guardò per la prima volta negli occhi.
– Poco quanto?
– Poco, la scorta d’ossa sta finendo.
Si alzò facendosi forza sui braccioli.
– I miei cani no, quelli devono pur mangiare. Prendimi il mantello buono. Si ricomincia.
L’uomo sorrise, sfregandosi le mani all’altezza del petto.
– Subito, signora!
La notte s’era presa il crinale. La donna uscì sollevando il cappuccio sul capo. Con il sole, l’indomani, sarebbero tornati i pianti e gli scialli neri in ogni contrada del mondo.
Una mattina difficile
di
Alessandro Palmesino
Oggi no, non ce la faccio proprio ad alzarmi. Sotto le coperte sto bene, fratello, lasciami dormire. Lasciami dormire. C’è sempre casino qui, e non ne posso più. Mahmoud arriva e mi riempie di colpi con un asciugamano bagnato. “Alzati, nero di merda, alzati e vai a lavorare, stronzo”. Mahmoud è così. A noi piace, perché ci fa un po’ da papà, ci ricorda che cosa dobbiamo fare. Senza di lui, non so come farei.
Ma io oggi sono stanco, troppo stanco. Ho la tosse e la febbre, non riesco ad alzarmi. Lo dico a Mahmoud. “Ti alzi lo stesso, africano. Ti alzi e vai, cammina e stai in giro, la febbre passerà”. Cerco di distendere le gambe, le braccia. Sento male ovunque. “Muoviti, pigro figlio di puttana!”, dice Mahmoud. E ha ragione, lo so. Dobbiamo andarcene da qui, noi negri, perché ci hanno già detto da due giorni che oggi il padrone arriverà con la polizia.
Devo andarmene. Ma sono così stanco. Forse è davvero pigrizia. Sono giovane e forte. Ma non ce la faccio. I fratelli sono già usciti tutti. Sono l’ultimo in casa. Mahmoud arriva con un coltello in mano. “Se non ti alzi, negro, ti ammazzo. Ti pianto questo coltello nel cuore, così dormirai quanto vorrai, per l’eternità”. “Mahmoud, stai tranquillo. Ora mi alzo”.
E lo faccio d’alzarmi, lo faccio, mentre lui mi guarda con rabbia. È bravo Mahmoud. È quasi bianco, è algerino. È piccolino, a volte con i fratelli pensiamo a quanto sarebbe facile ammazzarlo. Ma in realtà non lo vogliamo fare. Lui serve a noi, noi serviamo a lui. Così vanno le cose.
Mi fa male dappertutto, ma penso che sono forte, molto forte. Sono forte, è la verità. Questi bianchi che stanno qui sono piccoli, fragili. Una volta da ragazzo ho sollevato la mucca di mio zio. Ho mani grandi. Però mi sento debole come i giunchi del fiume della mia terra. E non ho un medico a cui rivolgermi. Devo stare attento, sono clandestino. E ora devo lavorare. E chiedo a Dio di perdonarmi.