L’incarico

Testo: Francesca Santi
Copertina: Chiara Casetta

Convocazione dalle graduatorie d’istituto ai fini della stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato: questo è l’oggetto della mail che ha tenuto Livia sveglia per tutta la notte; si adagia sul letto, vestita, a osservare le nuvolette di vapore freddo che emette a ogni respiro… la caldaia è rotta, ma a chiamare l’idraulico non ci pensa nemmeno.
Livia passeggia su e giù per il corridoio, sotto lo sguardo attento dei due gatti, impettiti accanto alle loro ciotole: le riempie di croccantini ben oltre l’orlo e getta sabbia bianca sulla lettiera sporca. Si prepara un caffè e nient’altro: lo stomaco già si attorciglia, le succede alla vigilia di ogni decisione dettata dalla necessità e non dalla volontà, dunque molto spesso.
Il caffè le brucia la lingua e non spazza via la sonnolenza che l’accompagna per tutta la giornata: per quella ci vuole il Citalopram – o il Daparox… Nell’indecisione, Livia diluisce dieci gocce del primo in mezzo bicchiere d’acqua e inghiotte una pasticca del secondo. Nell’immediato non sente nulla, ma sa che presto la voglia di piangere svanirà, almeno fino a sera.
Livia si trascina in bagno di malavoglia: non sa truccarsi e non ha voglia di farlo.  Fino all’anno prima non ne aveva bisogno: era come se il tempo si fosse dimenticato di scorrere per lei e tutti la scambiavano per una venticinquenne, poi, una BMW acquamarina non si era fermata allo Stop. Lei ne era uscita illesa: Sandrino no. Non ne era uscito. Il muso del mostro verde-azzurro aveva disintegrato il sedile posteriore.
Il correttore verde fa sparire le occhiaie. Livia non ricorda su quale rivista femminile l’ha letto, ma mentre si guarda allo specchio si sente sciocca ad aver abboccato: sembra un capo indiano pronto alla battaglia, ma se cerca di stendere la crema, picchiettandola col polpastrello, quella si amalgama col fondotinta in un pastone disomogeneo da cancellare con una passata di spugna gelata. I solchi violacei tracciati dai sogni agitati e il naso rosso clown sono evidenti, ma la convocazione non è per un concorso di Miss, così Livia sprofonda nella sciarpa, si cala il berretto di lana fino alle sopracciglia e si infila il giubbotto sopra un maglione logoro, il più caldo che ha. I jeans stringono sempre di più: ha messo su qualche chilo negli ultimi mesi. Ha sempre fame e solo di schifezze.
Livia indugia sulla soglia: piove, ma non ha voglia di portarsi l’ombrello, così si convince che il cappuccio basterà e si avventura in strada, a testa bassa, lasciando che gli occhiali si appannino e che siano gli altri a evitarla.

La scuola non è lontana e non appena Livia ci mette piede assapora un tepore che le ricorda la casa materna e i ricchi Natali dove quasi tutti i regali sotto l’albero erano per lei. Srotola la sciarpa, si libera del cappello, ma non osa togliersi il giubbotto: ci sono altre donne nell’atrio, tutte più graziose di lei, quasi tutte più giovani e di certo tutte meglio vestite.
Le balena in mente un pensiero: “Loro sì che sembrano docenti!”
Livia, invece, si sente in imbarazzo quando la chiamano così e non ha mai rimbrottato gli alunni che le davano del tu: non le è mai sembrato grave.
Un donnone dall’aria gioviale esce da una porticina grigia, appunta i nomi delle presenti e le informa che prima di individuare la supplente dovrà fare qualche telefonata: ci sono delle deleghe.
Una donna tutta ricci, sulla trentina, in camicia di seta e gonna a vita alta le lancia un’occhiata di sguincio: Lei sa usare il correttore – pensa Livia – e ha un ottimo parrucchiere.
Livia si tocca il caschetto informe: può permettersi solo il cinese all’angolo, quello che fa la piega a otto euro e ripara anche cellulari; non se la sente di spendere denaro in frivolezze. Deve pagare il mutuo e le bollette da sola e il resto le basta appena per sfamare lei e i gatti.
Le altre si sono riunite in capannelli: un gruppo di trentacinquenni agguerrite, che fanno rimbalzare lo sguardo da un angolo all’altro dell’atrio, come se stessero studiando una strategia di guerra; un altro di attempate bohèmienne dai capelli troppo colorati, tutte griffate Desigual; un altro ancora di giovanissime in tailleur, come a voler sottolineare la loro professionalità attraverso la sobrietà dei loro completi. Livia non appartiene a nessuna categoria e si apparta vicino a un termosifone, fingendo di controllare i messaggi sul cellulare. Ha sonno, le palpebre calano ed è costretta a darsi un pizzicotto per restare sveglia. Un’amica le ha consigliato lo Xanax, ma con lei non funziona: amplifica i suoi incubi, li rende più vividi e poi le ricorda il pomeriggio dopo l’incidente.
“Punteggio?”
Livia sussulta. È una delle più giovani a chiederlo, sorridente.
“35.” risponde Livia.
E il sorriso della ragazza si spegne: si allontana senza salutare e riunisce in cerchio le altre, come un allenatore di football prima della partita… le giovani alzano la testa una a una, fingendo di guardare il distributore alle sue spalle, ma a Livia non importa. Vorrebbe dire alle colleghe che se potesse lo cederebbe a loro quel posto e tornerebbe a sceneggiare fumetti come quando aveva la loro età, o ancora indietro, quando aveva scelto l’università, anzi, ancora prima, quando aveva rifiutato quel lavoro d’ufficio dopo il liceo… avrebbe accettato e adesso non sarebbe lì a intralciare i loro sogni, che di certo non sono i suoi.
Una bionda scheletrica con la pelle talmente bruciata dal sole da sembrare crepata esce dalla porta grigia: “Livia Bini?” chiede, guardando speranzosa verso le più giovani.
Livia alza la mano, senza emettere un fiato e la segretaria la guarda da sotto gli occhiali.
“È stata individuata. Deve prendere servizio immediato: accetta?”
Una suoneria molesta tronca la sua risposta sul nascere: la giovane collega risponde all’istante ma Livia riconosce comunque la canzone… è “Xananas”, la stessa che ascoltava Dario il giorno dopo l’incidente, mentre lei era sotto la doccia. Non era tipo da radio, lui: forse non voleva che lei lo sentisse piangere. Livia avrebbe voluto uscire dalla doccia, nuda com’era, e abbracciarlo, dirgli che avrebbero ricominciato grazie al bimbo in arrivo, ma si era imbambolata sul gorgo di acqua rosa che scivolava a fatica nello scarico intasato di capelli e solo quando era virato al rosso si era accorta che era il suo sangue a colorare l’acqua.
“C’è mancato poco.” le avevano detto i medici, senza aggiungere altro.
“Accetta?” sbuffa la bionda.
Livia annuisce. Le manca la voce e gli occhi le bruciano.
“Dopo compilerà il contratto” continua la donna, facendole strada in un corridoio che sembra non finire mai “È coniugata?”
“Non più.”
Lo dice in un sussurro, ma l’altra la sente comunque. Livia vorrebbe dirle che in realtà conviveva soltanto prima che Dario uscisse un mattino per non tornare più, congedandosi con un sms: Non ce la faccio.
“Niente figli?”
Livia vorrebbe rispondere che uno è stato ucciso e che l’altro ha quasi ucciso lei, ma tace.
Solo due gatti che mangiano come cristiani – dice, spremendosi una risata sciocca.
Ha voglia di sfogarsi, ma sa che non interessa a nessuno: in fondo ha un tetto sulla testa e non è una madre single, c’è chi sta peggio.
“Ci sono particolari difficoltà da affrontare con l’alunno?” chiede a mezza voce.
“Ma no! È solo un bambino, anche se…”
Livia aspetta, l’altra abbassa il tono.
“Ha colpito un compagno con una matita appuntita all’inizio dell’anno, ma adesso che ha cambiato terapia è quasi sempre calmo.”
“Cosa devo fare? È la mia prima volta in questo ruolo.” dice Livia, indietreggiando mentre la bionda apre la porta dell’aula.
“Sedersi accanto a lui. E aspettare.”
La segretaria le fa cenno di entrare, lei abbozza un saluto e il professore le lancia un’occhiata distratta, continuando a spiegare alla lavagna interattiva.
Livia si avvicina al bambino, lo saluta, ma lui non si volta: guarda oltre il professore, oltre la lavagna, oltre la parete, oltre la scuola, oltre la città, oltre il loro piccolo mondo e, di tanto in tanto, stringe l’astuccio.
Livia gli si siede accanto e aspetta.

0 Comments

  1. Bello e disperato…difficile non provare empatia con la protagonista, che mi ricorda tante supplenti demotivate, stressate che accettano un posto per necessità economica…molto realistico: brava

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