Carestia

Testo: Luca Giommoni
Copertina: Julio Armenante

“Faggio, acero, tiglio, no, pioppo, è un pioppo, betulla, biancospino”, si ripassava tra sé e sé i nomi delle piante, indicandole a una a una, nell’attesa della sciarpa rossa, che non si vedeva.
“La sciarpa rossa compare all’improvviso come il sorriso sulle bocche dei neonati”, rifletteva sulle parole di sua madre mentre guardava di nascosto i rami degli alberi. Senza accorgersene iniziò a tamburellare con le dita sopra al cestino che aveva con sé, neanche per noia ma solo per sviare i brontolii del suo stomaco.
“Apparirà appesa a un ramo: quello è il segnale” gli aveva spiegato sua madre accarezzandogli le guance scarne. “Appena la vedi, lascia questo sotto l’albero e torna a casa, senza voltarti, mi raccomando: i signori del bosco proteggono i bambini ma non apprezzano la loro curiosità”, e gli aveva messo in mano il cestino.
“Nasconditi dietro al grande tronco spezzato del faggio e attendi la sciarpa rossa. Nel bosco, cammina come quando giochi a nascondino e se senti le foglie bisbigliare vuol dire che stanno facendo la spia ai grigi su dove sei, allora devi correre più che puoi, scappare”, si era raccomandata sua madre mentre gli abbottonava il panciotto, con gli occhi appena lucidi per l’ansia di aver assegnato una responsabilità a chi ne dovrebbe essere esonerato.
Pensò se anche Luna, una compagna di scuola, quando era stato il suo turno, avesse provato a immaginarsi l’aspetto dei signori del bosco per gestire meglio l’attesa. Luna non capiva perché tutti avessero paura dei grigi, alla fine sembravano come tutti gli altri, a parte per le uniformi che li facevano sembrare più cattivi.
La sciarpa rossa continuava a farsi attendere e le distrazioni per ignorare un appetito non facile da ignorare iniziavano a scarseggiare. Fantasticò su quale albero sarebbe comparso il segnale, poi squadrò il cestino.
“Non aprirlo per nessun motivo”, gli tornarono in mente le ultime parole di sua madre. “Sarebbe molto pericoloso”.
Il bosco lo conosceva: suo padre glielo aveva insegnato e gli aveva insegnato anche a non averne paura. “Il bosco è la casa di tutte le favole”, gli diceva. “E, nelle favole, tutto finisce sempre bene.”
Si preoccupò che perfino quelle sue riflessioni potessero fare rumore. Un lieve senso di colpa gli suggerì di far tacere la curiosità, ma la fame, sparsa per tutto il suo corpo, esigeva una qualche verità, e le verità non sono mai silenziose.

Tra i rami le ultime luci di un giorno d’inizio ’44 si mischiavano creando strani giochi di ombre. Diede un’impudente occhiata attorno, i palmi delle mani ancora sul cestino. Lo scoperchiò appena, un profumo lo assalì.
Il bosco respirava in maniera regolare, né crepitii né richieste: quiete.
Da tanto non vedeva un dolce, specie un ciambellone.
Rimase con gli occhi sbarrati mentre la pancia gli notificava un’impellenza. Tastò la consistenza dell’inaspettata sorpresa dal profumo di cose fatte in casa. Era ancora tiepido e morbido. Ci affossò delicatamente i polpastrelli e se li portò al naso per annusarli.
Gli avevano sempre recriminato la sua bonaria disubbidienza e ora avrebbe voluto che gliel’avessero punita in maniera più severa ma la sua lingua si leccava già i polpastrelli e quello che gustò aveva un sapore diverso dal quotidiano pane secco ammollato, dalle castagne lesse avanzate sempre dal giorno prima e dalla zuppa così bollente da far dimenticare la pochezza della porzione.
Infilò nel ciambellone entrambe le mani estraendo pezzi che ingurgitava con l’avidità di chi ha conosciuto la carestia.
Solo l’agitarsi delle foglie lo svegliò dalla fragorosa risata che fuggiva dalla sua bocca ornata da briciole di pasta frolla. Alzò gli occhi da dietro il grande tronco. La sciarpa rossa pendeva da un ramo a una qualche decina di metri.
Era una betulla.
Rimase pietrificato in attesa di qualcosa. Con l’agitazione della colpa provò a rimediare ricomponendo alla meglio quello che rimaneva del dolce.
Il manto di foglie alla base della betulla si mosse, svelando un pertugio sotterraneo.
Cercò di non masticare, le molliche gli cadevano dalla bocca come bozzoli di proiettili.
Un signore del bosco si affacciò. A guardarlo bene somigliava al calzolaio del paese. Poco dopo ne spuntò un altro che aveva tutte le sembianze di un cugino di suo padre. Impugnavano dei fucili. Tentò di nascondersi ma i due uomini lo videro. “Vieni subito qua!” gli dissero.
Fece capolino, senza aver trovato le parole giuste per discolpare il suo appetito così poco patriottico.
Quando capì che le foglie avevano già spifferato tutto, era troppo tardi. Grida nella lingua dei grigi erano a meno di venti passi da lui e dai signori del bosco.
Le raffiche di mitra non tardarono.
Provò a rendersi invisibile al riparo del grosso tronco. Sentiva i signori del bosco rispondere al fuoco, tra urla di dolore e maledizioni verso i grigi, o crucchi, come li stavano bestemmiando ora.
Si rannicchiò più che poté dietro al grande faggio spezzato. Con la testa tra le ginocchia, divorava gli avanzi del ciambellone nascosto al buio delle gambe. Mangiava e piangeva. Piangeva e mangiava. Lacrime e briciole, in attesa che gli spari finissero.

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