Testo: Vargas
Copertina: Noia, incomprensione, pazzia, Dio (da Taxi Driver di Martin Scorsese, rielaborazione di Julio Armenante )
“Non sono arrabbiato, solo… deluso”
Il biglietto non si dilunga oltre. A farlo ci pensa la corposa lettera ad esso allegata, insieme ad un abbondante cestino di provviste di ottima qualità. Il biglietto è stampato su carta costosa di un rilassante color crema. Al solo tatto, provoca una sensazione di profonda serenità.
Federico pensa che si tratti di uno scherzo, recapitato di fronte al suo appartamento da qualche buontempone, ma poi si accorge che sul pianerottolo il pacco si ripete, identico a sé stesso con la perfezione di un deja-vu.
Federico incontra per un momento lo sguardo di un condomino, convocato al cospetto del proprio zerbino dalla stessa forza invisibile. Dopo un attimo di reciproca perplessità, prende il sopravvento lo spirito dei tempi ed i due si ritirano con una scrollata di spalle nel proprio appartamento.
La cucina è piccola e contiene lo stretto necessario per rendere edibile il cibo. Il Sole filtra insistente dagli scuri abbassati. Federico preferisce illuminare la casa con la luce elettrica. Gli da l’impressione che sia già sera, che il peggio sia passato.
Dopo aver sistemato il costoso contenuto del pacco nel frigorifero, si abbandona all’abbraccio scricchiolante della sedia, accende la televisione e decide di dare un’occhiata alla lettera.
“Forse mi sono aspettato troppo da voi.
Ho deciso di prendere le redini dell’intera situazione. Sono pur sempre vostro padre ed è ora che mi prenda le mie responsabilità.
Da oggi saprete cosa fare. Da oggi non potrete far danno ad alcuno.
Vi terrò per mano per tutta la strada che serve e quando lo riterrò opportuno potrete tornare a camminare da soli.
Col più infinito amore.”
La lettera è vergata a mano in bella calligrafia. La firma è uno sgorbio curvilineo ed illeggibile, seguito da un’interminabile lista di indirizzi, nomi e indicazioni.
Federico impiega esattamente dodici secondi a cancellare il pacco dalla propria attenzione. La spugna universale è l’apparente assenza di conseguenze. La lettera non chiede impegno né denaro. C’è del cibo in più nella dispensa. Non è affar suo.
Mentre estrae dal frigo una barretta ai cereali che normalmente non si sognerebbe mai di comperare, il suo cellulare vibra. È suo padre: mistero risolto.
Il pacco deve essere l’ennesimo, convoluto messaggio per far capire a Federico che non è capace di badare a sé stesso. Un trentenne allo sbando, con un contratto d’impiego che assomiglia ad una fatamorgana ed uno stile di vita da celenterato.
-Federì ma me l’hai mandato tu, ‘sto pacco? Che cazzo mi significa?
Federico tenta di spiegare, ma non ne ha voglia. Il pacco non può essere opera di suo padre, in effetti. Tutto il condominio ne ha ricevuto almeno uno. Appoggia il telefono sul tavolo, per far si che suo padre se la sbrighi con sé stesso. Un programma della domenica lascia spazio al telegiornale.
Il pacco domina l’intera narrazione. Testimonianze in patria ed all’estero descrivono lo stesso inventario. Un rabbino esaltato dichiara alle telecamere che la firma della lettera è quella di Dio. Lo sgorbio rotondo si legge YHWH.
Il solo accenno alla religione provoca in Federico un calo di interesse. La formazione e gli studi gli hanno insegnato che un Dio manifesto nella vita di ognuno è sintomo di arretratezza. Cialtroneria.
Il pacco deve essere una trovata pubblicitaria, magari Amazon, che ha finalmente cominciato ad usare droni per consegnare la merce. Non può esserci nessun Dio, altrimenti tutta l’autocommiserazione per un’universo crudele ed allo sbando che si fa beffe degli uomini, non avrebbe senso. La fine delle giustificazioni: la responsabilità.
Mentre Federico si accoccola dietro i propri alibi, il telegiornale passa ad un’altra notizia. È il filmato di una telecamera di sorveglianza. Stati Uniti, scuola superiore. Un ragazzo caucasico irrompe seguendo un copione dalla ripetitività deprimente.
I ragazzi scappano ovunque.
L’attentatore inizia a sparare e non sbaglia un colpo.
Poi gli studenti si rialzano. Lui spara di nuovo.
Nulla.
Esasperato, estrae una granata dalla tasca, toglie la spoletta e la lancia ai propri piedi. L’esplosione sembra il trucco pacchiano di un prestigiatore, solo che quando la polvere si posa, tutto è al proprio posto, tranne il ragazzo, distribuito disordinatamente ai quattro angoli della stanza.
Non potrete fare danno ad alcuno.
Gott mit uns.
Senza accorgersene, Federico afferra istintivamente la lettera e per la prima volta nella sua vita prova cosa sia il panico.
La lettera contiene una dettagliata serie di istruzioni che coprono tutti i campi dell’esistenza. Il testo sembra mutare, in sincrono con le intenzioni del lettore. Carriera; vita tranquilla; Amore; piacevoli, innocue scopate. È tutto elencato con certosina precisione.
Il terzo giorno, qualcuno bussa alla sua porta: è una donna, la più bella che abbia mai visto.
Ida Jòndottir è Islandese. A casa gestisce una piccola flotta di pescherecci. La lettera le ha indicato Federico come il grande amore della sua vita. Appena saputo dell’attentato alla scuola, aveva preparate le valige e atteso nel terminal del Keflavik International Airport la partenza del primo aereo per l’Italia. Non se ne sarebbe andata via senza di lui.
Passano l’intera giornata insieme; parlano molto ed altrettanto rimangono in silenzio. Ida resta da Federico altri tre giorni trascorsi in poche ore, poi torna al suo albergo, in attesa che lui prenda una decisione.
Per tutta la permanenza della donna, Federico sperimenta l’amore epurato di ogni scoria. Il volto di Ida diviene la paraeidolia di ogni forma confusa. Immerso nel ricordo, tocca per un attimo il fondale del proprio animo e vi rinviene qualcosa che credeva impossibile da riesumare.
Prima che il terrore lo riporti a sé, sperimenta alcuni minuti di assoluta felicità.
Tre giorni dopo, Federico prende a malapena le misure necessarie per mantenere un aspetto dignitoso. Ogni giorno il pacco con le vivande arriva puntuale. Il suo conto in banca è fermo a 1200€. Quando li spende, gli vengono ricaricati da un misterioso donatore, denominato con lo stesso tetragramma che appare sulle lettere: YHWH.
Ida ha rotto il silenzio e vorrebbe passare del tempo con lui. Non deve per forza decidere subito, ma stare lontani è una tortura per entrambi. Appena Federico alza il telefono, avverte di nuovo il tocco dello strano tesoro sepolto. Ancora una volta ne ha terrore, ma salta in auto più veloce che può.
La gente è in strada, serena. In appena nove giorni da quando il pacco è arrivato, il mondo sembra un posto migliore. Un miracolo.
Federico si irrigidisce al volante, mentre pensa all’amore immenso del Padre Universale, a cui è bastata poco più di una settimana a mettere a posto un’umanità difettosa. La felicità è a portata di mano, finalmente, ma ogni volta che sente il tesoro sepolto riaffiorare gli torna in mente una frase: potrete tornare a camminare da soli.
Lo sa cosa vuol dire questo. Che non sarà per sempre. Prima o poi finirà, senza avvertimento.
Vigilate dunque, poiché non sapete né il giorno né l’ora.
Il pacco è l’assaggio di una gioia destinata a finire, un’ombra su un’esistenza serenamente programmata. Era questo il terrore che gli aveva stretto la trachea quando aveva visto Ida per la prima volta.
Il mondo di Federico si fa di colpo velenoso ed angusto, una trappola ascensionale per farlo cadere con più fragore. Non avrebbe mai potuto sopportare un’esistenza del genere e c’è un solo modo per fuggire da quella felicità, che l’uomo aveva passato millenni a seppellire.
A due isolati dall’hotel dove risiede Ida, Federico si schianta a 180 km/h contro un muro, travolgendo, senza danno alcuno, dei pedoni.
Muore sul colpo.
Grosso modo, l’umanità è felice.