Ferrite

Testo: Giulia Guida
Copertina: The hunt of the Unicorn

Siamo seduti nella pancia di un insetto. Una tensostruttura in fibra di vetro a pianta ellittica eretta nel mezzo di un deserto. Ha il corpo oblungo di un sommergibile, ma so bene che non può esserlo. Ne hanno interrotto la produzione quando è cominciata la desalinizzazione degli oceani. Le riserve di acqua potabile erano in via di esaurimento, perciò hanno deciso di estrarre il sale e depurare
le acque marine fino a quando non sono rimasti che crateri di sabbia. Niente oceani, niente sommergibili. Solo miniere di sale a cielo aperto. Discariche di cristalli, che hanno reso sterili la maggior parte della terre coltivabili sulla superficie terrestre. Le mosche, però, sono sopravvissute. Tra le poche specie superstiti. Mosche grosse come biglie, traslucide, sempre più pesanti. Non volano più, si trascinano tra le fortezze di sale, gli addomi gonfi, rigidi, infetti. Addomi da rigor mortis.
Noi abitiamo qui. Questo è il nostro mondo.

Nella tensostruttura cento postazioni computer, dotate di cuffie, microfoni e videocamere, disposte in file da sei. Un cubo costituito da sei pannelli di ferrite incornicia ogni postazione, progettata come una camera anecoica. Anecoico: che non dà luogo a echi, un ambiente in cui le pareti assorbono tutti i suoni, imponendo un regime di silenzio assoluto. La ferrite è in grado di assorbire le onde elettromagnetiche incidenti sulla superficie del campo e convertire l’energia così generata in energia termica. La ferrite ingoia suono e vomita calore. Distendo le gambe sotto il tavolo, gambe porose, anemiche, inerti – quand’è stata l’ultima volta che hai passeggiato all’aria aperta?
Porto lo sguardo sullo schermo di fronte a me, inserisco le credenziali di accesso per la mia area riservata: visualizzo gli ultimi prodotti acquistati e venduti, controllo il saldo disponibile sul conto, e comincio a scorrere la lista degli articoli suggeriti: un bulbo di tulipano olandese annata 2017, un cesto di fichi siciliani criogenizzati e un manuale di tecniche di respirazione intitolato “Quantum Touch – il tocco che guarisce” – quand’è stata l’ultima volta che hai toccato una persona?
Riduco a icona la pagina, accendo la videocamera, un mulinello di luce mi ipnotizza. Sbatto le palpebre a intervalli irregolari per scacciare i moscerini bianchi che invadono il mio campo visivo. Penso alle rondini, agli stormi che sconquassavano il cielo di Milano a fine ottobre. Questa mattina la voce robotica che conduce la trasmissione “L’asta dei ricordi” annuncia il rinvenimento di tre nuovi reperti, tutti presumibilmente appartenenti allo stesso nucleo familiare, databili tra fine 2019 e inizio 2020. La scoperta è avvenuta a seguito dell’impatto tra una gru mangia-detriti e una banchina di sale: l’esplosione ha riportato alla luce le rovine di una villetta bifamiliare, crostoni di intonaco giallo, stralci di carta da parati con dei conigli rosa, frammenti di un camino in pietra. Coordinate geografiche: latitudine 45°27′51″ N e longitudine: 9°11′22″ E. Casa mia. Deglutisco a fatica, il battito accelera, dalla nuca si sprigionano fasci di scosse elettriche che si scaricano a terra, punzecchiandomi le dita dei piedi.

Sullo schermo compare la lavagnetta con le icone dei tre pezzi messi in vendita. Clicco sulla prima. Un pacchetto di Marlboro gialle morbide, l’ultimo che mio padre ha comprato dal tabacchi di Viale Liguria nel novembre 2019. La prima ondata di desertificazione avrebbe cancellato la nostra parte di pianeta nel giro di un mese. Un pacchetto da 20, quasi integro, mancano solo due sigarette. Le mani squamate di mio padre, puntellate da arcipelaghi di macchie rossicce. Le mani-ramo di un padre-arbusto che fuma sprofondato nella poltrona blu in salotto, sempre più piccolo, più magro, più bianco. Ho conservato quel pacchetto per mesi, dentro un sacco di plastica per congelare gli alimenti. Lo spostavo da uno zaino all’altro in tutti gli accampamenti in cui ho trovato riparo nel primo anno di peregrinazione. La notte, quando non riuscivo a prendere sonno, lo stringevo forte tra le dita fin quando la carta non si raggrinziva. Poi mollavo la presa e cominciavo ad accarezzarla per farla tornare liscia.
Lentamente, con amore e disciplina.

Tiro un respiro profondo, le orecchie ovattate dalle cuffie, la ferrite si mangia anche il mio fiato. Il secondo articolo è una caffettiera da due, grigio carbone, marca Bialetti, una vecchia azienda italiana specializzata nella produzione di piccoli elettrodomestici per la casa. Quando mia madre l’aveva acquistata nella filiale di Via Dante, il negozio era uno dei pochi punti vendita rimasti aperti. Avrebbero dichiarato bancarotta nel giro di un semestre, nella maggior parte delle case non c’era più il gas, la corrente elettrica era razionata e garantita soltanto in alcune fasce protette, l’uso di qualsiasi fonte di calore sarebbe stato presto proibito dal Comitato di Conservazione dell’Ecosistema Terrestre al fine di limitare il rischio di incendi spontanei. Mia madre si alzava ogni mattina alle cinque e mezza, stretta in una vestaglia di pile dalla trama scozzese, una sagoma nervosa, le spalle scavate, le clavicole sporgenti, i muscoli delle braccia affamati. Gli stessi gesti nella stessa sequenza: svitava la caffettiera, sciacquava nel lavello la caldaia, riempiva il filtro di caffè fino a formare un promontorio in miniatura e riavvitava il raccoglitore con forza, schiacciando leggermente la punta della lingua tra i denti. Poi si sedeva e rimaneva in attesa che mi svegliassi per fare colazione. Le labbra si schiudevano in un sorriso scheletrico, gengive trasparenti, denti anneriti qua e là, come sbuffi di fuliggine: “la caffettiera è già pronta, basta accendere il fuoco” squillava, ma gli occhi mi scrutavano ansiosi, due botti di petrolio di cui non sono mai riuscita a intravedere il fondo.

Sulla terza icona la mia mano indugia qualche secondo. Vorrei poter intercettare un ronzio, un’interferenza sonora che frantumasse questo loculo di silenzio perfetto, ma c’è solo il rintocco del ferro che mi chiude la gola, la lingua ingabbiata in un’armatura di metallo, rottami che a cascata si depositano l’uno sull’altro tra le corde vocali – sapresti descrivere ancora il suono della tua voce? L’icona lampeggia, impassibile, in attesa del mio doppio clic. Materiale audiovisivo, recita la descrizione. Lo schermo proietta un filmato archiviato sulla scheda di memoria esterna del mio ultimo cellulare: un albero di Natale, Natale 2019, che traballa sfocato tra i led dorati e le palline rosse. Mio nipote piange ancora nella stanza accanto, qualche ora prima ha urtato un blocco di ghiaccio in giardino e si è sbucciato un ginocchio. Qualcuno dalla cucina mi domanda se voglio le castagne. Fisso il fermo-immagine dell’albero, i rami di plastica verde mi solleticano il naso.
Sì, giusto qualcuna, rispondo. Giusto qualcuna.

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