Testo: Gabriele Esposito
Copertina: Disegnetto #1 – Carlo Martello
Puntata #1
Siamo le stesse persone
ma ancora più lontane da casa
su autostrade a cinquanta corsie
su un continente di calcestruzzo
scandito da melliflui manifesti pubblicitari
che illustrano imbecilli illusioni di felicità
Lawrence Ferlinghetti, A Coney Island of the Mind
A
Prendete posto, vi prego.
L’ufficio di sei metri quadrati ci contiene tutti e tre con difficoltà. Oggi ci sono trentacinque gradi: il ventilatore ce la mette tutta ma non ce la fa a rendersi utile. L’aria condizionata non rientra nel budget, se possibile lavoro con elettricità zero. Ricevo i miei ospiti in canottiera, il pelo è abbondante, l’ombelico è scoperto, gli odori nell’aria chiusa di questa stanza sono i più disparati. Tengo chiusa la finestra, le persiane giù: il sole verrebbe a farci visita molto prima della brezza.
Loro fanno come dico: prendono posto, ubbidienti. Un punto a favore.
Lui sembra un tipo sui quaranta, ma dalla lettera che mi ha scritto so che ne ha cinquanta. Bell’uomo. Bel fisico. Il mio opposto. Ma non deve aver combinato molto nella vita: avventure, tante; educazione, elementare; lavoro, poco; bisogno di soldi, estremo. Io non posso pagare molto. Dovrò accontentarmi, lo so già.
Lei sarebbe anche una gran bella ragazza, peccato che le manchi un dente, un premolare, uno di quelli dell’arcata superiore. Di anni ne ha una ventina, venticinque al massimo, ma va rimessa in forma. Va ripulita dalla vita. Le va prima impartita un’istruzione di base, la dizione va corretta. Questo accento veneto non si può sentire.
Dico loro quello che posso pagare. Lui sbuffa. Lei non cambia espressione. Davvero, devo pagarle il dentista, così non va.
Chiedo loro fino a dove potrebbero spingersi. Sembrano non capire. Mi rendo più esplicito: chiedo loro se sono disponibili a lavorare senza vestiti, quando le esigenze lo richiederanno. Lui ride. Lei non cambia espressione. Credo che lei si faccia di qualcosa. Troppo apatica per essere naturale. Forse i pochi soldi che sono disposto a darle le servono a quello. Sembra tuttavia disponibile a fare quello che mi serve: come spenderà lo stipendio in fondo non mi interessa. Basta che si tenga in forma il tempo di finire il lavoro.
Chiedo a lui di levarsi la camicia. Non ha tatuaggi. Bene. A lei invece è permesso: se ne ha o meno non è rilevante. Faccio fare all’uomo qualche esercizio fisico: il corpo tiene, prova superata.
Dovrete studiare. Molto.
Lui si riveste, non sembra contento, si lamenta, mi dice di non essere un intellettuale, le sue prestazioni ideali sono di altra natura. Non è uomo di cervello. Lei continua a fissarmi. Se non fosse davvero così bella, pur nella sua inadeguatezza nello stare al mondo, le indicherei l’uscita. Non che sia difficile trovarla, viste le dimensioni della stanza.
Tiro fuori dallo zainetto due o tre libri e qualche quaderno di appunti. Qualche cd, soprattutto musica classica. Lui fa una smorfia. Lei annuisce, prima reazione negli ultimi dieci minuti. Dovrà cercare di astenersi, in questo periodo. Mi serve piena di vitalità. Forse non è la persona giusta, ma è l’unica che si è fatta avanti. Avessi più soldi.
Mi chiedono quando si inizia.
Se vogliono: anche subito. A lui la parola.
1
I vinili e la vaselina io li uso per le grandi occasioni.
La puntina del grammofono graffia lenta la patina del disco, le note di Mascagni escono gloriose dalla tromba dello strumento. È una meraviglia, lo ho appena fatto restaurare, profuma di resina naturale. Il tappo del tubetto cede solo dopo qualche insistente pressione del polso allenato. Trasparenze nell’olio che subito ne esce. Trasparenze nella biancheria intima di lei.
Intermezzo. Cavalleria Rusticana. Amore basico, primordiale, fragranze di erba appena tagliata.
La musica è così dolce, e anche Cinzia lo è, e Cinzia accetta tutto, anche la presenza latente delle altre mie amanti, l’odore complesso di queste lenzuola; perché Cinzia mi vuole, sempre, così quanto Lola vuole Turiddu, così quanto Santuzza vuole Turiddu.
Io pure lo accetto, il ragazzetto che ogni tanto la viene a prendere all’università.
Se lui accetti me non lo so, certo è che io, Enrico Proci, professore ordinario, critico televisivo, nudo con ventimila euro al polso, alla fine mica mi faccio ammazzare come un contadino qualsiasi. Per gelosia: figuriamoci.
I colpi di reni che regalo a Cinzia sono perfetti, frutto di duri allenamenti in palestra, frutto degli stacchi da terra, dei box jump, della forza esplosiva così sviluppata nei muscoli delle mie natiche, della schiena, delle cosce.
Chissà quello che sta pensando. Amore mio stupendo. Gli archi dell’orchestra filarmonica – condotta così bene da Gianandrea Gavazzeni – ci accompagnano là, dove sappiamo entrambi, dove nessun altro partner ci sa portare in maniera così netta e così perfetta.
Cinzia viene a casa mia quelle due o tre volte a settimana, fa quello che deve fare, quello che voglio fare, si riveste e se ne va. Per parlare d’amore c’è tempo, quello si può fare anche a ricevimento, che è sempre il martedì alle dieci e mezzo nel mio ufficio. C’è sempre solo lei che aspetta, ogni volta. Guarda la carta da parati verde fastidio, seduta in quella panchina così squallida che il bilancio del dipartimento non riesce a cambiare. Un giorno o l’altro gliene ordino io una nuova, su Amazon, a mie spese. Cosa sarà mai. Per quel suo bel culo, che non si appiattisca ad aspettarmi, poveretto.
Perché ci sia sempre solo lei ad attendermi non lo so – e poche sono le cose che ignoro – ma sospetto di fare paura a tutti i mediocri studenti del master. Gira voce che una volta ne ho morso uno, uno che aveva detto una coglionata, uno più mediocre degli altri. Non perderò tempo ora a smentire o meno una malignità simile. Basti sapere che se io mordessi qualcuno come minimo mi comporterei come Mike Tyson nei confronti di Evander Holyfield nel 1997, e storie di sangue all’università finora non ci sono state. Ci tengo al mio lavoro.
Cinzia è l’unica studentessa che mai abbia accettato di fare il dottorato di ricerca con me. La aspetta una brillantissima carriera accademica.
Oggi rimane più del solito, si stende prona nel letto, stanca, attende il finale dell’opera, sono solo pochi minuti dopo il passo strumentale che ha accompagnato il nostro amplesso. Il duello, l’urlo agghiacciante – hanno ammazzato compare Turiddu! – che riposino in pace, Turiddu e Cinzia. Oggi faccio un’eccezione, mi rivesto prima io, mentre la guardo, così bella, ancora persa nell’estasi, non dovrebbe nemmeno perdere tempo a studiare così tanto, potrebbe far altro nella vita.
Ho messo la camicia, il completo blu, le scarpe marroni di cuoio inglese. Sono pronto. Lei è lì che esita, e mai bisognerebbe far aspettare il proprio relatore. Oggi ho pure fretta, a mia volta non voglio fare aspettare qualcuno, il direttore del dipartimento, lo voglio dell’umore giusto, devo chiedergli più fondi di ricerca. Perché Cinzia non si leva dalle palle?
Si siede nella posizione del loto. Come stanno su le tette a lei, nessuna. Però muoviti, Cinzia. Rivestiti. Vattene, te ne prego.
Le sorrido. Devo mettermi la pomatina, ieri mi sono dimenticato. Quella che sbianca i denti. Oppure quasi quasi chiedo a Serena, la segretaria, di prenotarmi il dentista. Così ho un motivo per parlarle. Ah, Serena mi resiste sempre.
«Professore.»
«Mi dica, Cinzia.»
Rimane una relazione professionale, prima di ogni altra cosa. Meno male. Se dovesse iniziare a chiamarmi Enrico mi preoccuperei, poi da lì a darmi del caro, dell’amore, del tesoro, ci mancherebbe poco.
Si accende una sigaretta, fuma con fare seducente, sì, peccato però che vista e olfatto non convergano verso il piacere e che a me l’odore del tabacco bruciato dia fastidio. Se poi mi brucia le lenzuola è un problema, ché mi toccherebbe cambiarle, e a me piace dormire con l’odore di femmina appena colta. Le ripeto l’ordine, più veloce, più sonoro.
«Mi dica, Cinzia.»
«Mi è venuta un’idea.»
Anche a me ne vengono tante, ogni giorno, ogni ora, è per quello che sono uno stimato accademico, è per quello che ora il professor Mauro mi accorderà il finanziamento che ho in testa, se almeno non arrivassi tardi all’appuntamento, ché questo è uno più preciso di me e ci tiene, non per niente è il capo. Il mio capo.
«Cinzia, possiamo parlarne martedì, a ricevimento. Come sempre. Appuntati l’idea. E rivedi il capitolo terzo della tesi che, fatto strano per i tuoi standard, è sottotono.»
Carota e bastone. Entrambi simboli fallici, non ci avevo mai pensato. Forse è per questo che la mia dottoranda preferita rimane imperterrita di fronte alle critiche. Devono piacerle.
«Non è per la tesi.»
Quando un ricercatore junior si mette ad avere idee che esulano dalla propria tesi non è bene. Se poi questo ricercatore è la mia amante e le idee sono in merito alla nostra relazione, è anche peggio. Devo terminare la conversazione.
«Martedì, Cinzia. Se vuoi restare, resta. Chiudi bene la porta dietro di te, poi.»
Non ho niente da nascondere, a casa. A me basta non avere rogne con il suo ragazzetto. Che non si faccia beccare da lui a casa mia. Ché se poi mi obietta qualcosa devo per forza mandarlo all’ospedale e avrei grane con i genitori, con Cinzia stessa – ma in fondo chissenefrega –, con il professor Mauro – più grave – e niente, insomma, non mi va. Le rotture di coglioni vanno evitate il più possibile.
Cinzia chiude gli occhi e aspira la sigaretta. Poi mi manda un bacino e sorride. Che bella.
«A martedì, professore. Sto ancora dieci minuti, poi vado.»
«Ciao. In frigo c’è lo skyr, quello che piace a te. Serviti pure. La colazione è importante.»
Esco di casa. Faccio ancora in tempo a camminare, una ventina di minuti e sono all’università. Così stimolo il pensiero creativo. E soprattutto, evito i pendolari. Sono dappertutto, ne siamo invasi. La gente la mattina va a lavorare. C’è troppa gente, troppo lavoro. Corrono, spingono, si ammassano nei mezzi pubblici. Bloccano le strade con le loro macchine. La mattina io ho bisogno di silenzio, di pulizia, di profumo, di musica, note limpide. Ho bisogno di tenere fisso il ricordo del culo di Cinzia, l’odore della ragazza, il suo ritmo perfetto da ballerina di tango; e il timbro dei violini di Mascagni, il sapore del legno antico che solletica ancora le mie orecchie, così dolce. Non queste stecche, questo puzzo di sudore, i clacson, questa normalità giocata al ribasso. Allora canticchio, canto male ma lo faccio lo stesso, almeno do fastidio alla gente anche io, O Lola ch’hai di latti la cammisa, si bianca e russa comu la cirasa, Pavarotti mi farebbe un appunto e farebbe bene. Ah, come posso io salvare il mondo dalla sua mediocrità?
Puntata #2
B
Prendete posto, vi prego.
Continua a fare caldo. Appuntamento a mezzogiorno, non è ideale, devo accogliere i miei ospiti a petto nudo, non sono un gran bel vedere. Io.
Prendono posto.
Lei è strepitosa: è meglio, molto meglio dell’altra ragazza. Peccato avere già investito tanto tempo, risorse, anche economiche, in quell’altra. Questa mi serve meno, è uno spreco, ma tant’è. È qui davanti a me, ora, ed è comunque perfetta. La voce è intensa: ipnotizza. Mi sembra di ascoltare Debbie Harry, la cantante dei Blondie.
Indossa una protesi: le manca un pezzo di gamba, me ne accorgo solo ora, nei messaggi scambiati lei non ne faceva menzione. Accidenti. Un destino poco amichevole, questa avrebbe potuto lavorare come modella, ad altissimi livelli, e invece eccola qui a elemosinare le poche banconote che posso rifilarle io. La prendo lo stesso, è perfetta così. Faremo attenzione a non mostrarla mai dalla vita in giù.
L’uomo che è con lei, seduto di fronte a me, è un vecchino grinzoso vicino agli ottanta. Me ne servirebbero circa quindici in meno, ma posso davvero essere così schizzinoso? È pieno di tic, ogni venti secondi ruota la spalla sinistra, poi inclina la testa e si aggiusta gli occhiali. Gli occhiali sono belli. Gli domando dove li ha acquistati e ne prendo nota sul taccuino.
Bisognerà lavorare sul tic, farlo sparire. Lui annuisce, poi ruota la spalla e inclina la testa.
A lei chiedo solo di parlare, a braccio, che mi racconti la sua giornata, la sua vita. Non me ne frega niente, devo solo valutarne la voce, cerco di lacrimare un attimo mentre mi parla del suo incidente, lacrima anche lei, lacrima anche il vecchietto, tiro fuori i kleenex dal cassetto, ne distribuisco due o tre per ciascuno. Ne approfitto per asciugarmi anche il sudore. Fa caldo.
Le menziono la cifra. Non pare contenta, ma cosa volete che vi dica. Accetta.
Lui anche, la sua pensione è minima, è un pover’uomo, questi denari gli servono molto. Dovrà studiare. Non tanto, ma qualcosina sì. Dovrà imparare a tenere ben dritta la colonna vertebrale. Il petto sempre in fuori. Portamento. Apro l’armadio, gli passo una giacca, non è il massimo ma è meglio di quella bucata che indossa lui. Mi domanda se poi se la può tenere. Può.
Adesso, al lavoro.
2
È un piacere davvero grande parlare con il professor Mauro, soprattutto come prima incombenza professionale della mattina. Per due motivi principali. Il primo è senza dubbio alcuno Serena, che siede nell’anticamera del decano, così composta, così presente, pare una valchiria, senz’altro Brunilde, la più provocante, la più forte, la più stronza. Saprei bene con quale brano del repertorio lirico fare l’amore con lei. Wagner ogni tanto mi manca, non lo ascolto più da qualche settimana, non mi rilassa, mette in tensione tutti i miei muscoli e poi mi vengono in mente gesti inconsulti di ogni tipo. Ma per Serena non ci sarebbero problemi a rispolverarlo. Se solo mi facesse un cenno…
Il secondo motivo è che parlando con Mauro ci si sente dei luminari davvero di livello. Non che io non lo sia – lo sono – ma in questi frangenti la cosa si esalta, ci si sente pronti per tenere un discorso a Stoccolma un 10 dicembre qualsiasi: davanti al Re, davanti a tutti, con il frac cucito su misura dalla sartoria Stellini – come mi si disegnerebbero bene tutti i muscoli! – e la medaglia del Nobel in mano.
Anche il mio completo blu non è male, e il professor Mauro somiglia a Gustavo di Svezia, allora io parlo e lui ascolta, sempre, tanto sa che tra tutti qui dentro io sono quello che dice le cazzate meglio, e meno. E poi porto visibilità, qualche volta appaio in televisione, sono conosciuto, e pubblico anche, pubblico bene. Riviste internazionali, mica come gli altri. Allora questi due milioni me li deve dare: è metà di tutto il budget lo so, lo so. L’aumento a Serena? Quello va bene, lo accetto, è giusto. E a lei, professor Mauro, certo, qualche finanziamento al direttore ci sta. Ma rimangono cifre piccole, io qui parlo della grande ricerca accademica. Gli altri? Si accontenteranno. Un milione e mezzo? Va bene, posso accettare, rinuncerò a qualche dottorando, tanto ho solo Cinzia e può fare tutto lei e farlo bene.
Neanche un quarto d’ora di colloquio e pare che anche per l’anno 2019 l’attività sia coperta.
Che noia.
È sempre così.
«Senta, Proci, un’ultima cosa.»
Richiudo la porta. Torno a sedermi.
«Direttore», sorrido, perché sorridere mi viene bene, e si dice nei corridoi che Mauro apprezzi. Che apprezzi molto. Lo si vede da come ora si passa la mano tra i capelli brizzolati.
«Siamo un dipartimento di scienze della comunicazione, giusto?»
Mi sento davvero come un premio Nobel innanzi al Re, ora, lo giuro. Sta giocando con me?
«Beh, sì, direttore.»
Meglio non infierire, non entrare in polemica, non farlo sentire l’idiota che è: il milione e mezzo di fondi è ancora solo nella sua e nella mia testa, non c’è inchiostro a provarlo.
«Allora, mi piacerebbe che facessimo anche delle attività più audiovisive: non solo ricerca pura, insomma, che producessimo dei filmati, delle cose nuove, contemporanee, mi segue?»
«Una buona idea, certo, direttore, però non la seguo, non capisco.»
«Eh, non mi capisce, lo so, per questo lei è professore e io direttore.»
Davvero, un discorso da sovrano. Il potere prima del sapere. Sempre. Da ufficiale di complemento, durante la naia, mi sarei anche messo sull’attenti, e per bene, davanti al meno stellato dei generali. Io, che all’epoca avevo già finito il dottorato a Stanford. Ininfluente.
«Vede, Proci, in questo milione e mezzo che ora io le colloco, mi piacerebbe lei trovasse spazio per qualche produzione video di qualità. L’argomento lo trovi lei. Ma non si bruci tutti i soldi per qualche inutile paper che leggeranno in tre. Ci dia visibilità vera. Con il grande pubblico. Chi, se non lei, qua dentro.»
Non ha tutti i torti. Vogliamo fare questa pagliacciata? Allora tanto vale che la facciamo bene, e quindi che la faccia io. Do il mio ok, tutto, purché questo colloquio finisca. Non sopporto lo scarno arredamento di questo ufficio, la foto della madre del direttore, stampata su carta ad alta grammatura; il padre da bambino, bianco e nero di rigore, vestito da balilla. Le pareti dipinte di arancione chiaro.
Dopo trenta secondi di silenzio passati a guardarci negli occhi, mi alzo e mi ritiro nel mio sgabuzzino personale. Lascio la porta aperta e con il volume al massimo faccio vibrare il computer sugli acuti di Donna non vidi mai, Manon Lescaut, primo atto. Giacomo Puccini. Canta Beniamino Gigli. Chissà che Serena mi senta, dal suo ufficio. È per lei.
Martedì mattina vedo Cinzia. Questa ragazza si impegna, ma diciamocelo, se troverà lavoro in accademia sarà solo grazie alla mia firma sulla sua tesi, per la mia co-authorship dei suoi paper. Sarebbe anche bene che iniziasse a pubblicare, un altro rifiuto da parte di una rivista e la scarico. Grazie all’anonimia i colleghi di ogni paese mi pugnalano, mi bocciano, criticano con durezza futile gli articoli. Lo faccio anche io con loro. Arrivo in ritardo, quaranta minuti, lei è lì sulla panca, con il solito tailleur da giorno del ricevimento, la collanina regalo del fidanzato, il diamante – piccolo, forse artificiale – l’occhiale Ralph Lauren portato senza le lenti, solo perché in fondo è un’intellettuale e vuole farlo vedere.
«Vieni pure, Cinzia.»
Faccio il galante, le apro la porta, la faccio sedere nella solita sedia degli ospiti, in fondo è riservata a lei. Mi piazzo dietro la scrivania, metto su l’Intermezzo. Lei arrossisce. Può darsi che lo faccia anche apposta, sa che la adoro con quel colorito tra le guance.
«Ora posso raccontarle la mia idea, professore?»
Sbuffo. Nota il mio disappunto.
«Cinzia, dovresti concentrarti sugli articoli da revisionare, lo sai, le nuove idee tienile per quando sarai ricercatrice confermata.»
Mi interrompe. Non lo fa mai, neanche durante il coito. Vuol dire che è qualcosa di importante.
«Gira voce che Mauro voglia finanziare dei progetti audiovisivi.»
«Sei informata bene, e meglio di me: l’ho saputo solo adesso. E allora?»
Si toglie gli inutili occhiali, li poggia sulla mia scrivania. Una mossa impostata: controllo del territorio.
«E allora, secondo me, ti ha coinvolto.»
«Certo. Chi dovrebbe coinvolgere? Carlo Giusti, la cariatide? O il dandy, come si chiama, Alberto Massimini? O un banale professore associato? Dai, su, Cinzia, le deduzioni facili lasciale a qualcun altro. Tu devi scrivere le conclusioni del nostro articolo. Quello è un compito difficile, adatto a una studentessa brillante come te.»
Questa volta non arrossisce, a conferma di quanto pensavo, è capace di controllare queste emozioni. È una che andrà lontano. La guardo nella scollatura, penso che abbia già parlato abbastanza, vorrei spogliarla e fare quello che andrebbe fatto, ma poi non si sa mai, magari entra Serena, per invitarmi a qualsiasi cosa, che ne so: un tè da lei, e perderei la grande occasione. Mi trattengo.
«Ma professore, ho un’idea.»
Mi arrendo. Sentiamo l’idea. Apro la mano, le faccio cenno di continuare.
«Ronald Reagan.»
Qualche secondo di pausa, mi sforzo ma non capisco: devo prenderne atto.
Mi limito a ripetere la sua battuta, lo faccio col sorriso, speriamo che non si notino le rughe.
«Ronald Reagan.»
Poi, per tenere il tono, il docente dopotutto sono io, aggiungo: «Quarantesimo presidente degli Stati Uniti d’America.»
«Sì, proprio lui. Sai cosa fece nel 1981?»
So anche questa: «Iniziò il suo mandato presidenziale.»
Mi alzo spazientito, oggi tutti mi stanno trattando come un cretino. Mauro può. Cinzia no, è rimpiazzabile. Anche se non facilmente, dato il livello estetico molto alto. Allora continuo, alzando la voce.
«Iniziò, e di sicuro fece molte cose, un presidente firma un sacco di scartoffie in un anno. Ti prego, vai al punto, oggi non ho molto tempo da dedicarti.» Quantomeno durante il giorno, di notte se vuole può venire a casa mia. Non serve nemmeno dirlo perché tanto viene sempre e sarebbe venuta anche stasera. Sfigato permettendo.
«Sì, certo, professore.»
Ora esita, l’ho intimidita, viva Dio. Ce l’ho fatta. Però ora sono curioso, devo assolutamente sapere che minchia ha fatto Reagan nel 1981.
«Cinzia, piccola: senti. Stasera andiamo a cena fuori e poi a casa mia ti sorprendo come neanche la volta scorsa. Va bene? Non ti preoccupare. Ora dimmi di Reagan, dai.»
Si rimette gli occhiali, sta di sicuro per sciorinare dati, aggiusto le mie chiappe sul cuscino, per stare più comodo. E infatti: lo spiegone.
«Nominò un tizio nuovo alla Federal Communications Commission. Tra le altre nomine, suppongo», vai avanti Cinzia, cazzo, vai avanti, al punto, basta sorrisetti e non fare la timida che non lo sei.
«In pratica, questo nuovo tizio deregolò il mercato. Permise di pubblicizzare giocattoli durante i cartoni animati, e l’industria fece soldi a palate. Ti ricordi He-Man?»
Me ne ricordo. Ci assomiglio. Ho meno petto, ma di coscia ci siamo. Gli squat, miracolosi. Faccio sì con la testa.
«Ecco, dunque. Ascoltami bene.»
Mi sta dando del tu. Non so cosa pensare. Per il momento la perdono. Stanotte però la sculaccerò per benino, colonna sonora Mussorgsky, mi vestirò da diavolo, quello del Monte Calvo.
«Ti ascolto.»
Tu confermato. Ora sarà difficile tornare ai rapporti formali.
«Mauro ti avrà dato un budget. Produciamo una serie. Almeno un episodio pilota, come si fa di solito in questi casi. Prendiamo un tema serio, che possa essere giustificato, nel caso, ai revisori dell’università. Ma facciamola divertente. Facciamola giocattolosa.»
«Giocattolosa?»
«Toyetic. Facciamo in modo che poi ci possiamo vendere dei giocattoli. Come negli anni Ottanta. Faremo soldi a palate e sarà divertente. Inventiamoci, che ne so, un supereroe nuovo. Etico. Uno che salva l’ambiente. Uno che…»
Ho capito. Ora basta.
«Va bene, Cinzia. Ci penserò.»
Un no secco avrebbe messo a rischio la scopata selvaggia di stanotte. Meglio prendere tempo. E poi forse ci avrei anche pensato, dovevo sì produrre un audiovisivo, tanto valeva prendere in considerazione le idee dei giovani. Anzi, dei più giovani. Odio ammetterlo, ma io per il momento non ho idee su come soddisfare il glorioso direttore del dipartimento. Una sì, ce l’avrei, ma sodomizzare gli uomini non figura tra le mie competenze.
Cinzia si alza e va verso la porta. La richiamo all’ordine.
«Per stasera ce la fai a produrre una sinossi? Anzi, la prima scena, che è più divertente, per vedere anche il ritmo che questo episodio pilota potrebbe avere.»
Mi salta addosso. Ricevo un bacio sensazionale, rispondo strizzandole una tetta, lei mi mette anche l’altra in mano. Riesco a fermarmi. A darmi un contegno. Esiste sempre il bagno per calmare da solo certi impulsi.
«Stasera, Cinzia. Tutto stasera.»
Mi fa l’occhiolino e finalmente si toglie di mezzo.
Puntata #3
3
Interno notte.
C’è Marco, un giovane cameriere: ha l’aria di uno che è frustrato, stanco della vita. È in camera sua, in silenzio. Va su e giù per la stanza, sbuffa, si gratta la testa. Poi si ferma. Guarda fuori dalla finestra. Ci sono le stelle. Il cielo è limpido.
MARCO: «Mamma. Lo so che mi guardi da lassù. Ma per quanto tempo potrò io continuare a vederti. L’inquinamento. Lo smog. Tra qualche anno un cielo così bello non lo potrà ammirare più nessuno. E io ti perderò. Per sempre.»
Lacrime scorrono copiose sul volto di Marco.
Si volta, va verso l’armadio. Ne estrae una tuta di materiale plastico. Lucente. Verde smeraldo. Una grande “B” ricamata sopra.
Si spoglia, i muscoli sono ben definiti, indossa la tuta. Infila una mascherina. Esce dalla finestra.
Esterno notte.
Marco scivola giù per la grondaia, atterra in un giardinetto.
MARCO: «Inquinatori, avete vita breve. Sta arrivando la vostra nemesi: Breeze.»
Marco esce di scena correndo.
Entrano due bambini.
PRIMO BAMBINO: «Ma, l’hai visto quello?»
SECONDO BAMBINO: «Che costume incredibile!»
PRIMO BAMBINO: (urlando) «Forza Breeze, puoi farcela! Devi punire tutte le persone incivili!»
SECONDO BAMBINO (le mani giunte): «Il mondo domani sarà un posto migliore.»
4
«Cinzia, fa schifo questa roba.»
È una delle dichiarazioni più convinte che abbia mai fatto in vita mia. Una sentenza, peraltro molto giusta. Lo dico abbracciandola, facendole le coccole, in un’intimità mai provata prima, come se ci amassimo davvero invece di essere solo dei pallidi amanti, pronti a scomparire dalla memoria dei posteri non appena la morte ci colpirà.
Devo comportarmi così, non voglio che la prenda male. Vorrei davvero leccarla dappertutto e farla gridare di piacere, e magari darle anche un secondo round di colpi da maestro, ma non è il momento, devo essere dolce, è delusa, è triste. È nuda, in tutti i sensi. E direi anche soprattutto in senso figurato. Strappo le poche pagine che mi ha consegnato, le lancio dall’altra parte della stanza.
Una lacrima segna il viso della ragazza. La tocco dove piace a me. Almeno fa un sussulto, un urlettino, le si blocca il pianto per qualche secondo.
«Ma non hai nemmeno letto tutto.»
«Cinzia, sono professore ordinario per qualcosa. Ti dico che fa schifo. Sottoporre questa cosa alla mia attenzione è stata un’offesa grande. Te lo dico senza rancore.»
Toglie bruscamente la mia mano dalle sue parti private. Mi devo correggere altrimenti stanotte non segno il secondo rigore. Senza però smorzare la severità del mio giudizio: ho una deontologia professionale prima di tutto.
«Sì, fa schifo, però la tua idea no. Si può arrangiare in modo diverso. Serve un personaggio migliore. Un ideale migliore. Una scrittura migliore.»
Noto che riprende ad accettare i miei massaggi. Continuo a parlare nella stessa direzione di intenti.
«Lo script lo scrivo io.»
«Mi rubi l’idea, quindi.»
«No. In una produzione ci sono tanti ruoli. Troveremo il tuo. Intanto potrai leggere il copione mano a mano che lo scriverò. Pensare al merchandising: i giocattoli ispirati dai protagonisti. E poi magari ti incaricherò di scrivere le parti di un secondo personaggio del film, uno più da cliché, visto che farne ti riesce così bene. Un detective. Che ne dici?»
Cinzia si rigira nel letto. Assume una posizione fetale. Chiude gli occhi. Pensa. Tutti pensano. Chissà in che modo tutti pensano. Chissà in che modo la gente normale pensa.
«Un detective… Perché?»
«Perché il supereroe che ho in mente non sarà canonico. Diciamo che potrebbe avere problemi con la legge. Quindi serve un detective che indaghi su di lui.»
Sembra soddisfatta, sia della risposta che della mia mano vagante.
«E come lo chiamiamo?»
«Gastone Longhena.»
Riapre gli occhi e li tiene sbarrati per qualche istante.
«Ma esiste davvero: è piuttosto noto qui a Villacarla.»
Ride. Longhena è piuttosto famoso, sì.
«Certo cara. È il nome che useremo nella lavorazione dell’episodio pilota. Lo cambieremo poi. Così ti sarà più facile creare il personaggio. Basati pure su di lui.»
«Ma non è un idiota?»
Continua a ridere. Forse le sto facendo il solletico. Rallento.
«In una serie televisiva non c’è spazio per due personaggi brillanti, Cinzia.»
«Giusto. E il supereroe come si chiama?»
«Enrico Proci, ovviamente. Ne conosci altri?»
Al mattino mi rinchiudo nel mio studio, all’università. Penso. Prendo appunti. La scrittura creativa è diversa da quella accademica cui sono abituato. Io scrivo di fenomeni reali, osservo la società. Ne ascolto la musica. Serena è a casa con il raffreddore, una ragione di più per la quale avrei dovuto mettermi in malattia anche io, ma almeno Mauro è costretto a venire da me invece che farmi chiamare. I dirigenti non sanno usare il telefono. Si siede sulla seggiola di Cinzia, quella che lecco tutte le volte alla fine dei ricevimenti, dopo che se ne è andata, ma che da oggi non leccherò mai più. Nemmeno dopo averla lavata per bene.
«Ci ha pensato a quella cosa del filmino?»
Nulla di peggio di un burocrate che ha fretta. Riesco ad annusare lo stress. Forse non si fida di me. E allora che dia l’incarico a qualcun altro. Mi alzo, spiego meglio in piedi. E in fondo spero che faccia lo stesso così la smette di sporcarmi la sedia sublime che odora del sesso di Cinzia. Rimane seduto, addirittura accavalla le gambe con fare provocante, vuole sedurmi, non c’è dubbio. E allora stiamo al gioco e partecipiamo a questo gioco di seduzione. Fuori il carisma. Diciamo qualcosa di incomprensibile, che piace tanto a chi comanda.
Prendo una posa ancorata al terreno, con il petto in fuori e le gambe divaricate. So dove mi guarderà.
«Viviamo in un mondo iperconnesso. Ma, e mi perdoni l’ossimoro, è un mondo di uomini soli. Uomini – e donne, certo – che vivono bruciandosi. Veloci. Con riti quotidiani, sempre gli stessi, un rito per i giorni feriali e un rito per i giorni festivi.»
«Sì, certo: la Santa Messa.»
Infatti non capisce.
«No: per i giorni festivi, e includo il sabato, penso al supermercato, la passeggiatina al parco, il pranzo in famiglia, piuttosto. Per alcuni anche la Santa Messa. Ma parlo soprattutto di riti pagani.»
Mauro si alza di scatto, allarga le braccia, alza la voce. Gocce di sudore cadono ai suoi piedi.
«Niente video satanici, Proci, non voglio problemi con il prefetto né con il sindaco. E soprattutto con il personale docente, votante, di ampia ispirazione cristiana. Che poi è pure l’ispirazione mia. Lo sa che punto a diventare rettore.»
Ecco spiegato tutto. Politica. Un bel video promozionale, vuole, pagato con i fondi di ricerca. E diamoglielo, allora, can del porco.
«Mi segua. Niente demonio. I riti pagani della società sono soprattutto il pendolarismo, il lavoro, la cura dei figli e della casa, tutti i quotidiani escrementi a cui è votato l’uomo contemporaneo e che contribuiscono – anzi ne sono la causa primaria – alla sua infelicità.»
Allento la cravatta perché così mi infervoro e magari mi scoppia una vena, qua, davanti al decano, finisce che gli macchio anche la camicia – sarebbe un peccato, veste con gusto – e poi non voglio essere soccorso da lui, e Serena non c’è per sedersi al mio capezzale. Ah, il capezzolo di Serena, mi domando se sia rosa o marrone. Concentrati, Enrico, stai parlando con il professor Mauro.
«La nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, Proci, le ripeto, non voglio casini con…»
«Con nessuno, professor Mauro. Con nessuno. Niente casini. Si fidi di me. Sarà un bel film. Inizio a scriverlo di persona, questa notte. Vedrà che roba.»
5
Interno giorno.
L’uomo è al centro del salotto. Tappeti, quadri. Eleganza. Arredo evidentemente curato da prezzolati professionisti della decorazione d’interni. Indossa un piccolo tanga di seta nera. Le sue fasce muscolari sono di alta qualità. Lo sguardo va verso la grande palla medica rasente il muro portante del palazzo. La prende. La stringe per bene, come farebbe Linus con il Grande Cocomero qualora mai lo incontrasse uno dei prossimi trenta ottobre; e quindi si accuccia, come un cecchino. All’improvviso esplode con sapiente uso dei muscoli del culo da competizione che si ritrova e tira la palla sul muro. La palla torna subito, obbediente, nelle sue braccia. Ripete l’operazione venti volte. Acqua salata cade copiosa sul pavimento.
Veloce afferra la palla di ghisa, con il maniglione, quella da ventiquattro chili.
Sguardo al centro della scena.
ENRICO (affaticato): «Ancora roba per i glutei: non è mai abbastanza!»
Fa quindi volare l’attrezzo tra le gambe e con potenza lo proietta davanti al viso. Che per inciso deve essere quello di un attore che non ha nemmeno una ruga, perché la Giusy è davvero bravissima, con tutti i soldi che le lascio (NdA). Altalena la mole una trentina di volte, fino a quando tutto brucia (faccia sofferente) e il respiro si rompe.
Poi si tira sulla barra d’acciaio, presa a palmi in giù, come la gente seria. Dieci ripetizioni, una performance tra il discreto e il buono.
Alla fine di tutto, cinquanta flessioni. Mentre le fa: orazioni quotidiane andando su e giù con tutto il corpo.
ENRICO: «Prego per un po’ di gente, oggi soprattutto per il direttore di dipartimento, che stia bene in salute. E poi anche per il prefetto, e per il sindaco.»
L’intero circuito si ripete per tre volte. La ginnastica va fatta a casa, così non serve vedere cazzi e culi di ogni età negli spogliatoi delle palestre.
L’uomo è pronto.
Una rapida sfogliata all’ultimo numero di Vanity Fair. Una bella doccia. In bianco e nero, per una resa più artistica, per delineare bene i risultati dell’allenamento. Una parca colazione.
L’uomo apre l’armadio. Vede il completo, esita. Vede il costume di plastica, nero. Esita di nuovo. Non ci sono altri capi di abbigliamento.
Indossa il completo.
Esce di casa.
Esterno giorno.
L’uomo cammina in una via trafficata, solo, in mezzo a una folla di uomini ancora più soli. Ogni tanto qualche corpo si sfiora.
Puntata #4
6
«Ogni tanto qualche corpo si sfiora, ma le anime no. C’è poco amore in giro. Che ne dici? Le ultime dieci parole non ci stanno in una sceneggiatura, allora le ho tolte.»
Oggi ho portato Cinzia a fare il brunch. Un rischio grande, no, non per via del pischello, quello è ininfluente, conta zero in questa storia: non apparirà mai, promesso. Il problema è che non voglio che si innamori, accidenti a lei. Ma questo brunch è un male necessario, per le idee in libertà, per la creatività, dobbiamo vederci in un posto fico, non nel mio ufficio con la mobilia in gran parte pagata con i soldi pubblici, né a casa mia ché tanto lì si finisce sempre e solo a letto. Casa sua non voglio neanche vederla.
Ha un paio di occhiali nuovi, sempre senza lenti. Questi sono tartarugati. Si intonano meglio con i suoi occhi color miele. Il vestito però è castigato, il collo alto, le sta bene, sì, ma per una festa con i vecchietti, non per un appuntamento con l’amante. Forse spera che così io mi concentri sul lavoro. Allora concentriamoci.
«Professore, sì: non è male. Direi che è un buon incipit. Presenta il personaggio. Poetica, la frase finale. Peccato doverla togliere.»
«Dimmi la verità, Cinzia, lo sai che non possiamo permetterci di sbagliare.»
Io non sbaglio mai. Ma so come motivare una squadra, e di lei ho bisogno, costa poco e non si produce un film da soli, neanche se si è Enrico Proci. Devo darle l’impressione che la sua opinione conti qualcosa.
«Magari qualche dettaglio in più. La verità è che la tua colazione di solito non è parca.»
Di solito è porca, a dire il vero, soprattutto se la faccio insieme a lei. Ma qui siamo in un locale pubblico e quello che posso fare al massimo è togliermi una scarpa e infilarle l’alluce dentro la gonna. Le cade qualche goccia di caffè sul tavolino. Bello il rossetto viola: identica sfumatura della tazza. L’impronta nitida è rimasta sul bordo. L’ho distratta ma è ben abituata, infatti rimette subito in fila il suo discorso.
«Il matcha, professore. Immagini la scena? L’uomo mette a bollire l’acqua, l’inquadratura mostra la temperatura che sale a sessantacinque gradi, poi riempie la ciotola, la scalda, butta via il liquido nel lavandino. Infine mette la polvere verde, il tè, dentro la ciotola e il resto dell’acqua. E qui mettiamo un primissimo piano di lui con il mulinello di bambù che sbatte il liquido con gran velocità fino a farlo diventare tutto schiumoso e bam, parte il gran finale della Danza delle Ore di Ponchielli a fare da colonna sonora. Infine si vede l’uomo in piedi, al centro della stanza, che beve. Lunghe, potenti sorsate. Che ne dici?»
Non parlo per un paio di minuti. Finisco il biscottino, un ottimo speculoos belga che mi è stato servito insieme al cappuccino. Vado in bagno, devo pisciare. È molto pulito questo posto, dietro di me non attende nessuno allora inclino il pene e la faccio, in parte – una buona parte – fuori. Torno da Cinzia.
«Stai dando indicazioni che deve dare il regista. Le inquadrature, la musica. Non si fa. Ottima scelta, comunque. La scena la teniamo.»
Sembra soddisfatta del mio commento. Anche più della mia manovra d’alluce. Maledetta carrierista.
«E il regista chi è?»
«Ancora non lo so.»
La cameriera viene a portar via la roba. Ha le anche come piacciono a me. Allora penso che dovrei farle un cenno, prendere lei e Cinzia per mano, dolce come la Liebestraum numero 3 di Liszt, magari suonata da Daniel Barenboim, e andare a casa insieme a loro. Ci divertiremmo molto tutti insieme. Un vero sogno d’amore. E invece no. Devo andare a fare lezione. Sì: agli studenti del master, sono obbligato. Mi controllano, se poi non mi presento mi chiamano a casa e mi interrompono durante l’orgia, con i pantaloni calati e la videocamera in mano, quindi tanto vale non farla nemmeno, l’orgia. Tanto vale andare a spiegare due cose di vita a questa gioventù, a questa Generazione Z. Dicono che questa fascia di popolazione così socievole, anzi sociale nel senso di social media, sia tra le più prone a fare qualcosa di buono per gli altri. Giovani caritatevoli, quindi ammirevoli. Io invece dico che Z stia, senza dubbio, per zombie.
Ed eccoli, gli zombie, mi aspettano, sbavano al solo vedermi entrare. Sanno che oggi pomeriggio torneranno nelle loro case con neuroni aggiuntivi, neuroni allenati e formati dagli insegnamenti del professor Proci, nozioni che si ricorderanno anche all’improvviso, un giorno, più o meno lontano, in punto di morte. Dappertutto foruncoli, smartphone, occhiaie, grandi cuffie vintage, barbe non fatte, hoodies. Salgo in piedi sulla cattedra, così da guardare negli occhi i ragazzi seduti in ultima fila. Estraggo un pesante volume cartonato dallo zainetto The Bridge, poi, cercando di non lussarmi la spalla – me la dovrebbe far rientrare uno tra questi mentecatti e non oso pensare al dolore – lo tiro con forza verso quello che ha l’aria particolarmente sfigata. Ha le cuffie più grandi di tutti. Il ragazzo lo manco, ma non la sua attenzione. Raccatta il libro da terra, è una collezione di strisce di Popeye – Braccio di Ferro, certo – la versione originale di Elzie Segar. Non conosco altre versioni.
«Leggi il caveat.»
Non capisce, cosa mi aspettavo? Salto giù dalla cattedra, facendo ben attenzione a tirare dentro gli addominali per proteggere la colonna vertebrale dall’impatto con il suolo, poi rapido percorro la scalinata dell’anfiteatro. Strappo il libro dalla mano di questo uomo delle caverne e leggo io.
«Ecco, questo pezzettino qui. Traduco: “Dovremmo notare che questo libro contiene alcuni stereotipi etnici che un pubblico contemporaneo potrebbe trovare offensivi. Non c’è prova che Segar avesse un animo intollerante e questi esempi rappresentano gli standard comunemente accettati del periodo, e speriamo che vengano letti con questo spirito.” Ho finito.»
Chiudo il libro e torno al mio posto. Nessuno fiata. Parlo io.
«Braccio di Ferro, in queste strip, forse – vado a memoria – prende a pugni un indiano, o qualche selvaggio», faccio una breve pausa per estrarre un secondo tomo dallo zainetto: oggi sto rischiando la scoliosi per questi deficienti.
«Tintin in Congo, ancora incellophanato. Qua il caveat è evidente, sulla fascetta, non è neppure nascosto come nel caso precedente. Stessa storia. Ebbene sì, negli anni Trenta Hergé faceva trasportare il suo Tintin in portantina dai nativi di quel Paese, come fosse un dio. È uno scandalo, vero?»
Finalmente reagiscono: annuiscono in silenzio.
«Vi risparmio ora la visione di questo DVD che ho portato con me, una collezione di cartoni Warner con protagonista Speedy Gonzales. Roba per bambini. Altro caveat: “Questi cartoni sono un prodotto del loro tempo. Blablabla, pregiudizi etnici e razziali comuni in quel periodo blablabla. Quello che vedrete non rappresenta la visione della Warner Bros di oggi. Li presentiamo a voi senza censure perché non facendolo sarebbe come dire che questi pregiudizi non sono mai esistiti.” Questo è il migliore dei tre. Parliamo di cartoni di Speedy Gonzales, parla con l’accento messicano ed è tutto. Qualche topo che fa la siesta o che beve troppa tequila, al massimo. Grossi pregiudizi.»
Sembrano non capire. Allora li faccio capire io.
«Lo sapete perché io sono quello che sono, e voi no, non siete quello che siete? Siete un gregge formato dal politicamente corretto, ecco cosa siete!»
Spacco il DVD sulla cattedra, tanto è rinnegato dagli stessi produttori, e che qualcuno mi fermi se con i cocci provo a tagliare la gola del coglione seduto in prima fila, l’unico che sta prendendo appunti.
«Che i bambini leggano i fumetti di oggi, che guardino quello che passa in TV! Gli animaletti, le canzoncine, la tenerezza. Che diventino come voi, peggio di voi! Rincoglioniti! Io sono stato formato da Tex Avery, Friz Freleng, da Romano Scarpa, Guido Martina, da questa gente qua; Segar, Hergé, non dagli scribacchini di oggi incapaci di scrivere uno scenario di qualche interesse e infilarlo in prima serata. Questo comportamento collettivo – buonista – aumenterà una sola cosa all’interno della società: l’ipocrisia. Volete vivere tra gli ipocriti? Io no. Tu! Cancella tutto quello che hai scritto! Dammi qua.»
Strappo il foglio del secchione.
«Non servono appunti, da oggi smetterò di fare lezione. Sto lavorando io a una sceneggiatura: la leggerete, la commenterete, imparerete. Fate avere i vostri indirizzi email alla mia collaboratrice, la dottoressa Cinzia Olivato, e presto diventerete tutti come me. È l’alba di una generazione brillante come quelle del passato, una Generazione Enrico Proci.»
Me ne vado tra gli applausi. E se non capiranno, se non altro questi poveracci compreranno le action figures della serie, i pupazzetti che sta progettando Cinzia.
C’è una mano alzata. Che parli.
«Professore, chi è la dottoressa Olivato? Non l’ho mai sentita nominare.»
In effetti Cinzia non si è ancora fatta il nome, però di certo è una molto visibile.
«La mia dottoranda, quella che somiglia vagamente a Mary Patti.»
Non sembra capire, devo sbuffare come al solito e continuare a parlare.
«Una delle tipe di “Non è la Rai”, cercala su Google, aveva la nonna che si chiama “Mosqu”, che è pure la soluzione del suo famoso gioco, appunto “Il nome di mia nonna”. Crederci o meno, in queste cose, è il caposaldo dello spettacolo. E fatevi una cultura, Cristo…»
C
Venite, venite.
Non ci stiamo tutti nel mio ufficio. Apro la finestra ché mi manca l’aria. La porta deve stare aperta, dobbiamo occupare anche parte del corridoio, spero di non ricevere nessuna lamentela.
Vengono a prendere il compenso pattuito, poche lire, roba che se tratto male qualcuno questo si vendica e mi denuncia per sfruttamento.
Del resto chi altri la pagherebbe, questa gentaglia? Presi dalla strada con un furgone, dal mio socio, l’altro giorno. Una scena, forse due. Hanno accettato subito. Non devono nemmeno fare sforzi, la richiesta è che si comportino spontaneamente. Che rispondano nel modo più naturale possibile alle domande poste da quell’uomo. Sono stati bravi. Cerco di dar loro un supplemento, a malincuore perché poi chissà come lo spendono. Se lo berranno, se lo scoperanno, se lo tireranno: non lo saprò mai. La cosa non deve interessarmi, puttana curiosità.
La stanza è troppo affollata, non riesco a controllare tutti, mi circondano, c’è uno che mette mano al mio schedario, apre l’armadio, fruga. Mi stanno derubando. Inevitabile. Mi alzo, allargo le braccia, dico loro di uscire, via, canaglia, fuori di qui. Mi lasciano solo, finalmente, a riflettere.
7
Esterno giorno.
L’uomo cammina tra la gente, come un demagogo, come un ominicchio politico locale (mi si perdonino i suggerimenti per la regia, NdA). Si struscia con uomini e donne, con vecchi e bambini. Fa il pendolare tra i pendolari. Annusa l’odore del popolo, lo si vede con le narici bene aperte, la bocca spalancata per assaporare. Metabolizza l’intero gregge.
Le facce di ogni altro attore in scena sono tutte le stesse. Tutti col capello corto, l’occhio marrone, il completo grigio, la ventiquattro ore.
L’uomo rincasa.
Interno giorno.
Lo si vede nella sua camera da letto, ha un quadro, piuttosto grande, tre metri per due, ce l’ha appeso sopra la testiera. L’ha dipinto lui, lo si nota dalla firma, Enrico Proci, regale, elegante, tratto fino. Raffigura quello che si è visto nella scena precedente, lui, il nostro uomo, in mezzo agli altri uomini, tutti identici. Oltre alla firma vediamo il titolo dell’opera: il Salvatore.
Va verso l’armadio, lo stesso già visto in precedenza, quello con dentro il completo e la tuta. Questa volta prende la tuta, la bacia, ci si struscia le parti intime. L’indumento, nero notte, ha un grosso logo nel mezzo. Un ovale con dentro una linea retta verticale e, staccata, una linea più corta, orizzontale. Una faccia stilizzata priva di sguardo e priva di espressione, né triste, né allegra. Bocca impassibile, occhi assenti. È il volto del pendolare.
ENRICO (occhi penetranti, sguardo dritto verso la telecamera): «Lo troverò. Il prescelto. E sarà quello con la bocca più dritta di tutti.»
Stacco.
Puntata #5
8
«Suggestivo. E Gastone Longhena, quando farà la sua apparizione?»
«Un po’ di calma, Cinzia» le dico carezzandole la guancia, pretesto per carezzare anche più in basso.
Oggi passeggiamo nel giardino dell’università, c’è un bel sole e quando c’è un bel sole le ragazze si svestono e allora io esco dalla tana.
«Il nostro protagonista, il nostro Enrico Proci, ancora non ha combinato niente. Non c’è bisogno di scomodare un detective della grinta di Longhena prima del tempo.»
«Lo sto preparando, ho qui una bella scheda personaggio.»
Tira fuori una sconcezza senza senso dalla borsetta, le faccio cenno che non la voglio vedere.
«Ricordati solo che veste sempre di bianco, è in leggero sovrappeso – con tutta evidenza non fa un allenamento HIIT –, e soprattutto è claudicante. Però piace alle donne, pare. Come tutti i detective. Cliché.»
Cinzia prende appunti. È una cara ragazza. Non vorrei essere suo padre, beninteso, con tutte le cose che fa con me di notte che nemmeno io saprei come raccontare, tendo ad arrossire, poi mi devo mettere il fard, è poco virile. Ma Cinzia è diligente, anche troppo, quasi zelante. Comunque una cara ragazza. Non stroncherò la sua carriera, come suo relatore potrei, quando voglio, come voglio. Le sorrido.
«Piuttosto, hai iniziato a disegnare il modellino di Pendulo? La nostra è una serie giocattolosa, ricordatelo, è stata una tua idea.»
«Di chi?»
Si ferma. Non dovrebbe, quando si passeggia si deve continuare a camminare, così rompe il ritmo, il flusso dei miei pensieri si perde, il culo che cammina a cinquanta metri dai miei occhi si distanzia di altri cinquanta – volevo vederlo meglio – ma è chiaro che è in panico, non sa chi è Pendulo, non ha fatto quello che le avevo chiesto di fare, ha paura per il rinnovo del suo assegno di ricerca, finché non firmo la macchina non si mette in moto e da settembre non potrà pagare più l’affitto, il riscaldamento, la benzina, l’abbonamento di Netflix – e quello sarebbe un peccato perché fanno ottime produzioni, al passo con i tempi, tra i pochi che ancora non si sono rincoglioniti, e può servirle da ispirazione per la nostra serie. La rassicuro. Le spiego chi è Pendulo.
«Pendulo è l’alter ego di Enrico Proci. È un gioco di parole, vedrai, farà robe con i pendolari. E dato che la tuta è molto attillata, si vede vagamente il suo coso, il suo ego, lì, nel mezzo: pendulo.»
Fa una faccia di merda. Vedo che suda, forse vuole dire qualcosa, ma esita. Di sicuro non ha fatto quello che le avevo chiesto di fare.
«Parla.»
«Il nome del personaggio, cioè del suo alias…»
«Pendulo?»
«Pendulo. Secondo me non funziona. Fa ridere. Immagino la nostra sia una serie seria. Un drama.»
«E allora come lo chiameresti? E soprattutto, l’hai progettato il giocattolo?»
«Ancora non so cosa tu voglia far fare a questo supereroe. Ma io lo chiamerei “il Pozzo”. Rimane il gioco di parole: “Il Pozzo e i pendolari”, che potrebbe anche essere il titolo della serie.»
Questa volta la ragazza ha colto nel segno. Il Pozzo. Avrei dovuto pensarci io. Edgar Allan Poe mi perdonerà. Ma forse, ancora non lo so, anche questa si rivelerà essere una storia di torture, proprio come “Il pozzo e il pendolo”. E il Pozzo li risucchierà tutti, salvandoli dalla banalità delle loro vite.
«L’idea è buona. E poi, nelle mie prime bozze, l’eroe dipinge la lettera “P” ovunque vada. Non dovrò cambiare il dettaglio.»
È la “P” di Proci, questo è ovvio, l’avrete già capito, no?
«Il modellino non l’ho progettato. Forse è il caso che prima legga le tue carte, chi è esattamente questo Pozzo, come si muove, cosa fa, di quali accessori è dotato, sai, i ragazzi vogliono i gadget, vogliono che un pupazzo sia dotato di armi, che sia il più possibile fedele a come è ritratto nella serie, insomma, cose così…»
Non le rispondo neanche tanto sono assorto nei miei pensieri. Lascio che continui a blaterare, e mentre parla indosso le cuffie e ascolto la marcia funebre di Sigfrido, Atto terzo del Götterdämmerung di Wagner. Tre note gravi e secche d’archi, un colpo fortissimo di timpani, e già so dove andrà a parare questo pazzo Pozzo.
Il professor Mauro mi riceve nel pomeriggio, Serena è tornata ed è conforme anche lei alla giornata di sole. Mi fa un cenno col capo, un mezzo sorriso, questa notte certo qualcuno deve averle dato un orgasmo multiplo per renderla così ben disposta nei miei confronti.
Mauro no, dal volto teso sembra quasi che sia in periodo mestruale.
«Proci, cosa cazzo stai facendo?»
«Mi siedo, di solito non ci sono problemi affinché mi metta comodo nel suo ufficio, direttore.»
Non mi lascio intimidire. La gerarchia è una cosa relativa. Si gioca su livelli multipli, nessuno è superiore a te in tutto. Mauro lo è solo nell’ambito della burocrazia universitaria. È un politico. Io sono un intellettuale.
«Questa roba cos’è?»
Mi porge un foglietto. Indosso gli occhiali, sta venendo fuori che sono presbite. Leggo.
“Esterno giorno.
L’uomo cammina tra la gente, come un demagogo, come un ominicchio politico locale (mi si perdonino i suggerimenti per la regia). Si struscia con uomini e donne, con vecchi e bambini. Fa il pendolare tra i pendolari. Annusa l’odore del popolo, lo si vede con le narici bene aperte, la bocca spalancata per assaporare. Metabolizza l’intero gregge…”
«Sì, conosco. L’ho scritto io. Fa parte della sceneggiatura dell’episodio pilota de “Il Pozzo e i pendolari”, la serie che produce l’università. Che ne pensa?»
Gli rendo il foglio con la dovuta cura. Ci tengo.
«Lei sta scherzando, immagino. Sa chi me l’ha dato?»
Lo immagino. Come le è stato chiesto, Cinzia ha girato il materiale agli studenti, affinché ne facciano l’analisi del testo, punti in più per l’esame, come spiegato loro per bene. E qualche studente ha coinvolto il mio direttore. E ha fatto male. Troverò un modo per punirlo, non che manchi d’immaginazione in questo senso. Estraggo il taccuino dalla tasca interna della giacca, mi appunto di chiedere a Cinzia di non inviare più il materiale ai ragazzi.
«Uno studente, direttore.»
«Uno studente. Il figlio dell’assessore Astori, che frequenta con lei.»
Non dovrò nemmeno indagare. Trovato il whistleblower. Non professionale da parte sua, direttore. Le fonti vanno protette.
«E dunque?»
«Dunque la smetta subito e si concentri sullo scrivere un video più istituzionale, qualcosa che esalti il nostro dipartimento, che presenti i risultati. Qualcosa di standard.»
«Mi serve carta bianca. Vedrà solo il risultato finale.»
Mi alzo, non saluto uscendo come non ho salutato entrando, restituisco il cenno a Serena – ah, Serena – e me ne vado a casa. C’è tanto lavoro da fare: la ricerca, lo studio, la preparazione della sceneggiatura. La gestione di una risorsa umana anarchica come Cinzia. La pianificazione accurata e priva di elementi casuali della conquista definitiva di Serena, il mio obiettivo professionale più importante. Sì, lo realizzo e lo decido: ne sono innamorato. Ne prendo atto, è una parola forte. Deve essere qualcosa che di base ha a che fare con il suo profumo, una sensazione che respiro nell’anticamera del professor Mauro, un che di floreale che mi accoglie ogni volta che la finisco con il vecchio e il suo odore di palle sudate. Il benessere, il conforto. Una madeleine.
Amor!
La notte non resisto ed esco, verso il nadir della mia vita. Sono imbarazzato. Addento un plum cake, stoppososurrogato della merendina di Proust. È quel che è, ma mi aiuta a mantenere la memoria ben focalizzata sul fulcro dei miei pensieri: lei.
Devo saperne di più su questa persona. Mentre cammino piano e teso, respiro l’aria avvelenata di Villacarla, il suo retrogusto di petrolio e politici, gli effluvi di funzionari stressati o semplicemente psicopatici, simili all’olezzo delle mie ascelle.
Serena non abita in centro, fa bene, si avvicina di più al potere, alla carriera sicura: lì c’è la villa del sindaco, poco in là vedo parcheggiata la Dodge di un famoso industriale. Qui non c’è tristezza.
O forse sì: la vedo alla finestra del piano terra, seduta sul divano, il braccio dietro le spalle poco palestrate di un ragazzo. Che faccia da scemo: non può essere il fratello di una tipa dal DNA così perfetto. Di fronte, i genitori ridono di qualche battuta irripetibile. Che misera esistenza che conduce Serena. Sono contento di avere un obiettivo tanto importante come quello di ridarle gioia. Suono il campanello. Corro via. Velocità. Bellezza.
9
Esterno giorno.
L’uomo cammina per strade secondarie. Vicoli, calli, chiaroscuri figli dei pochi raggi di sole che filtrano tra gli opprimenti alti palazzi. Egli trova un posto che sembra fare al caso suo. È un incrocio a “T” con un’arteria principale. Poco più in là c’è la scala che porta alla metropolitana. Poggia la schiena contro il muro, qualche gocciolina di sudore, roba da poco, comunque. Scruta il flusso. La gente passa. Hanno tutti la stessa faccia. C’è chi è più allegro di altri, qualcuno che magari passeggia mano nella mano con il partner o con il figlioletto. O che parla al telefono, se non con gioia almeno con finta cortesia. Tutti aumentano il passo sui gradini che portano giù, nella galleria che conduce al trasporto pubblico.
La camera si sposta e centra lui: l’uomo con la bocca più dritta di tutti.
Agli altri ci somiglia, certo. Ma ha un che, un qualcosa di ancora più anonimo, non di triste: non è il più triste, proprio per niente. Chiamiamolo Daniele.
Seguiamolo, Daniele, giù per la rampa di scale, dentro il cunicolo. Giallastre le pareti, quasi tutto grigio il pavimento, non fosse per le macchie nere ogni due-tre metri e i piccoli bigliettini bianchi gettati per terra da qualcuno del gruppo. Daniele ha il soprabito lungo, grigio scuro, di sicuro lo indossa in primavera come in inverno, giorno dopo giorno. Le scarpe perfette, lucide, il capello tagliato da poco, ciuffi bianchi solo ai lati. La valigetta tenuta dal braccio teso, a peso morto, chissà cosa c’è dentro. Non ha rilevanza in una sceneggiatura, nemmeno in quella di Pulp Fiction. Daniele non guarda nessuno, e sono tanti i nessuno in questo mondo sotterraneo. Lui stesso è nessuno: è il più nessuno di tutti. Seguiamolo, dentro al treno. Prende posto tra il grasso e la smorta, chiamiamoli così e tanto sono tutti uguali. Tutti e tre lo sguardo perso nel vuoto, ma Daniele di più; nessuno dei tre cede il posto alla vecchia appena entrata con le buste della spesa, e Daniele lo cederebbe meno ancora, se solo si potesse. Daniele non ascolta musica come la smorta, non legge il quotidiano gratis che ha in mano il grasso. Non si dondola come fa il macabro, qualche sedia più in là; non sorride alla vicina come fa l’unto, nel vagone successivo. Daniele attende. Attende la morte.
Qui il concetto bisogna renderlo esplicito, altrimenti il pubblico non capirebbe. Non può dirlo Daniele, non lo sa. Guardiamo Enrico, tira fuori un piccolo registratore dalla tasca.
ENRICO: «Quell’uomo. Attende la morte. Più di tutti gli altri presenti.»
Enrico è salito sul treno, anche lui, e anche lui cerca di assumere una posizione compita, priva d’espressione, ma non ce la fa, cerca di evitare il contatto con gli oggetti presenti nel treno, sono sporchi, hanno i microbi. Questo ultimo concetto lo si capisce dalla sua mimica facciale. È l’unico sul treno ad avere una mimica facciale. Ad avere una faccia. Tiene le gambe divaricate, ammortizza le copiose vibrazioni per non cadere.
Tutti qui attendono la morte, forse anche Enrico, e comunque Daniele più degli altri.
Quindi è deciso.
ENRICO (scendendo dal treno, parlando nel suo piccolo registratore): «È Daniele il prescelto. L’uomo con la ventiquattro ore.» Daniele scende.
Puntata #6
D
Venite pure, prego, prendete posto.
Come vorrei poter affittare un posto migliore, qui è da vergognarsi. La gente che attiro ne è all’altezza.
Oggi si siedono davanti a me un anziano signore, una quarantenne prosperosa, una ragazzina – forse minorenne – in stato di evidente tossicodipendenza e infine un tontolone dal capello ribelle. Dovrò inviarlo a farsi sbiancare i denti, che schifo che fa.
L’anziano signore mi è arrivato qui dietro raccomandazione, è uno spretato, è adatto alla parte. Gli faccio pronunciare le parole dell’Elevazione, non ne sbaglia una, il tono di voce è perfetto, finalmente un professionista. Gli offro una sigaretta, una di quelle sottili, la fuma con l’aria di un gran signore. Quando apro la bottiglia di scotch si fanno sotto tutti e quattro, uno dei bicchieri cade, il liquido si riversa sul pavimento ammuffito. Lo spretato beve per primo, prende grandi sorsate, ma la ragazzina non è da meno. Smetto di contarle i piercing, ci provo da quando è entrata ma devo ricominciare ogni volta che apre la bocca, intravedo dei ciondoli di metallo all’interno ma non ne sono sicuro. Porta anche l’apparecchio.
La quarantenne sarebbe anche piacente, ma quando parla la voglia scompare. Biascica, perde saliva ogni volta che pronuncia una P. È una casalinga, il marito è in prigione, le servono soldi. Prega di poter restare. Resterà. Il tontolone è al terzo bicchiere, non ha detto una parola. Ne dovrà comunque dire poche, sarà pagato lo stesso, a giornata. Non ho grandi alternative.
10
L’unica cosa che amo della partecipazione ai talk show su canale nazionale è il fatto che, statisticamente, per ogni x spettatori che mi guardano esiste una piccola frazione y che prima di andare a letto si masturberà pensando a me, alla mia presenza scenica, al mio sguardo deciso, all’eleganza della mia figura. Donne e uomini alla ricerca del piacere solitario, ispirati dalle mie parole, la voce melliflua, il bicipite così ben evidenziato dalla camicia bianca, che porto di una taglia sotto. La cerniera dei pantaloni la lascio aperta, un pochino, una cosetta non troppo esplicita che attiri solo l’attenzione delle maliziose, dei birichini, mai dei benpensanti che poi mi causano problemi. La mia teoria è che chi l’occhio lo butta lì è poi ancora più propenso a desiderarmi. Immagina! Trovare un pertugio a sorpresa che conduce all’oggetto così tanto bramato equivale allo scatto di un grilletto che veloce farà correre il pervertito verso il bagno più vicino a scaricare la tensione. Un bisogno impellente. Tattiche per aumentare y, ne conosco a migliaia.
Mi immagino nel podio, bacchetta in mano, con indosso il solo farfallino del frac, a dirigere questa orchestra che con così tanta foga ricerca la soddisfazione suprema. Suoni gutturali, sospiri, brevissimi acuti: le tonalità che con grande sapienza riesco a mescolare in una lunga, poderosa sinfonia.
Stasera sono nei locali di una televisione nazionale, roba grossa che tanto influenza il mio tenore di vita, roba con cui non posso scherzare troppo pena la retrocessione e un finale di carriera come quello del professor Mauro. Un sipario a cercare di trovare la motivazione nel dirigere gli altri, senza mai metter brio nel proprio lavoro. Per giunta in un’università di provincia. Orrore.
Il presentatore mi mostra i bianchissimi denti, sono più immacolati dei miei, la visita dal dentista è imminente. Anche i capelli sono più folti dei miei, le truccatrici del programma non hanno fatto un buon lavoro, dovevano mettermi più spuma. Con finta distrazione abbasso di altri due millimetri la zip, che la camera possa vedere qualche frammento del fucsia delle mie mutande Tommy. Il presentatore non lo nota: è un benpensante.
Mi chiede un’opinione. Non ho seguito il dibattito, ero preso dalla mia sinfonia, ero immerso in una direzione totale, alla von Karajan, di quelle dove impartisci le istruzioni a ciascuno degli orchestrali. Occupato ad accudire e far raggiungere l’orgasmo a ciascuno dei miei strumentisti. La solista è Cinzia, sono sicuro che sta guardando la trasmissione completamente nuda, sul divano. Magari insieme al fidanzato, anche lui nudo ma ignaro di tutto quello che sta accadendo nei cervelli sempre così in sintonia della dottoranda e del suo professore.
E poi c’è Serena, sì, proprio lei, sono sicuro che anche lei si stia stracciando le vesti, sono sicuro che la sua frustrazione di avermi così vicino e così lontano la stia portando verso la follia, la immagino mentre si tocca tutto il corpo davanti allo schermo, avida nel suo monolocale da dieci metri quadri, e allora una potente erezione si sviluppa in me e punta dritto verso la telecamera, verso gli occhi di tutti i telespettatori x, mentre rispondo alla sciocca domanda, dopotutto cosa volete che alla gente importi di quello che ne penso io: «Guardi, dottor Fresco, cosa ne penso. Penso che come per ogni cosa l’importante è saper interpretare correttamente il fenomeno. I giovani non vanno lasciati soli. Non in questo periodo storico.»
Poi lo dico. Non so se c’entri. Il sorriso totale davanti a me mi incoraggia quindi credo di sì.
«Serve una tv responsabile. Servono produzioni finanziate da denaro pubblico. Inclusive. Che insegnino, che educhino. Se mi permette vorrei ringraziare il professor Egidio Mauro, il direttore del mio dipartimento all’Università di Villacarla, che ha appena stanziato del denaro per poter realizzare uno show da me ideato, una serie, un telefilm si diceva ai miei tempi, che possa andare in questo senso, che possa aiutare la gente, i giovani, a salvarsi.»
Un minuto di applausi. Applaude il prete che mi siede a fianco, applaude la sottosegretaria. La più contenta pare essere la giovane cantante del talent. Tette piccole ma dopo me la porto in albergo lo stesso, lo sa già anche lei.
Anche la sottosegretaria lo sa, tanto che insiste per essere dei nostri, lo chiede persino gentilmente. Non le dico di no. Il prete è tentato: esita. E alla fine rinuncia.
Arrivo in ufficio, Mauro lo ignoro, è lui che mi deve un favore ora. L’avrà chiamato anche il Presidente del Consiglio, dopo l’annuncio di ieri sera. Che mi cerchi lui. Io sono un insegnante, tengo a dare la precedenza al ricevimento, ai miei studenti, a Cinzia quindi. Mi deve dire cosa ne pensa della scena con Daniele, siamo praticamente al climax del primo atto, cosa farà ora Enrico, cosa farà il Pozzo. Un feedback, Cinzia.
«Sei stato magnifico, ieri sera.»
Così hanno detto anche le mie compagne di giochi, poche ore fa, al check-out.
«Dimmi della sceneggiatura: l’ultimo pezzo che ti ho mandato per email. Che ne pensi.»
«Inquietante. Mi interessa. Intriga. Ma cosa succede poi? Enrico segue Daniele, e…?»
«Io dico che lo segue, senza nemmeno curarsi troppo di non farsi vedere. Lo segue a pochi metri di distanza. A pochi centimetri.»
«Che paura.»
Cinzia rabbrividisce davvero. La sua pelle mi piace, quando è affilata come carta vetrata. Allora insisto.
«Gli ruba il portafoglio.»
Sembra non capire.
«Gli ruba il portafoglio? Ma questa è una caduta di tensione!»
«Enrico deve saperne di più. Come si chiama quest’uomo. Dove vive. E però non può seguirlo tutto il giorno, Enrico è un uomo impegnato. La sera ha da fare in televisione, al talk show, lo sai.»
«Io dico che Enrico dovrebbe sorvegliarlo di più, in maniera ossessiva, intrigare il pubblico, devono morire nell’attesa di un nuovo episodio. Metti Daniele a casa sua, mentre si fa la doccia, mentre cena, mentre dorme, sempre con la presenza di Enrico, vicina, come dici tu, a pochi centimetri di distanza.»
«Non serve. L’uomo si chiama Daniele Spada, abita in via Bellini 41, poco lontano da qui.»
«Infodump.»
«Sì, hai ragione, ma io mica metto questi dati nella sceneggiatura. Enrico però li legge nella carta d’identità, giusto prima di rimettere il portafoglio in tasca alla sua vittima.»
«E adesso?»
«Adesso tocca al Pozzo. Anzi no. Prima Longhena.»
«Il detective? Ma ancora non è successo niente. Daniele non ha neanche perso il portafoglio.»
«Voglio una scena breve, un minuto al massimo, per introdurre il personaggio. Stemperiamo un attimo la tensione, creiamo il disappunto nello spettatore, deve desiderare di più la venuta del Pozzo. E allora noi la ritardiamo.»
Puntata #7
11
Interno giorno.
Stanco, a ciondoloni, l’uomo trascina il suo ampio corpo fino ai fornelli della modesta cucina a gas. Ci scalda sopra una padella in acciaio inox, poi apre il frigo e prende quattro uova. Le rompe con forza sul bordo e lascia che i liquidi escano e si mescolino, guidati dal caso. Le mangia senza servirsele su un piatto, in pochi secondi, immergendoci una fetta di pane integrale dall’aria rafferma e portandosela alla bocca con fretta e avidità.
Si sposta in soggiorno, un locale sciatto, in disordine, disegnato negli anni Ottanta, c’è un telefono a disco, una televisione col tubo catodico. L’uomo si siede in poltrona, abbandona le cervicali sul cuscino e stende i piedi su uno sgabello di legno massiccio. Chiude gli occhi. Pochi secondi, un time-lapse sottile mostra le nubi alla finestra che si spostano veloci, il sole arriva in pochi istanti allo zenith.
L’uomo si alza, si spoglia, rimane in canottiera, bianca, strappata, macchiata. Indossa una camicia, di poco più pulita, ma anch’essa bianca. Infine, una giacca, gli sta molto stretta, non può abbottonarla, bianca.
Il fazzoletto nel taschino è l’unica nota di colore, di ordine e pulizia. Come se l’uomo ci tenesse particolarmente.
Apre la porta, esce di casa.
12
«Un disperato, quindi.»
«Lo immagino così. Deve fare da contraltare a Enrico, no?»
Non conosco Gastone Longhena. Di lui so quel che sanno tutti. E cioè che ha vissuto delle storiacce, nel passato, più prossimo che remoto. Ha pagato nel fisico e nella mente. Quanto alla sua professionalità, non era un granché prima, ora figuriamoci.
Una nemesi perfetta per il Pozzo: al Pozzo piace vincere facile.
«Direi ottima caratterizzazione, Cinzia. Continua così.»
E lei sì, continua a fare quello che sta facendo, stesa sopra di me, nel mio divano così agli antipodi di quello immaginato per il detective. La finiamo presto: non ho tempo oggi per pensare anche ai suoi bisogni, una volta soddisfatto il mio.
Quello che davvero voglio oggi da lei è che stia ad ascoltarmi mentre le sviscero il Pozzo, mentre le dico tutto quello che c’è da dire su di lui, tutto quello che deve sapere.
«Prendi nota.»
Apro il frigorifero e mi servo una Rochefort 10, la mia birra preferita, l’unica che davvero riesca a rilassarmi. A lei offro una più tranquilla St Feuillien, versione Grand Cru, che sembra gradire parecchio.
«Allora, Enrico Proci torna a casa. Si mette a fare un bel kata proprio qui. Uno bello da vedere, piuttosto avanzato, diciamo il Kushanku. Fluido, rapido, assassino. Sa dove abita Daniele. Sa che faccia ha Daniele. Quella di tutti gli altri, solo più anonima ancora. È facile riconoscerlo. Poi prega, dieci minuti, là, nell’inginocchiatoio del settecento che tengo in quell’angolo. Dieci minuti, telecamera fissa, direi dall’alto, inclinata, che bene si veda il suo viso, gli occhi chiusi, le mani giunte. L’espressione pia, addolorata. Ci serve un attore appropriato. Probabilmente Raoul Bova: segnatelo.»
Cinzia si riveste, seducente tanto prima quanto dopo il coito.
«Non credi che dieci minuti siano troppi?»
«No, è necessario che il pubblico si studi bene quest’uomo, sappia riconoscerlo, sappia perché fa quello che fa. Dieci minuti: diciamo un quarto di puntata.»
«E poi cosa fa?»
Ora è seduta composta, le gambe accavallate, sulle ginocchia il quadernetto blu che ospita la sua grafia priva di sbavature e che da molti anni ormai ospita il mio pensiero e le mie direttive.
«Poi va in camera, apre l’armadio e indossa il costume, finalmente. Questa è la parte preferita dai bambini, per inciso. Il costume gli sta aderente come un preservativo sul membro di un adolescente alle prese con la prima femmina nuda. L’uomo sembra scoppiare, ogni muscolo è delineato, si vede persino l’ombelico, così perfetto, così tondo, unico ricordo che lo lega a una figura materna. Esce dalla finestra, il salto non è da poco ma lui sa flettere le cosce e para ogni contraccolpo con il suolo, e l’ampio mantello rallenta certo la caduta.»
«Aspetta, aspetta, siamo in esterno notte, giusto? O è giorno?»
«È notte, nottissima. L’ora del Pozzo.»
«Mezzanotte?»
«Fai anche l’una, magari le due. La strada è deserta. Il Pozzo corre in silenzio. Si sente solo il suo respiro, un affanno moderato, poi piccoli veloci passi di roditori e poco più in là sinistri miagolii.»
Cinzia scrive tutto.
«Via Bellini 41. Una villetta. Vicina a tante altre villette. È la più villetta di tutte. Il Pozzo salta a piedi uniti e scavalca la staccionata. È nel giardino. Si arrampica su un albero, raggiunge un ramo abbastanza alto per vedere dalla finestra del primo piano. L’uomo dorme, supino, la stessa faccia indossata nel metro, la bocca dritta, troppo dritta. Di sicuro non sogna, non vi è immaginazione in lui, forse rivive la sua giornata, come i neonati. Un supplizio di giorno come di notte.»
«Ma tutto questo come lo rendiamo nella sceneggiatura?»
«Non interrompermi, Cinzia, non interrompermi. Non è il tuo campo. Però qui sì, hai ragione, puoi inserire un’interruzione, fai un bel segno, cambiamo scena. Flashback: la giornata di Daniele Spada, sognata da Daniele Spada.»
13
Interno giorno.
L’uomo è in ufficio. Prende il caffè con altri uomini, tutti uguali tra loro. Ascolta, ride con loro, parla, ridono con lui.
Stacco.
L’uomo è davanti al computer, dietro di lui le scrivanie degli altri, e dietro le scrivanie, gli altri. C’è ritmo in quello che digitano, in quello che cliccano. Ogni tanto uno cade dalla seggiola, viene portato via, ne arriva uno più giovane. Moloch! Direbbe Fritz Lang.
Ma l’uomo no, non cade mai, ha una tecnica di digitazione molto sofisticata, il ritmo è più veloce, sono tutte semicrome, forse biscrome, il tempo è forsennato, e come clicca, non c’è pausa, non c’è niente.
Poi l’uomo si alza, spegne la luce, esce.
Qualche secondo. Un minuto.
Ritorna.
Di nuovo luce: e allora l’uomo è in ufficio, prende il caffè con altri uomini, tutti uguali tra loro. Ascolta, ride con loro, parla, ridono con lui.
Stacco.
E allora l’uomo è davanti al computer, dietro di lui le scrivanie degli altri, e dietro le scrivanie, gli altri. C’è ritmo in quello che digitano, in quello che cliccano. Ogni tanto uno cade dalla seggiola, viene portato via, ne arriva uno più giovane. Moloch! Direbbe Fritz Lang.
Ma l’uomo no, non cade mai, ha una tecnica di digitazione molto sofisticata, il ritmo è più veloce, sono tutte semicrome, forse biscrome, il tempo è forsennato, e come clicca, non c’è pausa, non c’è niente.
Poi l’uomo si alza, spegne la luce, esce. Eccetera, eccetera. Eccetera…
14
«È un incubo.»
«Non direi. Cioè, in fondo sì, è il mio, di incubo. Ma questo è quello che sognava Daniele, lì, davanti agli occhi del Pozzo. Davanti al verdetto del Pozzo.»
«Di morte?»
Cinzia si alza per andare in bagno. Io non credo che una così possa avere dei bisogni corporali tanto meschini, però rimane dentro cinque minuti buoni e le mie teorie si schiantano contro il muro dell’evidenza scientifica. Ogni mio stimolo sessuale si spegne miseramente, oggi la lascerò andare a casa subito dopo la fine della dettatura. Niente bis.
Le rispondo non appena torna a mettersi in posizione con il quadernetto aperto.
«No, stai travisando. Il Pozzo non è un assassino, o quantomeno uccidere non è il suo core business. Il Pozzo è un salvatore.»
«Salva Daniele?»
«Ascolta, e prendi nota. Il Pozzo incombe. È lì, alla finestra. La apre.»
«Come?»
«Con le sue dita tra i cardini. Avambracci allenati. Ogni giorno da trent’anni. Farmer’s walk. L’esperienza è l’unico modo per fare strada. È per quello che io sono professore e tu ancora no. L’allenamento, Cinzia. Vale per tutto. Poi c’è chi ha anche il talento, tipo Daniel Barenboim, tipo me, ma adesso non farmi perdere il filo ché sto sceneggiando a braccio.»
«Scusa.»
«Quindi. Cloroformio sulla faccia, e hop. Poi giù dalla grondaia, con il tale sulla spalla. Giardino, strada. Exeunt il Pozzo e Daniele. Che ne dici?»
«Va bene. Il cloroformio Enrico dove l’ha trovato?»
Cinzia è stufa, indossa il soprabito, va verso la porta. Forse deve vedere coso.
«Ovviamente l’ha preso in prestito dal dipartimento di chimica, all’università. Sono dettagli.»
Esce in corridoio, accende la luce.
«Lo spettatore lo sa, che Enrico è un professore universitario?»
«Glielo faremo sapere in una scena più tardi, non serve che lo sappia adesso.»
La porta si richiude, rimango solo.
Cosa fare con Daniele? Non ho tempo per pensarci adesso, da mangiare ne ha, ora devo correre in dipartimento ché devo cambiare il pannolone a Mauro, con tutti i politici che continuano a chiamarlo. Magari ci scappa una trombata selvaggia con Serena, così, improvvisata sulla sua scrivania, tra quegli orribili pasticcini industriali che compra sempre e che offre con generosità, ma io con generosità vorrei che concedesse altro, e invece no, di solito non se ne parla, e io nemmeno vorrei parlarne, vorrei agire, sono un uomo d’azione. Ah, questa donna mi intimidisce.
Mauro mi offre un goccetto di quello buono, alle quattro del pomeriggio è quel che ci vuole. Fumiamo in abbondanza nel suo ufficio, sigari cubani, prima di iniziare a discutere. La testa mi gira, gira anche a lui, ora finisce che ci accarezziamo i corpi a vicenda, finisce in un amplesso di sicuro memorabile ma che eviterei volentieri. Mi ricompongo. Ce la fa anche lui, non è un luminare ma è un distinto uomo accademico che sa come comportarsi, come stare al mondo. Non è il momento adatto.
«Proci, mi ha chiamato il signor ministro proprio ieri.»
Già lo sapevo, era cosa ovvia: il merito è mio.
«È interessato al film, il nostro film.»
«I giovani ne avrebbero bisogno, l’ho detto in tv da Fresco e lo ribadisco. Sta venendo su una roba grande. Una serie, non un film, di gusto contemporaneo.»
Il direttore indossa gli occhiali, sembra anche un bell’uomo, è una montatura molto fine. Ricorda il motivo della cravatta che indossa.
«E quando potrò leggere lo script completo?»
«È prematuro. È un testo che ha bisogno di maturare, va lasciato decantare come un rosso di qualità.»
«Il ministero può intervenire sul budget, partecipare alla produzione. Proprio come ha suggerito lei. C’è il massimo interesse sul suo lavoro, Proci. Ha i riflettori puntati addosso. E poi il ministro parlerà ai nostri docenti, quelli della sua corrente politica, ovvio, che è maggioritaria in quasi tutte le facoltà. Lo sa cosa significa, vero?»
Mi alzo in piedi. Con le due mani stringo con forza le sue.
«Che sto parlando proprio ora a un magnifico rettore.»
Annuisce soddisfatto, le guance rosse dettate dal cognac o dall’imbarazzo, non lo so.
«Vuole anche dire che il lavoro dovrà essere perfetto. Con i fondi, è ovvio che arriveranno anche gli ispettori ministeriali. Vorranno dare un occhio alla sceneggiatura, prima di dare l’ok alle riprese.»
Sorrido come sorriderei a Serena, entrasse ora nuda da quella porta.
«Una cosa fantastica. Un’occasione per discutere con persone del mestiere. Lo sa che adoro la competenza.»
Mi stringe la mano a sua volta, con una forza fisica che non gli immaginavo.
«La settimana prossima, Proci. Appuntamento qui, in questo ufficio, io, lei e gli auditor. Mi raccomando.»
«Ci sarò.»
Mi fa cenno di uscire, ne approfitto per tornare a casa. Ho molto da fare.
Puntata #8
E
Lui arriva in ritardo.
Nel mio parco stanzino ci stiamo a fatica, le nostre moli sono quello che sono.
È l’unico professionista della combriccola, o almeno pare che lo sia stato qualche tempo fa. Dice di essere invecchiato, essersi rincoglionito, avere costante bisogno di un suggeritore, uno che gli ricordi cosa deve fare, cosa deve pensare. Non sarà un problema, me ne occuperò io. Gli dirò tutto io, piano piano, all’orecchio. Sarò i suoi occhi, bocca e cervello. Sarò tutte le atmosfere di cui avrà bisogno. Gli offro una cosa, la rifiuta: beve solo acqua, dice che altrimenti ingrassa.
Devo dar fondo ai risparmi, ingaggiarlo è più oneroso del previsto, ma devo rispettarne il prestigio, quantomeno relativo a quello degli altri. Negoziamo qualche minuto.
Gli offro un cioccolatino, lo mangia con disgusto, gli piace solo se è fondente e questa è una merdosissima pralina al latte.
Si siede, firma il contratto. È contento, il vecchio attore. Non lavora da tanti anni, è stato dimenticato da tutti. E ora finalmente un ruolo importante, secondo solo a quello di Proci: Gastone Longhena, il vero, non il ruolo finto che i miei attori di strada si stanno divertendo a scrivere così malamente. In quei fogli dovrei rimetterci le mani io, ma forse ne verrebbe meno la spontaneità.
15
Allora, per cominciare, tu sei Gastone Longhena, uomo virile. O forse lo eri qualche anno fa: non puoi fare a meno di pensarci, tutte le mattine, prima di colazione. Abbondante: uno dei pochi vizi che ti è rimasto. L’altro, più corposo, è l’eroina. Ne fai un uso sporadico ma la senti che agisce inesorabile nel corpo – che si sfascia; e nei pensieri – che si sfamano per poi assopirsi. È quello che vuoi.
Anche il tuo mestiere si liquefà, a poco a poco. Ribolle come quella stupida polverina dentro al cucchiaio, ma dura un niente: ami prendere l’incarico di nuovi casi, uscire dal covo, mettere naso, lingua e pupille all’interno degli odori più scurrili dei tuoi clienti e di quelli dei loro aguzzini; altrettanto però ti piace abbandonarli alle loro conclusioni naturali: è inevitabile. Tu lo sai, non sei nelle condizioni di giocare a dio. E nemmeno al fra Cristoforo. Per quello dovresti ragionare, ma da molto tempo non riesci a connettere.
Oggi vedi la madre. La madre è la più pietosa delle categorie. Mogli e mariti possono essere vulnerabili, patetici, o vendicativi. Avidi. I padri – rari – ansiosi, caotici, con la rabbia difficile da gestire. Per le madri hai tutto un pacchetto speciale di informazioni precontrattuali, in sostanza fai capire loro che a nulla porteranno i tuoi sforzi. Esse sono le sole a cui fai vedere che in mano non hai nulla più di una coppia di jack, destinata a perdere con certezza contro i punti più importanti celati dall’impassibile sorriso della vita. Anche a questa offri la colazione, giù al bar. Protesta, ha il colesterolo alto, i trigliceridi, il fegato grasso. Le vene varicose. Una carie da otturare. Il cornetto le va giù lo stesso, le massaggi la schiena, piccole pacche di comprensione, d’amore. Ne mangia anche un altro, sai insistere bene. Il caffè da Luigi è buono, caldo, nero. Mentre lei parla tu assapori la cremina. Mangi la metà del suo terzo croissant. E intanto lei parla del figlio, scomparso. Daniele è bravissimo. Bellissimo. Intelligentissimo. Rispettatissimo. Gestisce il lavoro di altri quattro ragazzi, tutti laureati, voti altissimi, giovanissimi, carriera promettentissima, ma Daniele è ancora più giovane di loro: l’abbraccio accademico, gli esami superati in maniera velocissima, la tesi interessantissima, il lavoro, il posto da manager ottenuto subitissimo, si sa, le conoscenze della materia freschissime, i neuroni brillantissimi: un genio maggiore.
E poi c’è la ragazza, fighissima, così dicono gli amici, certo questo non sarebbe il gergo della signora ma è per capirsi, anche lei lavora tantissimo. E adesso è tristissima.
Daniele da bambino aveva un entusiasmo speciale, quello che gli adulti vogliono nei loro figli, la curiosità, la scintilla, la luccicanza.
Lo pensi, vero, Gastone? Perché l’entusiasmo lo si perde presto, lo si vede come elemento negativo nella gente, solo i folli ne hanno. Tu di certo non ne hai. Nessuna persona rispettabile ne ha. E allora perché i grandi vogliono così tanto un figlio curioso, che ridia loro la gioia di vivere? Per poi, con il tempo, insegnargli a perderla a sua volta. Perché così fa l’uomo.
Correggi quello che rimane del caffè con la sambuca. A Luigi basta un segno.
Ritrovalo, Gastone. Ritrova il suo Daniele.
Guardi la foto. Non ti serve una copia, tanto sai già che fallirai. Prendi un piccolo anticipo, più piccolo del solito, non ti va di truffarla troppo. Sono i soldi che ti serviranno per mangiare oggi e domani, al ristorante. Cucinare in casa ti pesa.
APPROCCIO AMOROSO IPOTETICO n. 1
Potrei.
Potrei indossare il mio miglior vestito di sartoria dopo un accurato condizionamento del corpo a furia di ripetizioni selvagge di Turkish get up con un peso da trentadue chili.
Dopo essermi rasato il volto. Dopo una passata precisa di peli di martora sulle guance, sotto il mento, sopra il labbro.
Potrei mettere al polso l’orologio buono, se solo avessi voglia di portarlo a fare la revisione – costa cara. Lo metto lo stesso, nessuno mi chiederà l’ora, tutti mi domanderanno che modello è. Anche lei. Serena.
Potrei arrivare in dipartimento prima di tutti, le sei, le sette. Entrare subito nel bagno, staccare un pannello del soffitto ed estrarne la tavoletta del water, quella che ho nascosto per essere il solo a poterla usare, per non dover cancellare ogni volta i microbi altrui, le piccole macchioline gialle, i corti peli arricciati. E cacare in pace. Pensare. Meditare sul posto. Sul da farsi.
Potrei starmene in piedi davanti al suo ufficio, le dita delle mani incatenate, le braccia tese lungo il corpo. Potrei aspettare. Potrei aspettarla.
Un’ora, due. Potrei.
Potrei parlare solo io. Oppure potrei ascoltare lei. Potrei dirle molte cose, magari parlarle del mio ultimo paper. Della mia infanzia. Del bisogno di tenere le labbra, i denti, attaccati a una tetta. Del tempo atmosferico. Del tempo che passa. Per tutti. Capisco di non essere in grado. Di solito non funziona così, è tutto più spontaneo, ci si guarda, ci si parla, si mangia una cosa fuori, si finisce a casa mia, poi lei torna a casa sua.
Serena è diversa. Tremo.
Potrei mettere su un disco e dedicarglielo, potrei per l’occasione rinnegare i padri nobili e farle sentire qualcosa di frivolo, una canzonetta country, che ne so, I fall to pieces di Patsy Cline, che le possa far entrare per bene nella mente come io davvero caschi a pezzi ogni volta che la vedo. Sì, io.
Puntata #9
16
Interno giorno.
L’uomo vestito di bianco è alla scrivania. Un ufficio con la sola pretesa di essere per l’appunto un ufficio e di certo non la suite di un albergo di lusso nel cuore di Las Vegas. Ma neppure di Villacarla. La libreria dietro è la Billy, il pezzo forte della mobilia dell’Ikea. Il resto è coordinato.
L’uomo osserva delle fotografie. Si alza, entra in uno stanzino, da dove ne riesce pochi istanti dopo con degli ingrandimenti umidi che appende qua e là senza rispettare alcun particolare motivo geometrico o architetturale. Direi che qui per le inquadrature possiamo prendere spunto dal film di Antonioni, Blow-Up, c’è una scena simile (NdA).
GASTONE: «La troia.»
L’uomo schiaffeggia l’immagine davanti a sé, poi si batte il petto.
Si risiede sull’unica sedia presente nel monolocale, le gambe ben distese sul tavolo. Sbuffa, si gratta la testa.
Alza la cornetta.
GASTONE: «Sono Longhena. Possiamo vederci oggi? Al bar dell’altro giorno. Alle sette stasera. No? Allora otto. Perfetto. No, non si preoccupi, ceno tardi. A dopo.»
Si alza con flemma, stacca la foto di prima, la piega in quattro, la mette in una busta di plastica e quindi ripone la busta all’interno della giacca. Spegne la luce, esce.
GASTONE (fuori scena): «La troia.»
17
Oggi coso è in vacanza con i suoi, e allora Cinzia è venuta in spiaggia con me. Le cuffiette bluetooth pompano nel mio cervello l’album Sentimentally Yours di Patsy Cline, 1962, a ciclo continuo. Gliene cedo una, sicuro che le piacerà. Cinzia pensa sia diventato pazzo, ma io voglio solo rimanere nella parte, come un grande attore, concentrato sul mio piano per conquistare Serena. È anche un test. Pare non funzioni.
Siamo nel settore nudisti, lei dice che nessuno degli amici di coso potrebbe mai frequentare un posto simile e quindi non c’è problema, possiamo andarci insieme e comportarci come due morosetti. Io me ne sto supino sull’asciugamano Marc Jacobs, le gambe divaricate e i piedi piantati sulla sabbia. Le braccia in posa vitruviana, la mano sinistra che stringe forte il seno di lei. Indosso solo il Rolex, fermo alle undici meno un quarto.
Cinzia tiene in mano un foglietto, me lo legge, è roba forte. È migliorata, chi va con lo zoppo impara a zoppicare, il suo personaggio è ben caratterizzato e fa quello che di sicuro sta facendo Longhena in questo momento, a meno che non abbia ceduto all’alcolismo. E cioè aumentare la posta in gioco in una causa di divorzio.
E però sono io che tengo in ghiacciaia il gelato, la mercanzia migliore. Il personaggio più importante è il mio. È il mio che tiene Daniele, che fa impazzire il telespettatore, che crea l’agitazione.
Di una cosa ho sempre avuto il dubbio. Dubbio rimasto sempre irrisolto, fino a questo preciso momento.
Come fa un uomo nel pieno del suo vigore fisico, diciamo nel mezzo del cammin di nostra vita, ma anche e soprattutto più giovane, come me, a mantenere il pezzo calmo in una spiaggia di nudisti. E di nudiste.
Mentre carezzo con trasporto la tetta destra di Cinzia guardo la signora più esperta poco più in là. E non succede niente. Poi guardo le due diciottenni in riva, inizio a sudare, forse non ce la faccio, ma se sposto rapido lo sguardo verso quello che sembra essere – forse, o forse no – il padre, chiamiamolo Il peloso, calmo l’intera situazione. È una tecnica, ci vuole tempo per interiorizzarla, forse le classiche diecimila ore di esperienza, quelle che possono farti diventare come per magia un grande pianista come un esperto economista, a scelta, di solito non si hanno così tante ore da spendere. Però, con tutto il tempo che uno passa in spiaggia durante una vita meglio scegliere una spiaggia per nudisti, e tanto vale esercitarsi a tenere il pezzo sotto controllo, alternando lo sguardo tra cose belle e cose meno belle: è come ispirare ed espirare, è come una sessione di yoga. Così facendo uno arriva a ottant’anni padroneggiando la tecnica e il pezzo non tira più in automatico.
In ogni caso, me la sto cavando egregiamente. Non vorrei fare arrossire le guance di Cinzia in caso di incidente, uno va nelle spiagge per nudisti per riuscire ad avere un colore unico su tutto il corpo. Le levo anche la mano dal seno, poi coso potrebbe notare il marchio delle cinque dita e avrei problemi con la mia studentessa preferita.
«Ti piace davvero?»
«Sì, sei stata brava.»
«E Daniele?»
«Daniele è nel sotterraneo.»
«Hai qualche idea? Mi racconti?»
«Certo. Il Pozzo rientra a casa. Daniele è sempre addormentato. Dormirà ancora per un’ora o due.»
«Tre-quattro puntate?»
«Sarebbe troppo. Diventerebbe una cosa tipo Grande Fratello, uno show troppo lento. Direi che la camera attacca nel momento in cui si sveglia.»
Cinzia estrae la crema solare dallo zainetto. Mi fa un bel massaggio alla schiena. Ottima occasione per provare di nuovo la tecnica che ho imparato, Il peloso è ancora lì, ha tirato fuori il binocolo e guarda le figlie che fanno il bagno.
«Si sveglia, e cosa vede? Cosa vediamo noi spettatori?»
«Vedete una stanza ideata da uno dei migliori decoratori di interni di Villacarla. Un costo non indifferente per la produzione. C’è anche un quadretto, piccolo, eh, poi chi lo sente il ministro, di Damien Hirst. Non una serigrafia, bada bene.»
«Sarà eccitante montare la scena.»
«Lo è, sicuro.»
Ora Cinzia mi passa l’unguento sui pettorali, per farlo mi solletica la schiena con i capezzoli. Il peloso. Guardo Il peloso.
«E cosa succede?»
«Succede che il tizio, Daniele, si sveglia in questo posto che per lui che non capisce è kitsch, ma che il Pozzo, che gli sta innanzi con il costume e tutto, si affretta di fargli capire.»
Mi alzo in piedi, il momento è buono, c’è il sole giusto, illumina i muscoli.
«Fammi una foto.»
Cinzia ride. Obbedisce, tira fuori la piccola Leica dalla borsa e scatta.
«Ricalcala sul tuo solito quadernetto, aggiungici un mantello, dipingila di nero, il logo te lo ricordi, sono due linee, una faccia con bocca dritta stilizzata. Disegna bene tutti i muscoli che si vedono nella foto.»
«Per il pupazzetto?»
«Per il pupazzetto. Quanto alla faccia, mettici quella di Raoul Bova, se poi la direttrice del casting è un’incapace prenderemo comunque un attore che gli somiglia. Riesci a farmi fare un primo calco in gesso in settimana? Vorrei mostrarlo al professor Mauro e ai funzionari dello Stato. Così stimano meglio quanti soldi potremmo riuscire a far rientrare. Se riesci fallo anche dipingere. Da uno competente.»
Cinzia prende nota.
«Adesso Daniele e il Pozzo, ti prego. Tu vuoi vedermi morire di curiosità!»
«E va bene.»
Mi risiedo sull’asciugamano. Guardo l’orizzonte.
«Daniele è intelligente. Capisce tutto. Capisce anche il valore del quadretto di Hirst, lo guarda ammirato. Quello che però si chiede ancora è che cosa sia successo. Cosa ci fa lì, in una stanza delle meraviglie contemporanea. C’è anche un coccodrillo imbalsamato e incatenato, non manca mai, in nessuna wunderkammer. Una specie di simbolo del Cristo che sconfigge il demonio. L’adrenalina che sconfigge la noia.»
«E il Pozzo glielo dice cosa ci fa lì?»
Sbuffo.
«Il Pozzo glielo dice. Il Pozzo è un supereroe positivo: se può soddisfare la curiosità di qualcuno, la soddisfa.»
«Un modello per i giovani.»
«Brava. Così dobbiamo venderla. Verrai con me alla riunione.»
Cinzia si arrapa. È ambiziosa. Devo spiegare anche a lei la tecnica, ma prenderei troppo tempo, allora le indico il peloso con il dito – mi si perdoni la maleducazione. Non appena la vedo più calma, continuo.
«Il Pozzo gli spiega per bene tutto, come l’abbia notato in metropolitana, come l’abbia pedinato, come abbia scoperto e interpretato – correttamente – i suoi sogni ricorrenti. Daniele annuisce, è un frustrato, come tutti, più di tutti. È un ingranaggio della macchina, tutti lo sono. È uno schiavo del sistema. E allora il Pozzo è intervenuto a liberarlo. Ora Daniele potrà soggiornare lì, in quella camera, per quanto tempo lo vorrà. Anche per tutta la vita. O anche solo per cinque minuti. Daniele è un uomo libero. Il Pozzo gli farà visita periodicamente, Daniele potrà anche chiamarlo con una specie di citofono, dovesse avere dei desideri particolari. Come prima cosa sceglie di fare un binge watching di una settimana, sette giorni di fila di televisione, serie interessanti, tipo Netflix; Daniele non ha mai potuto farlo prima, né con il lavoro né in vacanza, uno non guarda la televisione in vacanza. E uno non guarda la televisione a lavoro. Ma ora ha tutto il tempo che vuole. Una vita senza fretta, la sua. Ora vedi, seguimi bene, prendi nota: sarebbe interessante che qualche puntata della nostra serie diventasse in realtà una puntata della serie che guarda Daniele, così da farla diventare una meta-serie. Se hai tempo, se vuoi, puoi lavorare anche in questa direzione, prenditi una pausa da Longhena. Ancora è presto perché indaghi. Ancora nessuno ha reclamato Daniele indietro.»
Puntata #10
18
Interno giorno.
Una stanza elegante d’altri tempi, un grande letto a baldacchino. La giovane donna si sveglia. Indossa una lunga vestaglia orlata di pizzo. Attorno a lei tanti pacchetti colorati ancora da aprire. È il suo compleanno, o forse è Natale, o chissà. La porta si spalanca, entrano due belle bambine, la grande avrà cinque anni, la piccola un paio di anni in meno. Segue il bebè, che gattona contento dietro alle sorelle. Parte maestoso l’Idillio di Sigfrido, la musica proviene dal cuore della casa. È chiaramente un live.
COSIMA, la donna: «Bambini… Cosa succede? Che suoni meravigliosi. Dov’è papà?»
ISOLDE, la figlia grande (saltando sul lettone e baciando la donna): «Buon Natale, madre!»
EVA, la mezzana (rotolandosi per terra): «Buon Natale! Buon Natale! Apriamo i regali?»
SIEGFRIED, il più piccino (scagliando in aria un oggetto trovato sul pavimento): «Tette! Tette! Tette!»
L’uomo, distinto ma ben più attempato di quella che sembra essere la sua sposa, fa il suo ingresso.
RICHARD (bacia la donna): «Cara. Buon Natale. Questa musica è il mio dono per te. Vieni, vieni a vedere. L’ho composta in segreto, era il tuo regalo di compleanno, ma ieri i musicisti non ce l’hanno fatta a venire.»
La famiglia si sposta in corridoio, un’orchestra da camera esegue il brano. L’uomo sembra soddisfatto, la donna è in lacrime. I bimbi aprono tutti i regali che riescono a trovare. Il più contento sembra essere il piccolo, che, stufo di giocare, inizia ad arrampicarsi per la grande scalinata.
Gli altri stanno fermi ad ascoltare la musica, e così lo spettatore fino alla fine della puntata. Carrellata sui musicisti. Finale, camera fissa sugli occhi umidi della donna e sullo sguardo ispirato dell’uomo.
19
«Magnifico, magnifico. Un biopic sul mio compositore preferito, non avrei saputo fare di meglio.»
La finta modestia non mi si addice. È chiaro a tutti, anche a Cinzia, che io avrei scritto un capolavoro mentre lei ha fatto il compitino, ha studiato due cazzate, ha scritto una scena semplice di intimità familiare, ben integrando la storia dell’Idillio di Sigfrido, è vero, le do atto, ma io sarei andato oltre, avrei fatto vedere Wagner mentre si scopava la figlia di Liszt, Cosima, più giovane di lui di ventiquattro anni, robe che nemmeno io e Cinzia. Tre figli sfornati nel giro di cinque anni, ah, che maschio. Chissà come scopava, non ce lo vedo nella posizione del missionario, nessuna missione al di là del piacere. Del resto la leggenda lo dice, io non so se sia vero, ma Wagner sarebbe morto a Venezia mentre una servetta gli stava facendo una fellatio come si deve. Ah, come avrei saputo caratterizzarlo al massimo, Richard, nudo, avvolto nella seta profumata – come piaceva a lui – inebriato dal piacere e dall’euforia della propria musica. Ma non è detto: Daniele è lì che guarda la televisione e ha bisogno di nuove puntate, la prossima potrei scriverla io. E poi, nella mia versione avrei messo lo stesso Liszt, al pianoforte, nella stanza accanto, a suonare divino la sua trascrizione del Liebestod, mentre figlia e genero si davano da fare al ritmo di quelle note dolci e così ossessive. Avrei presentato gli amanti come fossero immedesimati nei protagonisti dell’opera Tristan und Isolde, mentre hanno i famosi sette orgasmi in scena: con tanto di coito interrotto finale, dannazione. Questa, a parer mio, è la definizione di lirica. Questa sarebbe stata una degna sceneggiatura.
Cinzia sorride.
«Grazie, l’ho scritta per te, sapevo avresti apprezzato.»
Mi si stringe addosso e poggia la testa sulla mia spalla. Camminiamo così per qualche istante, mentre percorriamo i corridoi deserti della facoltà: è un sabato, la riunione si poteva fare solo oggi, e così non ci sarà nemmeno Serena che con ogni probabilità se la sta spassando con il suo uomo del momento, che immagino sia un tipo brizzolato, un filo di pancetta, il ferrarino forse, ma se non ce l’ha si parla comunque di qualcuno con il portafoglio gonfio. Uno sorridente, pieno di capelli, tipo il dottor Fresco, quello del talk show. Lui il ferrarino ce l’ha, gliel’ho visto l’altra sera. Ma gli piacciono gli uomini.
Le restanti probabilità danno Serena impegnata in un pranzo con la famiglia, magari non la sua né tanto meno quella dell’uomo del momento, ma quella del fidanzato ufficiale, una di quelle cose che con me non dovrebbe mai preoccuparsi di dover fare, ma tant’è, se l’è voluta lei, che continui pure a ignorarmi.
Ma forse Serena non è come Cinzia, e queste cose non le fa. Nessun giochetto, nessuna promiscuità. Forse in questo momento, banalmente, piange. E lo so solo io.
In ogni caso, io, per questi bifolchi, la barba non l’ho fatta.
Mauro è già lì, lo stesso vestito, la stessa cravatta, l’occhiale che mi piace – devo chiedergli da che ottico va –, un filo di polvere sulle spalline della giacca, segno che non si è mosso di lì dall’ultima volta che l’ho visto, ma forse magari è forfora.
Già lì sono anche i due ispettori del ministero, io arrivo per ultimo perché sono l’artista e gli artisti si fanno attendere, e come se non bastasse sono professore e i professori si fanno attendere.
L’ispettore è grigio come l’ente che rappresenta, l’ispettrice è una donna sui cinquant’anni che andrebbe valutata vestita diversamente, con un filo di trucco, non dico che farei follie per lei ma se mi dovesse fare un’offerta in denaro l’accetterei, anche solo per soddisfare un paio di curiosità nei suoi confronti. Si interessa di più a Cinzia, la saluta con calore: ora le mie curiosità sono diventate almeno tre.
Mauro gestisce la cerimonia come solo uno stagionato dirigente sa fare, dicendo nulla e ringraziando tutti quelli che nulla hanno fatto. Poi mi guarda, indicandomi come se nella stanza fossimo in cinquecento, e quindi mi dà la parola.
«C’è molta incompetenza in giro. Non c’è conoscenza, c’è ignoranza, c’è pressapochismo, qualunquismo, nozionismo», dico.
Pausa di cinque secondi, giusto per ricevere segnali positivi dai movimenti delle teste dei presenti.
«Ed è per questo che, come si diceva l’altra sera, anche con la sottosegretaria, servono iniziative nuove per i giovani.»
Altri dieci secondi, approvazioni che arrivano puntuali. Del resto ho messo l’accento sulla parola più importante, e cioè sottosegretaria. Domino la platea.
«Cinzia, il foglietto.»
E qua la caduta di professionalità, Cinzia non capisce – perché l’ho portata con me? – è ancora inesperta, a portarla tra gli squali finisce che le brucio la carriera accademica ancora prima che sia iniziata. Quel che importa è che però non danneggi la mia, non possiamo far perdere tempo alla gente venuta per noi da Roma e di sabato per giunta.
«Cosima, Isolde: quel foglietto là, diamine.»
“Diamine” è una parola molto apprezzata dalla burocrazia, dà il senso della gerarchia e non viene percepita come volgarità. Gli ispettori annuiscono con accesa convinzione, capiscono di avere a che fare con una cretina che purtroppo il suo professore deve accudire, formare per bene, tenersela purtroppo perché magari è figlia di, gli è stata imposta, non è abituata a queste esposizioni, poveretta che vuoi non ha neanche trent’anni. L’ispettrice si passa la lingua sulle labbra.
Cinzia capisce, ora, sono stato abbastanza esplicito. Mi passa titubante la stronzata che ha scritto su Wagner & family.
Indosso gli occhiali – sono meno belli di quelli di Mauro, ne soffro – do una rapida letta allo scritto, pronuncio a voce alta due o tre parole prese dal documento, tipo “maestoso”, “famiglia”, “ispirato”, evito la parola “tette”, fuori contesto benché pronunciata nella finzione narrativa dal lattante Siegfried e priva di ogni contenuto e riferimento sessuale.
Lo passo alla funzionaria.
«Legga, legga. È un brano preso dalla nostra serie. Altamente educativo: i valori della famiglia frammisti alla storia e alla musica. Pane per i giovani.»
I due burocrati leggono ogni parola, annuiscono, sorridono, l’uomo si alza e dà una pacca sulla spalla al mio direttore.
«Ottimo. Wagner magari è un compositore controverso, la serie è tutta su di lui o ci saranno altri musicisti?»
Rispondo pronto, ero certo di questa obiezione.
«Pensavamo di inserire anche Liszt a un certo punto, è un contemporaneo, ne era il suocero, non volevamo fare un mix troppo eterogeneo. Ma magari, in futuro, se ci saranno altri soldi, perché no?»
«D’accordo», dice la donna, «ne parleremo con il ministro. Il nostro avviso è favorevole.»
Mauro gonfia impercettibilmente il torace. Si toglie gli occhiali e li pulisce con un panno immacolato, poi li indossa di nuovo. Apre il piccolo frigorifero nascosto sotto la scrivania.
«Champagne per tutti.»
Cinzia esita, è lì che vuole dire qualcosa, balbetta, non sa se, non dovrebbe, ma vorrebbe. Le vado incontro con pazienza.
«Cinzia, bevi lo champagne che diventa caldo.»
«No, ma…»
L’ispettrice le dà una mano, le sorride, le cinge la vita.
«Vuole aggiungere altri argomenti? Ha altre pagine da farci leggere?»
Cinzia fa segno di no con la testa, ma continua ad aprire la bocca.
«Ho portato questo, è un prototipo, l’idea era di avere una serie di giocattoli ispirata alla trasmissione, un modo anche per rientrare dalle spese. Reagan ci aveva pensato già negli anni Ottanta.»
Dalla borsa tira fuori Raoul Bova vestito da Batman. Bel fisico, niente da dire.
Mauro rovescia mezzo bicchiere sulle carte sparpagliate nella sua scrivania, l’ispettrice ride, l’ispettore prende il modellino e lo osserva con attenzione.
«Wagner all’epoca era più vecchio.»
Ripone l’oggetto sulla scrivania del decano. Ci sta bene, è il suo posto ideale.
Intervengo io.
«È un’interpretazione post-contemporanea dell’Olandese Volante. Il fantasma del pirata – lo vedete il mantello – come se l’opera fosse ambientata nel 2500, in un futuro distopico, dove la ragazza che gli dona la salvezza non è altro che un robot incapace di intendere e di volere, una roba al gusto della nostra epoca. Vedrete, ci sarà un episodio apposito.»
Ancora approvazioni.
Mauro stempera la tensione. È davvero navigato: innato materiale da rettore. Faccio il tifo per lui.
«È pure un bell’uomo questo olandese, posso tenerlo qui?» chiede a Cinzia.
Pare che come al solito non capisca ma una risposta le esce comunque di bocca ed è quella corretta. Trenta e lode: «Certo, professore.»
Usciamo tutti contenti, saluti di rito, nessuno ha molto tempo, c’è chi ha il treno per la capitale da prendere, chi deve vedere gli amici al club e allora tanto meglio, perché ne ho abbastanza, e porto Cinzia a mangiare qualcosa. C’è il trionfo da celebrare, in parte è merito suo e allora le faccio scegliere quello che vuole dal menu, fosse anche un piatto di aglio e olio che poi mi impedirebbe di amarla così come si confà. Per adeguarmi, la anticipo e lo ordino pure io.
Puntata #11
F
Sono riuscito a risparmiare qualcosina, in spiaggia la gente c’era. Nessun bisogno di scritturarne di nuova. Il peloso è stato un colpo di fortuna. Uno così perfetto chissà quanti soldi mi avrebbe chiesto.
I due nuovi invece arrivano in ufficio e vogliono essere remunerati subito, hanno fretta, c’è il mutuo da pagare. Fortuna che serviranno solo per una scena, gente misera: spiacevole lavorarci insieme.
Mi faccio restituire i completi grigi da burocrate, possono tornare buoni in seguito, lui insiste per tenerlo, ma vuole lo stesso la paga piena, alla fine sceglie i soldi. Come biasimarlo.
La parrucca a lei la faccio tenere, sta meglio così, la donna fa finta di niente, pensa che me ne sia dimenticato, le lascio questa soddisfazione. Fuori di qui, adesso. Non ci vedremo mai più. Devo pensare.
APPROCCIO AMOROSO IPOTETICO n. 2
Potrei consolarla, Serena. Dimostrare la completezza del mio amore, l’assenza di ogni forma di interesse tra i miei sentimenti. La castità dei miei pensieri. Potrei prenderle la mano, potrei parlarle, finalmente. Dirle che la capisco, che anche io mi struggo, giorno dopo giorno. Potrei perfino farla piangere sulla spalla del mio vestito Armani, non costerebbe poi tanto farlo lavare a secco.
Potrei chiederle il numero del suo cellulare. E poi inviarle un messaggio il primo giorno. Due il secondo. Tre il terzo. Quattro il quarto. Una piramide rovesciata, per provocarle un’eccitazione sublime, farla impazzire non appena il quinto messaggio, al quinto giorno, le arriverà soltanto alle ventitré e cinquantanove minuti. Le arriverà dopo un pomeriggio passato in crisi d’astinenza, dopo un breve messaggio d’amore spezzato. E quindi finalmente il cuore grande, tutto rosso, ad apparirle sullo schermo del telefonino pochi secondi prima della mezzanotte. Solo allora sarà mia per sempre.
Poi, qualche poesia. Qualche aria di Puccini, un duetto magari, o soave fanciulla. No, non funzionerebbe, meglio osare roba da musical anglosassone, che io sia maledetto dagli dei per questo pensiero, questo paragone, questo sgarbo alla tradizione; che mi sia tolta la cattedra da professore ordinario oggi stesso. Ma davvero potrei giocare il mio lato sexy e piazzarle qualche nota d’un tango di Lloyd Webber, quello dove Eva Duarte seduce Juan Perón. “… I’m not talking of a hurried night, a frantic tumble then a shy goodbye…”, messaggio vocale intonato di persona, a cappella, meglio di Elena Roger, meglio di Elaine Paige. Potrei distinguermi davvero, all’interno della lista dei suoi amanti. Enrico Proci, il più sensibile, il più educato, l’unico vero uomo di classe della sua vita. L’unico che l’abbia mai amata davvero. L’unico che le è stato vicino nei momenti meno colorati della sua vita. Il presente e il futuro. I sogni del passato.
Potrei.
Non oso. Non oso ancora.
20
Interno notte.
Il bar è pieno, è l’ora dell’aperitivo, la gente chiacchiera, il barista riempie calici soddisfatto chiacchierando più di tutti.
L’uomo vestito di bianco no, non beve lo spritz come gli altri, non partecipa alla conversazione. L’uomo vestito di bianco aspetta, sorseggiando un liquido marrone.
L’altro uomo arriva dopo qualche minuto, cammina senza fretta verso il tavolino di chi lo attende.
GASTONE: «Un ritardo di tre whisky.»
L’ALTRO UOMO: «Si segni tutto, ritardo e bevande. Metta in conto.»
GASTONE (tirando fuori la grande fotografia): «Questa è sua moglie?»
L’ALTRO UOMO: «La troia.»
GASTONE: «Lo prendo come un sì.»
L’ALTRO UOMO: «Ci parla lei con l’avvocato? Non voglio più vedere questa immagine.»
GASTONE: «Ci parlo io.»
L’ALTRO UOMO: «Grazie. Arrivederla.»
L’altro uomo si allontana dal tavolo, esce veloce dal bar.
Gastone ripone la fotografia nella busta, e quindi nella tasca della giacca.
Si alza, cammina zoppicando, deve tenersi al bancone del bar per non cadere.
GASTONE: «Un whisky, ragazzo.»
21
«Trovo che questo Longhena manchi di spessore, Cinzia. Puoi fare di meglio.»
Starbucks, tra tutti i luoghi di incontro possibili, è di certo il più cafone. Poi Cinzia non può lamentarsi se la critico, se le cerca da sola. Io comunque provo a tenerle la mano, mentre le parlo. Una prova di dolcezza, devo affinarla, come sono fatto non vado bene, è chiaro anche a me. Il fitbit che tengo al polso non registra anomalie nel battito cardiaco. Mi domando se quando sarò a contatto fisico con Serena il risultato sarà lo stesso.
«Il problema è che ancora davvero il detective nella storia non serve. A me piace scrivere di azione, non di bevute al bar insieme ai cornuti di Villacarla.»
Do una lunga sorsata al frappuccino al cioccolato specialità della casa. La bevanda è contemplativa, allora rifletto qualche istante su quello che sto per dire.
«Nella prossima scena si entra nel vivo.»
«Succedono cose?», addenta il biscottino.
«Il Pozzo va a trovare Daniele. Daniele è stufo di guardare la tv, nonostante sia la tv più grande che abbia mai visto, la vita di Wagner interessantissima, e nonostante la poltrona sia molto comoda, del resto parliamo di diecimila euro ed era in saldo. Non c’è nemmeno il bisogno di sgranchirsi le gambe.»
Tamburello le dita sul tavolo. Non lo faccio mai.
«Professore, sarei stufa anche io, tutti questi giorni di sola televisione. In fondo si tratta di una prigionia.»
È vero, Cinzia non resisterebbe così tanto, Cinzia è fatta per amare, per essere amata, ogni tot ore di televisione va presa per mano, spogliata per bene e leccata dappertutto. Altrimenti, ha ragione lei, ci si annoia.
«Allora senti qui. Siamo rimasti che il Pozzo va a trovare Daniele. Non da solo. Ci va con tre puttane. Non di strada, bada bene, non di strada. Il patto tra gentiluomini che vincola l’eroe a quell’uomo contempla solo roba di prima scelta. E il Pozzo ha una sola parola. Daniele però è timido, lo confessa al suo carceriere, si vergogna. Preferisce guardare. E allora il Pozzo si toglie la tuta, lascia solo la maschera al suo posto e riesce a soddisfare due delle tre troie, tra gli applausi dell’uomo e della terza donna, che finalmente si uniscono ai giochi, si baciano con trasporto, si toccano, si tolgono i vestiti, si amano con dolcezza, in posizione canonica, una cosa molto rapida ma non priva di sensualità. Il Pozzo si riveste e esce con le sue due amanti, torna su, nel suo appartamento, la terza rimane con Daniele, lì rimarrà a lungo, gli serve compagnia, c’è affiatamento.»
Cinzia finisce la sua colazione. Mi guarda eccitata.
«Tutto questo è molto interessante, anche divertente. Ma ai ministeriali piacerà? È un programma per i giovani.»
«Hanno approvato il progetto, eri presente anche tu. Il programma è per giovani, certo. Non per bambini, lo ammetto, ma ai giovani queste cose piacciono. Tu sei giovane, no? E poi qualche inserto su Wagner lo mettiamo, su, ci penserò anche io, lo rendiamo più dinamico di come lo hai scritto tu. Non ti preoccupare. Con i gerarchi me la vedo io.»
Sembra convinta. Le faccio una carezza, lì, in pubblico. Non dice nulla, mi guarda con quei suoi occhi grandi che tanto riescono a comunicarmi durante l’intimità.
«Comunque, ti dicevo, ora Longhena serve, nella storia.»
Tira fuori il quaderno, sa che ora tocca a lei.
«Fallo svegliare, fallo mangiare, fagli anche fare dieci minuti di ginnastica ché è grasso. Che si rilassi per bene. Poi esce di casa per andare nel suo studio e proprio lì, nel bidone dell’immondizia di fronte all’entrata della sua palazzina, ci trova un bel braccio penzoloni. Un braccio tatuato. Con tutto il corpo attaccato, all’interno del cassonetto. E, sorpresa, i corpi sono due.»
Cinzia non perde una parola, scribacchia con avidità, la lingua fuori come un cane, ah, quella lingua, che toccasana.
«Sono i corpi delle prostitute?»
«Sono i corpi delle prostitute.»
«E la terza è sempre con Daniele.»
«La terza è al servizio di Daniele, a tempo pieno, sì. Donna fortunata.»
«Ma perché?»
«Il perché deve scoprirlo Longhena, qualcuno getta i propri rifiuti nel bidone della sua immondizia, nell’immondizia di un detective privato pieno di nemici, è chiaro che ora indagherà, si motiverà. Avrà anche la polizia addosso, presumo. Divertiti.»
Cinzia smette di scrivere, ordina un altro caffè, insiste con le sue domande. È una dottoranda e i dottorandi sono curiosi.
«Ma io devo saperne di più sulla storia. Chi è stato? Il Pozzo, immagino.»
«Più che il Pozzo è stato Enrico Proci stesso, le ha portate su, in casa, tanto avevano già visto la palazzina, già notato l’indirizzo, già capito che Daniele si trova in uno stato, come dire, di cattività. E lì, dato che i coglioni li aveva già abbondantemente svuotati pochi minuti prima, non gli è rimasto altro che ucciderle, con il coltello da cucina, quello di qualità giapponese, quello che costa trecento euro, te l’ho già mostrato una volta. Purtroppo Enrico non si fida di nessuno, e queste due andavano messe a tacere.»
«Tanto sangue?»
«Tanto, copioso, sangue di puttana. Dai loro colli direttamente sui tappeti buoni di Enrico Proci, non ti dico altro. Puoi immaginare per pulire.»
Cinzia chiude il quaderno soddisfatta.
«Ho abbastanza materiale sul quale lavorare.»
Mi bacia la guancia, come fossi un suo vecchio zio, poi mi ringrazia per tutti i messaggini romantici che le ho inviato in questi giorni – un allenamento per quelli che dovrò presto inviare a Serena – e se ne va, lasciandomi il conto da pagare.
La sera arrivo alla festa organizzata da Egidio Mauro nella terrazza del suo bell’appartamento, pagato da molti anni dal contribuente senza che questi abbia mai avuto nulla in cambio se non qualche saggio privo di interesse pubblicato in riviste a circolazione regionale.
È la prima volta che sono nel numero chiusissimo, riconosco qualche faccia, docenti grandi elettori, l’assessore Astori, qualche esponente della ridotta vita culturale di Villacarla; della sottosegretaria invece riconosco soprattutto il culo, direi piuttosto indimenticabile, una che ci sa fare, e che sa dare il giusto valore alle cose, altro che la sciacquetta del talent che ha avuto la fortuna di condividere il letto con noi e che giustamente abbiamo messo da parte dopo qualche preliminare.
«Onorevole, non la sapevo dei nostri.»
Il baciamano, quando deve essere fatto, va fatto. Non sono molte le occasioni, in una società come quella odierna, sempre alla ricerca di giovanilismi, di informalismi. Soprattutto va fatto omettendo di toccare la mano con le labbra: per gustare la pelle di questa donna ci sarà tempo e luogo. In pochi minuti e in pochi metri, forse, ma non ora, al mio arrivo, in piena terrazza, davanti a tutti.
«Professor Proci, io invece la aspettavo con preoccupazione. Lo immagina che noia, senza di lei? Un ricettacolo di polvere, con tanto di acari a pasteggiare.»
Io questa donna potrei anche sposarla. Fiero di essere rappresentato da lei in parlamento e nel governo. In più è giovane, ha davanti a sé un lungo cammino nelle istituzioni. Va lavorata per benino. Bene che Cinzia non sia stata invitata.
«Mi hanno detto del suo lavoro su Wagner, un lavoro divino, sono tutta bagnata al solo pensiero di vederlo, di sentire la musicalità dei dialoghi scritti da lei. Ha già venduto la produzione?»
Apro la bottiglia di Cristal, è incustodita, forse era per dopo ma che mi frega, che sarà mai, e le servo una coppa, giusta giusta della dimensione dei suoi seni.
Cin cin.
«No, c’era un interesse, blando, da parte della Filmer900, ho sentito dire. Ma chissà, non sono abbastanza dentro a queste cose. Peccato perché questi poi lavorano con la Rai.»
«Me ne occupo io, professore. Lei se lo meriterebbe davvero.»
Beviamo.
«Onorevole, dice che è un problema se oltre a Wagner inseriamo degli altri argomenti? Più sperimentali. Sa, la società, gli ingranaggi, la noia. Un po’ d’azione. Cose così.»
Mi guarda divertita.
«Se ci mette l’azione, guardi, è cosa fatta. Io ora posso chiamare un pezzo grosso, Sandro Lorenzi, gli racconto a grandi linee quello che mi ha detto lei, e poi questo la richiama domani, dopodomani, con un contratto. Non le garantisco la prima serata, eh. Comunque ora Lorenzi si sentirà legittimato e forse mi scriverà cose maialine via Whatsapp; è probabile che mi toccherà anche dargliela, ma cosa vuole che sia.»
Ridiamo spensierati. Ah, gli ultimi anni della mia giovinezza. Mi mancheranno.
«Andiamo a vedere la camera da letto di Mauro?»
«Andiamo.»
Puntata #12
22
Esterno giorno.
L’uomo vestito di bianco fissa il contenuto del cassonetto da ormai cinque minuti. Due corpi, molte le larve, qualche scarafaggio. Topi ancora no (e poi non ne vorrei sul set, NdA).
Estrae il cellulare, niente di che, un Nokia di quelli vecchi. Digita un numero.
GASTONE: «Buongiorno, mi chiamo Gastone Longhena, ho appena trovato due cadaveri in decomposizione dentro a un cassonetto. Due giovani donne. Sì. Sì. Via Alighieri 40. Grazie. Sì, vi aspetto.»
Aspetta.
Sirene fuori campo, il suono si fa sempre più forte.
Arriva una volante. Scendono due poliziotti, vanno a vedere dentro al cassonetto, uno dei due vomita. L’altro scrive qualcosa su un taccuino, torna in macchina, parla con qualcuno alla radio.
PRIMO POLIZIOTTO: «Ho informato il magistrato, ora manderanno qualcuno, arriverà la scientifica. Lei deve rimanere con noi, le faranno qualche domanda. Intanto, nome, cognome, professione.»
GASTONE: «Gastone Longhena, investigatore privato.»
PRIMO POLIZIOTTO: «Ha trovato le vittime seguendo la traccia di un suo caso?»
GASTONE: «No, io faccio solo divorzi. Abito qui sopra.»
PRIMO POLIZIOTTO: «Vada pure a sedersi in macchina. Il magistrato arriverà tra pochi minuti.»
Gastone allarga le braccia e ubbidisce.
23
«Tutto qui?»
«Devo studiare. Se devo fare intervenire un magistrato, la scientifica e tutto il codazzo al seguito, devo studiare. Non posso scrivere tanto per scrivere.»
«Romanzalo, è una roba per la tv. La gente non è sofisticata.»
Sto leggendo il giornale. Questa arriva in ufficio, il ricevimento è domani, mi getta la scarna paginetta sotto il naso e pretende di interrompermi.
«Mi dispiace, ieri non ho dormito, non riuscivo a scrivere, volevo delle parole gentili, di incoraggiamento. Sarei venuta domani, ma avremmo perso un giorno.»
Accendo il fornellino non omologato che tengo nella cassettiera e metto su il caffè. Pausa forzata.
«Cinzia, devi credere in te. Sei una brava sceneggiatrice e…»
«Non sono una sceneggiatrice, sono una dottoranda in scienze della comunicazione, capirai che è diverso, lo devi capire, sei il mio relatore.»
«Prendi ispirazione dall’attualità. Guarda qui. Prima pagina.»
Punto il dito indice sul titolone centrale. Cinzia legge e sbianca.
«I corpi di due donne ritrovati in un cassonetto qui a Villacarla? Ma…»
Mi servo una tazzina.
«Vuoi?»
«No, ma… Com’è possibile?»
Mescolo. Bevo. Tepore.
«Che cosa vuoi che ti dica? Un omicidio, doppio. Capita. O no? Direi che è possibile, quasi probabile.»
Cinzia riprende colore, quasi avesse accettato il caffettino, che, come sempre quando lo faccio io, è speciale.
«Ah no, ma guarda! È in via Donatori di Sangue!»
«Quindi?»
Rivoglio il mio giornale e voglio che se ne vada, non ho tempo per le sue idiozie.
«Quindi, non è in via Alighieri», dice soddisfatta.
«E come avrebbe potuto essere in via Alighieri, piccola?», non l’avevo mai chiamata così, ora arrossisce, si innamora, sbattimento: mannaggia a me.
E invece no, mi sovrastimo, rimane assorta nella lettura dell’articolo. Bene. Poi alza la testa, e sorride.
«Hai ragione, via Alighieri è una mia invenzione. Sarebbe stato impossibile. Ma la tengo, via Alighieri, nel mio testo?»
Gli occhi mi vanno fuori dalle orbite.
«Non vedo perché dovresti cambiarlo. La nostra è una storia diversa da questo fatto di cronaca nera, mi sembra un’ovvietà, Cinzia. Vuoi andare in cerca di rogne? Comunque se ti serve, e mi pare che ti serva, prendi pure ispirazione, come ti ho detto. Ora tieni questa moneta da un euro, esci, va’ a comprarti il giornale e lascia qui il mio che lo sto leggendo. Ciao.»
Prende la moneta e la mette in tasca, ma decide di rimanere dov’è.
«Nessuna novità?», mi chiede.
Vorrei sapere da quando un professore fa la relazione a un proprio studente, ma io sono un signore e una persona gentile, e allora le rispondo.
«Sì, ho parlato con un certo Lorenzi della Filmer900. Si occuperà della distribuzione, in pratica è ormai certo che la serie passerà in Rai.»
Cinzia si solleva la maglietta e mi mostra il seno. È il suo modo di farmi vedere che è contenta. Lo tocchigno, apprezzo. Le faccio cenno di rivestirsi.
«Sono anche andato avanti con la storia, la vuoi sentire, già che ci siamo?»
È evidente la risposta. Continuo.
«Passa qualche giorno. Daniele e la sua amica si divertono molto, iniziano a conoscersi, a ingranare. Io alimento le loro passioni, porto loro il necessario, preservativi, maschere, anche quel che serve affinché possano cambiare ruolo, di tanto in tanto.»
Cinzia mi prende in giro: «Non mi hai mai detto di queste tue fantasie, se vuoi la prossima volta…»
La interrompo subito: «Siamo in dipartimento, non prenderti certe libertà, sono un professore ordinario e tu non sei nessuno.»
Troppo duro: non parla più, ma così almeno posso andare avanti io.
«Daniele è stanco, l’ultimo giorno ha diminuito le ore di attività, guarda più tele del solito, legge fumetti, Roxana si stufa, allora il Pozzo arriva con un catering diverso ogni giorno, roba chic, roba stellata. Servirebbe forse anche un bel primo piano dell’estratto conto della carta di credito di Enrico Proci, per far capire. Comunque Roxana apprezza e Daniele anche così non deve stare lì con i pantaloni calati a fare troppa fatica per tenerla appagata.»
«Forse a Roxana non piace Wagner. Non è musica per tutti.»
«Certo che no, altrimenti non la ascolterei io. Mi stai paragonando a una puttana, Cinzia? Non serve che rispondi. In ogni caso, ospite di Proci, si sta facendo una cultura, perlomeno culinaria. Pensa che bevono solo birra Deus, il Pozzo ha smesso di portar loro acqua.»
Cinzia passeggia per il mio ufficio, guarda i quadri, si chiederà se sono veri e la risposta è sì, sono veri, soprattutto il dieci centimetri per dieci di Georg Grosz, quello che ho vinto all’asta minacciando i concorrenti di pubblicare le foto dei loro tradimenti. E mica le avevo.
«E come si lavano? Credo che il pubblico voglia sapere, voglia vedere.»
«Non lo so, si leccano, bevono Deus, spandono Deus, profumano Deus. Anche se poi al Pozzo tocca lavare per terra ogni tanto, l’odore della birra secca nel pavimento è disgustoso. Anche raccattare il loro sterco dagli angoli della stanza non è un compito che il Pozzo fa volentieri, bisognerebbe convincere il regista a fare dei primi piani, certo il Pozzo porta la maschera ma l’espressione negli occhi è quella che è, e non è certo quella di uno che fa questo mestiere con piacere.»
«Potremmo farlo fare a Roxana, del resto mangia e beve gratis. Potrebbe lavorare: non è lei l’ospite, il pubblico capirebbe.»
«Daniele difende la sua Roxana. Ci penserò, troverò una soluzione anche a questo problema.»
Cinzia è una ragazza sveglia, farà strada, il suo commento successivo è pertinente: «E la storia? Non va avanti? È una serie questa, non un reality.»
Mi alzo in piedi, cammino avanti e indietro per la stanza, come Zio Paperone quando rimugina sui più gravi problemi, quelli tali da poter angosciare il papero più ricco del mondo.
«Daniele ha chiesto una cosa al Pozzo. Ha chiesto del sangue.»
«Portagli uno dei tappeti sporcati dalle prostitute che il nostro Enrico Proci ha assassinato.»
L’ho già fatto, fa parte dell’arredamento della cella, non valeva la pena spendere ancora. Ovviamente l’ho girato. Rifiuti di gran classe, di gusto, il riciclo poi fa bene all’ambiente. Design sostenibile.
«Vuole sangue fresco, sangue di stagista, dice che le nuove generazioni vanno difese, salvate, immolate; vuole che i giovani non entrino nel circolo vizioso che lo assuefa da anni.»
«Immolate?»
«Non c’è altra soluzione, sia il Pozzo che Enrico Proci, che poi sono la stessa persona, la pensano come Daniele. Cosa possiamo fare con i giovani? Vuoi che si riducano come Daniele Spada? Vuoi far loro sperare che un giorno, dopo essere rimasti incastrati per anni nella macchina infernale che la vita rappresenta, anche loro verranno rapiti dal Pozzo e rinchiusi in un paradiso di lusso, con arazzi, televisori 3D e troie da salotto? Enrico Proci sarà già morto quando loro saranno vecchi come Daniele. Chi li salverà: chi? E allora, meglio che muoiano.»
Cinzia riflette sul mio pensiero. Saper ascoltare è la più grande virtù.
«Va bene. Anzi: non vedo l’ora di leggere la sceneggiatura. Sarà un pezzo memorabile del nostro episodio pilota, quello che farà parlare i critici per settimane. Ingrediente principale del successo.»
La bacio: un lungo e silenzioso minuto.
24
Esterno giorno.
I ragazzi pullulano all’uscita dell’Impresa. Le loro facce sono fresche, i loro corpi non ancora sformati, le schiene dritte, le cervicali perfette, il portamento, la figura, tutto è bello in loro. Qui servirebbe un regista come Alfonso Cuarón, uno bravo con il bianco e nero, con l’uso della luce, uno che possa illuminare queste presenze e sbiadire il resto della gentaglia che entra ed esce da questo triste posto (NdA).
Alcuni hanno già l’aria corrotta, lo si vede dai due o tre capelli bianchi che spuntano dalle loro chiome fluenti, lo si nota da come svelti imboccano l’entrata della metropolitana, non si fermano troppo con gli altri, non vanno a bere qualcosa. Questi faranno strada, saranno confermati nel loro posto di lavoro, a vita. Sono già nell’ingranaggio, il Pozzo niente può fare per loro. Il Pozzo è lì per salvare un innocente.
Il ragazzino con gli occhiali sta là, a pochi metri. Parla con tutti, poi tira fuori un panino – deve essere mortadella –, lo addenta, parla di nuovo mentre una nuvola di briciole che esce dalla sua bocca si spande nell’atmosfera.
Un innocuo, ingenuo, stagista. Uno al quale il contratto non verrà offerto, al termine del tirocinio. Uno che dovrà ricominciare, un altro stage e un altro ancora, fino a quando, più maturo, con due o tre capelli bianchi, le lenti a contatto, senza panino – bisogna mangiare nella mensa aziendale per farsi notare – avrà fretta di prendere il metro e arrivare a casa. È qui che bisogna colpire, intervenire, salvare dalla disperazione. Il ragazzino con gli occhiali e il panino.
Il Pozzo lo segue.
Il Pozzo sa come convertire la sfiga in paura.
La lama è affilata, sa tagliare il sushi, sa tagliare la carotide.
Non c’è rumore: è stata una vita priva di rumore. È bene non iniziare quando finisce. Silenzio: vent’anni di silenzio. Il ragazzo, l’uomo del futuro, è salvo. Per lui non ci saranno sofferenze. Grazie, Daniele, grazie. Grazie, Pozzo. Grazie, Enrico Proci. Queste sarebbero state le sue ultime parole, ne avesse avuto il tempo.
E ora, disporre del corpo. Come si chiamava la strada? Via Alighieri. Numero 40, correggimi se sbaglio.
Puntata #13
25
Lo so, Cinzia ora mi dirà che ho scritto parole in libertà, che devo fare attenzione a come scrivere una sceneggiatura, che è piena di pensieri difficili poi da rendere in televisione ma io le risponderò che non me ne frega niente, che io abbozzo, e che poi sia lei a mettere le cose in ordine, e che cazzo. Viene pagata dall’università per cosa?
Mi sorride.
«Sì, era Via Alighieri 40. L’indirizzo di Gastone nella mia finzione narrativa.»
«Vedi che ti leggo sempre con attenzione?», le sorrido a mia volta.
«Forse Gastone dovrebbe passare qualche guaio con la polizia, ora. Per rendere più interessante la storia. Tre cadaveri davanti al suo appartamento, in pochi giorni.»
Le lascio carta bianca. Ma è una puttanata: perché la polizia dovrebbe sospettare di Longhena? Non più di tutti gli altri condomini o abitanti della strada, che sono tanti, sono palazzoni popolari, c’erano perfino gli scarafaggi a divorare la carne della mia ultima vittima, l’altra sera.
«O forse no. Forse lo spettatore vorrebbe seguire l’indagine, vorrebbe vedere il duello intellettuale tra lo svogliato investigatore sconfitto dal suo passato e lo psicopatico accademico dal luminoso presente. E vedere cosa il futuro riserverà a questi due personaggi.»
Brava. Meglio. Psicopatico? Così rischi il tuo di futuro, Cinzia.
«Non dimenticare Daniele, il fulcro della storia è Daniele, il suo salvataggio, il salvataggio dell’Uomo. Il Pozzo è al suo più totale servizio, uno scagnozzo privo di pensiero intellettuale, un essere obbediente, che lavora per il bene della società.»
La vedo che ci pensa, e quando lo fa le vengono le rughe: ancora due anni, massimo tre, ed è da buttare come gran parte delle professoresse che abitano questo corridoio giallastro quanto i denti di un caffeinomane. Che tristezza. Tristesse, étude op. 10, no. 3: Frédéric Chopin, certo. Ne esiste una versione di Serge Gainsbourg, Lemon Incest, parla dell’amore per sua figlia, l’amour que nous ne ferons jamais ensemble est le plus beau le plus violent le plus pur le plus enivrant…, ah fortuna che io non ho figlie. Eppure Cinzia, Cinzia è come fosse figlia mia.
La sua voce interrompe i miei pensieri, come sempre.
«Longhena l’avevamo lasciato nella macchina della polizia. Il magistrato arriva, gli fa qualche domanda, lo lascia andare. Direi che poi della sua giornata ce ne freghiamo, l’abbiamo già caratterizzato, la passerà senz’altro a inseguire qualche donnetta poco fedele o a parlare con qualche squallido cliente.»
«Sono d’accordo», dico, ma non la sto neanche a sentire, sto pensando a Charlotte Gainsbourg, la figlia di Serge, che ora è cresciuta e fa cose come Nymphomaniac, il film di Lars von Trier: mi stuzzica, Cinzia dovrebbe guardarlo, dovremmo guardarlo insieme, stasera magari. Ma lei continua a parlare. E allora penso ad Antichrist, stesso regista, stessa attrice, dove nella scena finale si taglia la figa. Mi immagino Cinzia che un giorno esce di testa, ah se facesse per me la stessa cosa, sarebbe divertente. Ma come ci sono arrivato qui? Ah sì, la tristezza. Che sentimento inutile.
«Quindi, secondo me, dovremmo subito inserire una scena dove Longhena si sveglia di nuovo, fa la colazione indossando la canottiera unta, e poi scende e trova nel cassonetto il corpo del ragazzino con gli occhiali e il panino con la mortadella.»
La interrompo perché sta dicendo cose inesatte.
«Il panino no, se lo è mangiato il Pozzo. Lasciarlo agli scarafaggi sarebbe stato un peccato.»
«Sì, certo, era solo per identificare il ragazzo. Sarebbe anche interessante mostrare un paio di secondi il Pozzo che si mangia il sandwich, così, per stemperare la tensione, come scena di passaggio tra l’omicidio e il risveglio di Gastone Longhena.»
«È quel che avevo in mente.»
In realtà in mente ora ho un’altra canzone di Gainsbourg, Je t’aime… moi non plus, e i sospiri di Jane Birkin. Un pezzo così appropriato nella sua ipocrisia: Cinzia non? mi ama, e io nemmeno. Nessuno ama davvero nessuno, non in questa società. Fortunato chi ci riesce. Apro Spotify e la faccio partire, spero che ne capisca il senso, ma non ne sono sicuro. Tutto quello che fa è diventare rossa. È ancora una ragazzina.
«Gastone trova il terzo morto. Allarga le braccia. Gli tocca chiamare la polizia, non può ignorarlo, questi arrivano, si ripete la scena, con più enfasi, è la seconda volta in pochi giorni, ma il magistrato capisce che qua in giro c’è un sacco di gente e Gastone è sospettato né più né meno di tutti gli altri abitanti della zona.»
«E oltre.»
«Giusto. Non è nemmeno detto che l’assassino abiti lì. Del resto noi lo sappiamo, l’assassino è Enrico Proci.»
«Proprio lui.»
«Ora la domanda è: cosa farebbe Gastone Longhena?»
26
Sbatti le ciglia. Rimani immobile per qualche minuto, nell’ampio letto, che è vuoto come i tuoi pensieri mattutini. La casa nuova non ti piace, non hai voglia di affrontarla, non c’è l’estro per entrare nel piccolo cucinino e preparare la colazione. E poi, quel burlone del destino ti ha fatto scegliere un appartamento in una strada dal nome emblematico, la Via Donatori di Sangue: a te, che di sangue in passato ne hai dovuto donare, e molto. Il tuo e quello di chi dovevi trovare, proteggere. Senza contare quello della persona di cui eri da poco innamorato. Tanto, il sangue nel tuo passato. E ora, nel tuo presente.
Non ti alzi perché quello che hai da fare non ti interessa. Lo devi fare per poter mangiare, vivere, ma a te vivere non interessa poi così tanto. Neanche la vita degli altri: quella ancora meno. Hai appreso con distacco del ritrovamento dei corpi di due donne, l’altro giorno, proprio davanti all’immobile. Ora la vicina, che li ha trovati, è in ospedale, in stato di choc, e a te importa meno di nulla. Te ne staresti lì, in pace, ad attendere la morte, come tante altre persone nel mondo. Purtroppo le regole della biologia ti impongono di scendere dal letto e cercare del cibo.
Il telefono suona. Lo fa di rado. Ti affretti a rispondere, per quanto il ginocchio ti faccia sempre tanto male e il primo veloce passo sul marmo del pavimento sia doloroso: chi è annoiato e apatico di solito è anche curioso, tu lo sei, e la curiosità è la qualità più importante nella tua professione.
Longhena, rispondi così, nella maniera più formale che ci sia, il solo cognome, come se dare anche la più piccola confidenza al tuo interlocutore, chiunque esso sia, fosse inappropriato. Tu con il mondo non vuoi alcun legame. Non più.
È una ragazza, lo capisci dalla voce, quelle vocine tipiche da giovane donna italiana, di provincia, con sprazzi di gioia, di entusiasmo, di profonda inesperienza.
Ti vuole intervistare. Non ne capisci il motivo, lo fai presente alla donna, ma lei insiste. Può venire da te, farti visita. Sono anni che nessuno suona alla tua porta, la casa è in disordine, non passi l’aspirapolvere da più di un mese. Sono problemi suoi, non sistemerai per lei, questo è certo. Non ti tira nemmeno più il pene da molti mesi, tristezza, non hai quindi alcun incentivo per lustrare la casa se una ragazza arriva in casa tua. Si abituerà al casino, al cattivo odore, se davvero vuole parlare con te.
Le dai appuntamento, un’ora è più che sufficiente, anche per morire. Anzi, magari ti trovasse morto! Non dovresti nemmeno puzzare per giorni, qualcuno verrebbe a portarti via subito, non disturberesti i vicini.
Le dai l’indirizzo. Smette di parlare. Dopo qualche secondo ti domanda se è uno scherzo. Non lo è, il comune si diverte a mettere questi nomi sinistri alle strade, la via si chiama così e si chiamerà così fino a quando qualche politico deciderà di dover pagare pegno verso qualche illuminata personalità del suo schieramento, e farà il cambio. Certo, nonostante le sicure proteste delle associazioni che raggruppano chi il sangue lo dona per davvero.
Le spieghi tutto questo durante un silenzio molto profondo, che permane anche dopo che smetti di parlare. La tipa mette giù, fa solo in tempo a dirti che sì, vi vedrete tra un’ora. La gente è strana.
Metti giù anche tu. Guardi la barra delle trazioni, è molto tempo che non ci provi. Ci provi. Non ci riesci. Pesi troppo, o forse non hai più nemmeno un muscolo, questo succede a stare sempre e solo a letto.
Che poi non è neanche vero, lavoricchi comunque, da casa, seduto al tavolo di legno. Per le operazioni, se davvero così le vuoi chiamare, hai Luca, il tuo faccendiere. Quello che si arrampica, che fa le foto, che corre di qua e di là, alla bisogna: la tua bisogna. Lo paghi poco, ma gli insegni il mestiere. Non hai avuto eredi, e a tutti ne serve uno. Lo chiami, è presto ma tanto sei già sveglio e non riusciresti a prendere sonno di nuovo. Non ha novità su Daniele. Introvabile. Manco una traccia. Rimpiangi di non aver tenuto la foto, hai dovuto descriverglielo per come te lo ricordavi. Tanto non avrebbe cambiato niente. Caso chiuso: sarà scappato con una troietta. Con la madre te la vedrai tu: fabbricherai qualcosa, le dirai che è colpa sua e delle sue troppe attenzioni. Gastone, puoi fare di meglio.
Ma certo! Ti ricordi che tra i tuoi collaboratori c’è Marta: Marta è come te. Non ha nulla da perdere, e ti deve un grosso favore. E allora accetta di farlo. Pare che si diverta, a farlo. La trappola, la chiamate tu e lei. È quando il tuo cliente è donna, e vuole sapere se il marito la tradisce. Le foto di Luca costano, alla cliente. E però bisogna avere delle foto interessanti da mostrarle. Non sempre se ne hanno.
E allora interviene Marta, lei è irresistibile. Ci pensa lei a sedurre il marito della cliente, a creare l’opportunità per fatturare le prove. E così vivicchi tu, vivicchia Luca, vivicchia anche Marta, nonostante lei vivicchi meglio di tutti perché continua a suonare il violino nell’orchestra e il suo buon stipendio lo porti a casa lo stesso. Lo fa per passione e per dovere nei tuoi confronti, Gastone.
La chiami. Impersonerà lei la troietta di Daniele. Accetta. Dice sempre di sì. La ami. Richiami Luca. Che trovi uno sfigato che accetti di fottersi Marta per poche lire e di apparire in foto, in chiaroscuro, non lo si riconoscerà, che non si preoccupi.
Ecco fatto. Se la madre di Daniele vorrà delle prove, ci saranno. E tanto si fiderà, chiederà di non vederle, di non soffrire ancora. Poi, complice il tuo fisico decadente, Gastone, è chiaro che hai perso la traccia. Daniele è giovane, è più veloce, è furbo, è laureato. Perso. Con la sua nuova femmina. Per sempre. Cuore in pace.
Mangi l’ovetto. Mezzo crudo, come piace a te. Con tanto sale, ti piace vedere i frammenti del minerale che vengono inglobati all’interno del tuorlo liquido. Sono le nove del mattino, l’ora del Rioja. Un vinello spagnolo, tanti gradi quanto basta, giusto per accendere il motore all’interno dello stomaco. Poi, caffè.
27
Pranzare con il direttore del dipartimento è quello che mi riesce meglio. È lui che paga – è più anziano, ne ha il diritto –, la conversazione è facile per ragioni intellettuali ma anche e soprattutto per ragioni sessuali, non ho infatti alcuno stimolo a distrarmi e a farmi dire cazzate come faccio quando mangio insieme a Cinzia. Tra tutti gli uomini, il professor Mauro è quello che mi scoperei con meno gusto.
E come se non bastasse, come tutti i grandi manager sa in quale ristorante andare. La bistecca è al sangue, e a me il sangue piace.
«Questa cosa dei giocattoli, Enrico, parlamene, perché non ci ho capito un granché.»
Da qualche giorno ci chiamiamo per nome, la nostra collaborazione è ai più stretti livelli, io gli creo un network di professionisti tutti intorno alla sua persona: politici, giornalisti, creativi; lo lancio, creo il personaggio Egidio Mauro: era già noto ma ora è anche apprezzato da tutto il mondo che conta, anche dalla sottosegretaria, una che di solito apprezza una cosa sola, e quella Mauro non può dargliela. Mauro: il futuro rettore. E lui, in cambio, non mi rompe i coglioni.
Questa storia dei giocattoli devo però spiegargliela meglio, sì, ha ragione, una cosa inutile, una creazione di Cinzia, robe da bambini. Devo difendere l’idea.
«I giovani hanno bisogno di feticci. Vedi, Egidio, il ragazzo guarda la televisione, vede questo personaggio, così severo, così geniale, questo Richard, gentiluomo di un secolo che non c’è più. E ha bisogno di conferme, di tenerlo in mano, in pugno, e allora scatta l’action figure. Magari da tenere chiusa nella scatola, anch’essa da disegnare con cura, ché senza scatola poi non vale nulla tra dieci anni. È la base del marketing, creare il bisogno, noi con questa serie creiamo il bisogno di avere nella propria stanza l’effige di Wagner, della moglie Cosima, dei figlioletti. Un successo. Ed è un bisogno sano, un bisogno educativo: ne converrai.»
Che buona questa carne. Stasera a Cinzia do un morso sulla coscia, la faccio sanguinare, voglio sentirne il sapore. E dubito che batterà questo filettone.
«Sì, Enrico, è vero che commerciare questi pupazzi potrebbe fare il bene di una generazione. L’Olandese Volante me l’hai già mostrato, hai altri disegni? Vorrei vedere quello di Wagner stesso, prima di dare l’ok definitivo al progetto.»
«Dammi qualche giorno. Come ti dicevo, la serie su Wagner sarà inserita all’interno di un’altra serie, dove vediamo una persona, senza grandi qualità, senza una grande istruzione, che la guarda.»
Il direttore vuota il bicchiere, una lunga sorsata di un rosso leggendario, davvero squisito: il vecchio ha la sua sfera di competenza, glielo concedo.
«Dimmi di più, raccontami qualche pagina della sceneggiatura. Il progetto è innovativo, Enrico. Lo sapevo di essermi rivolto alla persona giusta.»
Ordino il caffè, si sta pure facendo tardi.
«C’è Daniele, il ragazzo che ti dicevo, prototipo del pubblico da educare. È lì che guarda un episodio, nel divano, abbracciato alla sua donna, la bellissima Roxana.»
«Una straniera?»
«L’Italia è multiculturale. Il nostro è un progetto assolutamente inclusivo, che lavora in direzione dell’integrazione.»
«Me ne parlava anche il ministro di una cosa del genere, sarà davvero contento di vedere le sue idee implementate.»
Sono un democratico, accetto le idee di tutti, perfino quelle di una dottoranda. Figuriamoci quelle di un membro del governo, che addirittura anticipo, tanto sono illuminato.
«Dunque, questo Daniele cosa fa? Sono così curioso…»
Cosa fa? Daniele prende il telecomando e lo scaglia verso lo schermo, che va in frantumi e mi costerà quattro o cinque foglietti viola per sostituirlo, cose che finiranno tutte nel budget dell’amministrazione, non c’è nemmeno il bisogno di dirlo. È annoiato, Daniele. Prende la gamba di Roxana e la addenta, stacca un pezzettino di polpaccio. La clausura, mi spiegherà poi, ma io dico anche le pasticche che gli procuro. Roxana perde sangue, imbratta l’altro lato dei tappeti, quello ancora buono. È uno schifo. Mi suona il telefono, rispondo, devo andare giù, c’è questo casino, la ragazza urla, sembra non aver gradito, forse la serie è troppo noiosa, Cinzia pagherà per questo.
Arrivo vestito da Pozzo, tutto nero, tutto muscoloso, la ragazza smette un attimo di gridare per ammirarmi. Bisogna amputare: amputo. Daniele mi fa notare che ho preso la gamba sbagliata, e che forse ho reciso anche un’arteria, allora, per usare un cliché, una frase fatta, che mai inserirei nella sceneggiatura della serie, taglio la testa al toro, e anche alla ragazza.
Daniele piagnucola ma in fondo è contento, diciamocelo: era una rompicoglioni. Penserò a come sostituirla, Cinzia avrà un’idea, la pago per questo.
Rispondo alla domanda del direttore.
«Egidio, Daniele fa quello che farebbe ogni italiano mentre guarda la tv insieme alla sua donna. La spegne, la tv, e la accende, la sua donna…»
«Per carità, Enrico, niente porno, nemmeno soft, poi la chiesa…»
Lo interrompo.
«Niente porno. È un gioco di vedo e non vedo, per stimolare l’interesse dei giovani. Dopo la cultura, viene l’amore. È tutto simbolico.»
«Bravo, Enrico, bravo. Il conto, per favore!», scribacchia in aria guardando negli occhi il cameriere. Secco che stasera se lo porta a letto.
Puntata #14
28
C’è casino giù in cortile, lo senti, il rumore arriva lo stesso dalla finestra, quella su cui hai fatto installare i vetri doppi. A poco servono. Quante urla.
Un altro cadavere? Nello stesso cassonetto? Un ragazzino, avrà vent’anni, ventidue. La gola squarciata, piena di insetti, larve, non si può guardare. Tu non lo puoi guardare. Non ce la fai più, da tempo.
Ti tocchi la spalla, fa male. L’anca fa male. Il cuore, fa male.
C’è la polizia e c’è pure l’ambulanza, tu dubiti che il personale medico possa fare qualcosa per questo giovane. Scendi in strada, cerchi di non guardare, poi invece vedi. Vedi soprattutto la tizia, è svenuta, dev’essere una più impressionabile di te. L’ambulanza quindi è qui per lei. Le deduzioni ancora riesci a farle, detective.
L’altra tizia, quella della telefonata, è in ritardo di quindici minuti. Chissenefrega, era un favore che facevi a lei. Altri dieci minuti e te ne vai al bar, richiamerà.
Vai al bar.
Il bianco delle dieci e mezza, cardine della giornata. Ti schiarisce i pensieri. C’è quell’altro affare da sbrigare, no, non Daniele, quello può aspettare ancora qualche giorno. Una roba della settimana scorsa, roba di corna. Roba fabbricata, come sempre. Ora devi mostrare alla moglie di un coglione quella foto, quella che hai fatto ingrandire per vedere se per caso tornava a rizzarti – e niente, non ha funzionato – quella con il culo imperiale di Marta e le mani del tale sulle sue chiappe, con la fede all’anulare, il volto a fuoco: nessun dubbio su quel che è accaduto. Povera Marta, ti fa ancora più peccato della tua cliente.
Bevine un altro, Gastone: sprigiona l’intelligenza emozionale. L’empatia per il prossimo. Tutte palle, ma in qualcosa devi pur credere, per vivere. Ma tu non credi a niente. E bevi, bevi comunque.
La giornata è quella che è. La signora non la prende bene, lo sapevi, lo immaginavi, poche le sorprese, qualche pianto un po’ più lungo del previsto, tanta rabbia. Pagamento puntuale, in contanti. Luca passa a prendere la sua parte, faccia da lupo, la fame dipinta nel volto; quella di Marta la verserai non appena la vedrai, con calma, non ne ha certo bisogno come voi due sfigati. È una signora di classe, lo è sempre stata.
Passi al supermercato, compri le uova; le banconote che hai in tasca ti permettono l’acquisto di una bottiglia di barolo, che ti piace tanto. La serata la passi con lui, un lungo scambio di effusioni. Stanotte dormi per terra.
Al mattino ti fai sorprendere dal campanello. Puzzi. Puzzi di tutto. Rispondi. È la tipa: la tipa dell’intervista. È in ritardo di molte ore.
Entra in casa, cazzo che figa, sembra Mary Patti, quella di Non è la Rai, te la ricordi bene.
Tu invece non sei presentabile. Poco ti importa: è lei che cerca te.
Ti rendi conto che si tratta della stessa ragazza che è stata portata via in ambulanza il giorno prima, ne hai qualche ricordo nella tua memoria frammentata di alcolista principiante.
Dice cose che non hanno senso, parla di Via Alighieri, che sta a dieci chilometri da qui, parla dei cadaveri, del suo professore. Parla di una serie televisiva giocattolosa, che cazzo mai vorrà dire, tira fuori anche Reagan, l’attore, il presidente. Richard Wagner: quello della colonna sonora di Apocalypse Now. Tira fuori anche Edgar Allan Poe.
All’ospedale non si sono presi bene cura di lei, ti è subito evidente.
Ti chiede come mai non vesti di bianco. Manca poco, ti chiederà anche perché puzzi, e tu la butterai fuori di casa. Non sei mai stato bravo a gestire i malati di mente. Non inizierai oggi.
Non sei cattivo, Gastone, ma nemmeno un sant’uomo, senti di doverla mandare via a malo modo, senti di non poterti assumere questa responsabilità, non è una faccenda profumata e te ne rendi conto, ma tu non te la senti di lasciarti coinvolgere: lei è pazza e tu sei depresso. La fai accomodare in corridoio, le indichi l’ascensore – anche se non funziona – e quando menziona per la sesta volta i tre cadaveri della Via Alighieri le dai il biglietto da visita del dottor Luciano Barabba, il Vice Questore, che si rivolga a lui che è bravo ad arrestare gli assassini seriali.
Se ne è andata. Non la senti più: ora è in strada, i vetri doppi funzionano quando a urlare è una persona sola.
I cadaveri della Via Alighieri. Sfogli il giornale: la cronaca non ne parla. Gli unici tre cadaveri di cui si parla, e ormai anche più o meno dappertutto, sono quelli del bidone dell’immondizia qui sotto, e ci mancherebbe altro.
Respiri, ti piazzi in poltrona, una delle molle dev’essere rotta. Cambi posizione, ora sei comodo. Respiri di nuovo. Sei curioso, ora. L’hai mandata via. E se le succedesse qualcosa? E se sapesse qualcosa? Poco ti interessa. Nessuno ti ha chiesto di indagare, nessuno ti ha ingaggiato, tu non sei la Polizia di Stato, per muoverti qualcuno ti deve pagare, e la ragazzina non può permetterti, è giovane, cosa vuoi che guadagni.
Rifletti. Non vorresti pensarci, che poi a pensarci ci arrivi anche tu, da solo: l’hai mandata via perché qualsiasi cosa volesse, tu non sei in grado di dargliela, sei un ubriacone, un fallito, un imbroglione. Un impotente. Non sei qualcuno in grado di risolvere un triplo omicidio. Pensa, non hai neanche chiesto il nome alla ragazza. Che dilettante, robe da farsi radiare dalla professione.
Esci in strada, di lei non c’è più traccia. Ma chi mai avrà messo tre corpi in putrefazione nel tuo cassonetto, e perché?
La testa ti gira ancora, il retrogusto del barolo è un ricordo molto prossimo. Cammini, ne hai bisogno. A lungo. È una bella rinfrescata, terapeutica. Non lo sai neanche tu se è il caso o la tua coscienza, ma entri proprio in Via Alighieri. Una tranquilla strada residenziale. Casette basse, bella gente. Nemmeno un cassonetto. Se tre cadaveri sono stati lasciati qui, devono averli nascosti bene.
29
Interno giorno.
L’uomo vestito di bianco le apre la porta come un gentiluomo di un’altra epoca. Nell’appartamento di Via Alighieri 40 entra lei, la donna elegante.
Prendono posto sulle due poltrone del salotto. Il caffè è già pronto: di sicuro l’uomo la aspettava.
GASTONE: «La sua telefonata mi ha molto preoccupato, la richiesta di un appuntamento urgente, il tono così angosciato…»
LA DONNA ELEGANTE: «È una faccenda di grande gravità, non lo nego, dottor Longhena.»
GASTONE: «Mi dica tutto. Suo marito la tradisce?»
LA DONNA ELEGANTE: «No, dottor Longhena. Sono qui per quanto riguarda i cadaveri che proprio lei ha rinvenuto nel cassonetto qui di fronte.»
L’uomo vestito di bianco aggrotta le sopracciglia. Attende qualche secondo, forse per pesare bene le sue parole.
GASTONE: «Lei è bene informata, signorina. Nessuno sa che a chiamare la polizia sono stato io.»
LA DONNA ELEGANTE: «E invece…»
GASTONE: «E invece lei lo sa. Bene. Non le chiedo come fa a saperlo. Le chiedo però di dirmi il resto di quello che sa sull’affare.»
LA DONNA ELEGANTE: «Le due donne erano meretrici. Di alto bordo. Il ragazzo uno stagista presso un’importante azienda di Villacarla.»
GASTONE: «Sì, il ragazzo è stato subito identificato. Per le donne è più difficile, so che gli inquirenti indagano nel mondo della prostituzione. Se sa i loro nomi dovrebbe andare a parlare con loro.»
LA DONNA ELEGANTE: «I loro nomi non li so. Però, so quello dell’assassino. O meglio, il suo alias. Il Pozzo.»
L’uomo vestito di bianco si alza, va verso la donna. Si accuccia, per meglio fissarla, occhi negli occhi.
GASTONE: «Non si faccia pregare, e continui. Chi è questo Pozzo? E lei come le sa tutte queste cose?»
LA DONNA ELEGANTE: «Questo non posso ancora dirglielo. Indaghi, Longhena, indaghi. Lo fermi. Quell’uomo è pazzo.»
La donna elegante si alza e corre verso la porta. L’uomo vestito di bianco la lascia fare, imperterrito.
Exit la donna elegante.
30
È una Cinzia diversa dal solito quella che passeggia mano nella mano con me, ai giardinetti, un non-luogo, manco io fossi un pensionato vedovo o una babysitter con tre pupi al seguito.
Una Cinzia sicura di sé, pessimo segno, accade solo quando un dottorando sta per scrivere da solo le conclusioni del paper, e cioè qualcosa di completamente sbagliato e inopportuno.
Mi fa leggere le ultime pagine della sceneggiatura. L’analisi si conferma. Una scena sbagliata, un personaggio che non ha legami con la storia, non può averne: un evento casuale, che rovina tutto l’intreccio.
«Questa donna elegante non esiste, Cinzia. Da dove viene fuori? Il detective deve scoprire l’assassino da solo.»
Cinzia continua a camminare senza rispondere. Ribadisco il concetto.
«Hercule Poirot si arrabbierebbe tantissimo con te. Anche Sherlock Holmes. Loro non vorrebbero sapere la soluzione del mistero da un altro: ne andrebbe della loro reputazione. Anche Gastone Longhena deve, e sono sicuro che vuole, arrangiarsi senza nessun aiutino. Questo poi è un vero e proprio imbroglio.»
Cinzia decide di parlarmi.
«Questa donna esiste. È l’amante di Enrico Proci. Per un motivo o per l’altro vorrà forse vendicarsi di lui. Oppure ha scoperto che è un pazzo. E un pazzo criminale va denunciato. La donna sa che Proci è il Pozzo, che il Pozzo ha ucciso tre persone e ne tiene altre due sequestrate. La donna ancora non è convinta di voler tradire il suo amante. E al detective non ha fatto nomi. Però la curiosità gliel’ha instillata.»
Ha ragione. Il personaggio può esistere. Va approfondito, però, altrimenti così perdiamo audience.
«Va bene. Come la chiamiamo l’amante?»
«Quante amanti ha Enrico Proci?»
Mi guarda. Che intensa.
Amanti? Occasionali, non lo so neanche io. Stabili, due o tre: lei, la sottosegretaria, la Sara ogni tanto. Nei miei piani c’è Serena ma dovrei convincerla, fare magari pressione con Mauro, fosse anche dare il culo allo stesso Mauro per ottenere quello della sua segretaria, ci devo pensare. Vediamo se prima diventa rettore grazie a me così – forse – non devo nemmeno fare il sacrificio più grande, immolarmi a lui.
Annuisco: «Solo tu, Cinzia. Solo tu.»
«Bene. Dunque la donna elegante è Cinzia Olivato.»
«Un’infame. Vuoi passare alla storia come un’infame, un Giuda Iscariota?»
«Un giusto prezzo per una fama del genere, no?»
Se non fossi io il suo maestro, mi preoccuperei delle frequentazioni di questa ragazza con la risposta sempre pronta. Sto creando un mostro, sono un Victor Frankenstein: un Prometeo moderno, anzi, nel mio caso, contemporaneo, post-contemporaneo, quello che volete. Accetto la sfida.
«Che indaghi, la donna elegante. Insieme a Gastone Longhena. Il Pozzo vi sbatte il guanto in faccia a entrambi. Ma stai attenta perché Gastone è un seduttore: poi coso, il tuo ragazzetto, là, ci fa una scenata a tutti.»
«Ma è solo finzione! E il Pozzo come sta? Che combina? Sei andato avanti con la sceneggiatura?»
Tiro un calcio a un ciottolo. Colpisco la fiancata di una macchina. Continuo a camminare.
«Niente di che. È piuttosto Daniele, che sta diventando problematico. Ha azzannato Roxana, ha iniziato a lamentarsi, quindi hanno dovuto eliminarla. Lui e il Pozzo. Una bella scena, una di quelle che il pubblico poi si ricorda, si potrebbe anche utilizzare per il poster, sarebbe la cosa più giusta, anche se per far contento il ministero credo che finiremo per mettere Wagner, Rossini e Puccini abbracciati, intorno a un tavolo, a bere aranciata.»
Cinzia si siede in una panchina, lo faccio anche io, limoniamo come dei bimbi. Un’immagine dolcissima.
«E il cadavere?»
«In pattumiera. Per un paio di giorni Daniele se l’è tenuto nella stanza, il Pozzo non ha voluto sapere che porcate ci ha sicuramente fatto quel pervertito di impiegato, che schifo, le mancava pure una gamba perché prima il Pozzo ha provato a risolvere il problema amputandola. Non l’ha risolto, il problema. Ah, sì, e poi le mancava anche la testa. La testa Daniele ha provato a tenersela, sai, come nel libro di Dumas, La regina Margot, le due pazze che vogliono tenersi per sempre il volto degli amanti morti. Mi ha perturbato a vita, quel finale, giusto che ne faccia un tributo in questa mia sceneggiatura. Ma alla fine l’ha gettata, sembrava il Joker, con tutto il trucco sfatto.»
«In quale pattumiera?»
«Che domande. La strada l’hai creata tu. Il nostro è un lavoro di squadra, costruisco la trama sulle basi gettate da te, e viceversa.»
Cinzia annuisce.
«Quale sarà la prossima mossa di Longhena?», le chiedo.
«Ci sto pensando. Credo che la donna elegante dovrebbe tornare da lui. Sarà più facile smuoverlo, con il quarto cadavere in pochi giorni a pochi passi da casa.»
«Che lo porti pure dal Pozzo, Daniele sarà contento di avere ospiti a cena.»
E stasera pure io sono ospite a cena, della sottosegretaria, purtroppo non avrò tempo di passare per casa, fare una doccia, pulirmi, dovrà accettarmi con l’odore di maschio, con gli ormoni impazziti, andati a male, la rabbia addosso che mi porto dietro visto che sto entrando in aula: ho il corso da tenere, gli studenti incidono sul budget, vanno trattati bene, non posso fare troppe assenze e ho già saltato le ultime quattro lezioni senza preavviso.
Sbatto la porta. Mi siedo. Interrogo.
«Sapete cosa dovrebbe fare ora David Bowie?»
Silenzio.
Ripeto la domanda.
Un tizio chiede di parlare, ne ha facoltà.
«David Bowie è morto, professore.»
Purtroppo sì. Comunque è evidente che io lo sappia, il fatto che questo elemento non sia evidente al ragazzo è un’offesa alla mia persona e alla mia autorità. Lo invito con educazione a uscire dall’aula, gli farò rapporto domattina, testimonierò davanti ai probiviri di averlo visto sodomizzare un compagno di classe nell’aula vuota prima che arrivassi, con vari utensili, cose che neanche saprei
elencare: io per cambiare una lampadina devo chiamare l’elettricista; e allora che lo mandino via questo ragazzo, per sempre, con demerito: l’università non ha bisogno del suo denaro. Pervertito schifoso.
Riprendo a parlare, dopotutto non mi aspettavo nessuna risposta intelligente.
«Dovrebbe ritornare, si è congedato con la canzone Lazarus, è chiaro a tutti che ha pianificato di resuscitare, un giorno. Io penso che ora sia un buon momento, non ci si può far desiderare così tanto. Io non lo faccio mai. Torna, David.»
Nessuno vuole più intervenire, fanno bene, non riuscirei a farli espellere tutti con facilità.
«Vedete, è una cosa che nessuno ha mai fatto. Prendete nota, nel caso diventiate un giorno famosi. Fate finta di morire, lasciate passare due o tre anni, andate in vacanza e poi tornate, con un disco all’improvviso, un concerto sopra un tetto, uno spettacolo teatrale, quello che volete. Al vostro ritorno, i media parleranno di voi per settimane.»
Finalmente l’applauso, è bello lavorare con studenti di talento.
«Questo è lo show business, non si sa mai cosa è vero e cosa no.»
Puntata #15
G
Due personaggi di quart’ordine vanno comunque scritturati. Siamo a quaranta gradi, oggi. Li accolgo a petto nudo, il pantalone aperto, grondante di sudore. Faccio schifo, con la pancia che mi ritrovo, i peli dappertutto, anche sulla schiena. Ma non ho scelta, se non pagare l’installazione di un impianto per l’aria condizionata.
Il brizzolato sarebbe anche un bell’uomo, ma è davvero qualcuno di poco raccomandabile. Vent’anni dentro, uscito l’altro ieri, segnalatomi per il bisogno disperato di guadagnare qualche soldino in modo onesto. Tutti qui vengono.
L’altro è ininfluente, nella vita come nella finzione narrativa che gli prospetto: il ruolo più piccolo di tutti, una roba scritta a caso, un personaggio inutile. Ma è il figlio di mia cugina, ha insistito così tanto perché gli scrivessi una parte adatta, a allora io l’ho scritta. Gli piace tanto fotografare. Che continui pure anche qui con me. Gratis, sia ben chiaro. È minorenne, non avrà neanche quindici anni, gli offro un bicchiere di Four Roses, via le ipocrisie se vuoi entrare nello show business, ragazzo. Pare contento.
31
Le bevute insieme a Luca non valgono le bevute insieme a Marta, e a sua volta non valgono quelle che ti fai da solo. Se tu potessi lo getteresti dalla finestra insieme a tutta la sua attrezzatura fotografica, ma non puoi, non tanto per non avere rogne legali ma perché Luca ti serve, Luca si muove in giro per conto tuo, Luca costa poco. Lo sai bene. È venuto a riferire su Daniele. Tutto a posto. Belle foto. Il tipo sembra proprio Daniele, la madre sarà contenta del lavoro. Non del risultato: ma d’altronde non le hai mai promesso il contrario.
Le tre bottiglie sono finite, il tuo collaboratore non se ne va, forse ha deciso di svernare qui da te nonostante sia già primavera, o forse l’alcool gli impedisce di camminare. C’è di nuovo rumore, giù in strada.
Ti affacci alla finestra.
La scientifica. Vedi un sacchetto di plastica ai piedi di uno degli agenti. Sembra una testa. Ti vesti, metti la giacca bianca, sono mesi che non la indossi, sono mesi che non ti dai un tono. Tanto, a quel che serve.
Fai cenno a Luca, scendete nel vicolo. Lui fa foto, viene subito fermato. Barcolla, lo allontanano, ci provano anche con te, ti mettono le mani addosso ma per fortuna sei grosso, nessuno riesce a smuoverti.
Luciano Barabba è qui, ti vede, sembra sorpreso, dice agli altri di lasciarti passare, fai parte della famiglia: dei buoni. Per ora.
La faccia da scemo ce l’ha sempre, è come te lo ricordi: alto, brizzolato, le movenze da piacione. Ti chiede come stai, la gamba, la spalla. Lo spirito. Male, stai. Non gli rispondi nemmeno, è un poliziotto di esperienza, capisce da solo. Capisce anche che il tuo alito puzza, che la tua pancia esplode, che la barba te la fai solo il mercoledì, e spesso uno su tre.
Se intuisce anche che il cazzo non ti tira più, lo ignori. È un bravo investigatore, ma non così bravo. E non pensi che, in fondo, questo dettaglio gli interessi molto.
Questa è proprio una brutta storia, non ti serve nemmeno il suo resoconto. I morti ora sono quattro, passi per le tre troie, ma un ragazzo, quasi un bambino, tutta la vita davanti, perfino una carriera davanti.
Tu non sai niente, non hai visto niente. A parte la pazza dell’altro giorno, ma tientelo per te, che casini non ne vuoi. Barabba invece qualcosa sa, ed è chiacchierone, lo è sempre stato, e allora condivide con te: bene, c’è ancora qualcuno che ti stima. Inizia a contarli, questi qualcuno: ti basteranno le dita che hai in una mano.
Barabba non è coglione, la telecamera nel vicolo l’ha messa, dopo il ritrovamento del cadavere del giovane stagista. Un piantone no, quello costa troppo per una probabilità così piccola.
E quindi ha visto l’assassino portare il corpo della terza donna, e dopo qualche ora anche la testa. Immagini registrate, niente diretta: ora sta dando istruzioni per collegare direttamente lo strumento con la centrale. Non credi che sarà così fortunato, la stampa non si perderà una notizia così profumata: un giustiziere vestito di nero che va in giro per Villacarla a squartare bambini e puttane. Infatti il telegiornale delle venti ne parla, prima notizia nazionale. Addirittura si vedono le immagini, ritoccate per non sembrare troppo truculente. Luciano Barabba parla troppo. E quindi, un coglione, lo è.
Luca è ancora lì da te, tu hai sonno, gli dici che se vuole può dormire in salotto, non se lo fa ripetere, è ancora ubriaco. Ti addormenti pensando alla ragazza, la pazza: qualcosa sapeva, parlava di una serie televisiva. E ora in giro c’è un giustiziere, un personaggio da cinema. Che sia tutto un grande show per voi spettatori, pianificato da un’entità superiore?
32
Interno notte.
L’uomo vestito di bianco riceve la donna elegante per la seconda volta. Al bar, il bar dei cornuti, quello degli spritz e del proprietario chiacchierone. L’uomo vestito di bianco si fa portare al tavolo un secchiello con dentro una magnum di champagne. Mesce il vino alla signora, asciugando poi la base della bottiglia con un fazzoletto bianco come il suo abito.
GASTONE: «Al nostro incontro.»
CINZIA: «A noi.»
L’uomo vestito di bianco beve tutto d’un fiato, e subito si riserve, la donna elegante prende il suo tempo, assapora quell’ambrosia senza avidità alcuna.
CINZIA: «Vorrei portarti nel covo del Pozzo.»
GASTONE: «Ma davvero esiste?»
CINZIA: «Esiste, sì. Io conosco anche la sua identità segreta, ma non posso dirtela, quell’uomo mi tiene in pugno, ha ascendente su di me. Va fermato, ma io non posso rischiare di apparire.»
L’uomo vestito di bianco le accarezza piano la gota.
GASTONE: «Non ti preoccupare. Ci andremo, nel covo, ci andremo. Ma prima, cosa ne pensi di continuare questa bella serata a casa mia, potremmo rilassarci qualche ora, aspettare la notte, e solo allora colpire il nostro nemico.»
CINZIA: «Potremmo guardare quella nuova serie televisiva sulla vita di Richard Wagner.»
GASTONE: «Oppure potremmo guardarci a lungo negli occhi, nudi, sul letto, in un muto scambio di tenerezze e di passione.»
CINZIA: «Oh, Gastone…»
L’uomo vestito di bianco la prende per mano, fa un cenno al barman, pagherà la volta dopo, ed esce insieme alla donna elegante.
Exeunt Gastone e Cinzia.
33
«Lo sai o non lo sai che sono un dio geloso, Cinzia?»
«Lo so.»
La ragazza è sfacciata, viene da me, scopa come nel più volgare dei porno e poi mi fa leggere queste pagine.
«Tu e Longhena?»
«Nella finzione narrativa, professore. Nella finzione narrativa.»
Si riveste, dando la giusta importanza a ogni indumento, piano piano, così da alimentare di nuovo il mio appetito a soli due minuti dall’orgasmo.
«Per il bene della serie?»
«Certo. Mancava totalmente la componente romantica, Cosima e Richard a parte.»
Sta lì, in piedi, con il suo abito cortissimo, dolce e decisa come un generale di divisione. Sembra un critico letterario.
«E quella sessuale», aggiungo io.
«Quello attirerebbe telespettatori…»
«Che è la cosa più importante. D’accordo. Vada per l’uomo vestito di bianco e la donna elegante insieme, sia nell’indagine che nell’unione dei corpi. I rispettivi pupazzetti venderanno milioni di esemplari. Chi la scrive la scena di sesso?»
«Io mi vergogno», il generale di divisione torna caporale.
«Allora ci penso io.»
Annuisce, seria, preoccupata. Poi scuote la testa.
«No. Scriviamola entrambi. Diamo allo spettatore una doppia interpretazione, come la vede lui, come la vede lei. Senza dire chi ha scritto cosa.»
La ragazza è intelligente. Ora mi dà le spalle, sembra interessata al mio quadro, quello grande, quello che rappresenta la massa di pendolari, tutti con la stessa faccia, quello che ho dipinto personalmente, la filosofia alla base del Pozzo. Forse lei non l’aveva mai notato prima. O forse io lo tenevo coperto. Sembra tremare.
«Interessante idea», le rispondo, «ma senti, quand’è che l’uomo vestito di bianco e la donna elegante visiteranno il covo del Pozzo?»
«Presto, professore. Molto presto.»
Puntata #16
34
Interno notte.
L’uomo vestito di bianco prende tra pollice e indice la zip del vestito della donna elegante e l’abbassa piano, svelandole la forma delle spalle. Le linee del suo corpo convergono man mano che la zip scende. Arrivate in vita esplodono, come la silhouette di un violoncello, che l’uomo si appresta a suonare.
La cinge da dietro; con la mano sinistra le sfiora il collo, il mento, i seni, come percorrendo sulla tastiera, su e giù, una maestosa scala di do maggiore. Il braccio destro percorre l’orizzonte, accarezza la pancia della donna per poi scendere di qualche centimetro, e arrivare al punto dove la nota esce limpida, sonora, supportata dall’intero corpo dello strumento.
È in quel momento che l’uomo si congiunge a lei, da dietro, la giacca crollata a terra, i pantaloni scalciati via, lontano. I contatti brevi, costanti, sono accompagnati dalle carezze sul collo, sul ventre, che continuano a condurre la melodia. Sono due sole le note, si alternano, sembrano non arrivare mai all’accordo che sancirà la fine del brano, è una musica da sala giochi che attende il game over. È una musica da discoteca che scatena i due corpi sempre di più, la schiena di lei si inarca, la nota esce dalla sua bocca, furiosa, pochi istanti prima di quella più grave, bassa, gutturale, tre ottave sotto, sancita da lui. La fine di tutto.
35
Interno notte.
L’uomo non è più vestito di bianco, la donna non è più elegante, sono solo l’uomo nudo e la donna nuda, ora. Sono al centro della stanza vuota, si preparano a lottare con vigore, a combattere pur di raggiungere insieme quello per il quale sono venuti al mondo.
Lui la solleva, se la siede sulla faccia, la fa urlare, aspetta il momento in cui sente il suono della scopa della vicina, quella del piano di sopra, battere sul pavimento. Che poi sarebbe il soffitto. In quel momento lascia la presa e subito è sopra di lei; lei è pronta, vuole continuare a urlare, ma questa volta è la vicina del piano di sotto che si fa sentire. Sono gelose. Mentre l’uomo si rialza, pronto a soddisfarsi da solo, la sua mente ritrae le due disturbatrici, anch’esse nude, nella stessa stanza. Diventa di colpo un combattimento a quattro, dove tutti possono urlare liberi, dove non ci sono più vicini oltre le quattro mura, è un’orgia, una bolgia, un…
36
«Perché hai lasciato la scena in sospeso? Un modo per riconoscere che la mia è la migliore, che è la mia che sarà realizzata?»
Cinzia come al solito non capisce niente.
«Si tratta di uno spunto sul quale riflettere. Prenderemo i quattro attori: l’interprete di Longhena, la tua interprete – regolarmente scritturati dopo attento casting – e poi due signore di mezza età, fai anche di tre quarti età, direttamente dalla strada. Le vicine. Li rinchiuderemo tutti in una stanza vuota, senza vestiti, e diremo loro che usciranno solo quando saranno tutti completamente appagati. È un’orgia libera, ognuno dei quattro attori sarà libero di raggiungere l’orgasmo come vuole; se uno è schizzinoso e non vuol toccare nessuno, problemi suoi, che convinca il regista di essere riuscito comunque a godere. Non è innovativo? È per continuare con la filosofia del Pozzo: soddisfare la gente, disinibirla, liberarla dalle schiavitù quotidiane, dalla routine. Pensa che felici le due signore! E anche i mariti, indirettamente: torneranno a casa tranquille e prepareranno la cena, e andranno pure a letto presto. Senza dire una sola parola, per non intaccare il ricordo di una giornata così diversa.»
Non sembra convinta. Allora calo l’asso.
«Cinzia, ascoltami. Dopo il sesso, li metteremo tutti e quattro davanti al televisore, sono stanchi, vogliono rilassarsi, e allora ecco che riparte la nostra serie dentro la serie.»
«La storia di Wagner?»
«Certo. Ma l’innovazione sta qui: all’interno della serie dentro la serie ci sarà lo stesso Wagner seduto alla scrivania mentre prepara parte del libretto di una delle sue opere, che ne so, i primi versi de L’Oro del Reno:
WOGLINDE (kreist um das mittlere Riff):
Weia! Waga!
Woge, du Welle,
walle zur Wiege!
wagala weia!
wallala weiala weia!
Piccola pausa, la piuma nel calamaio. Gesti eleganti della mano.
WELLGUNDES STIMME (von oben):
Woglinde, wachst du allein?
WOGLINDE:
Mit Wellgunde wär ich zu zwei.
Cosa ne dici? Potremmo mettere una scena, una scena e mezzo dell’opera. Una quarantina di minuti, un episodio.»
Cinzia sta zitta. Sbuffa. Poi parla.
«Quindi la mia scena è da scartare? Ma davvero la prima volta di Gastone e Cinzia può essere qualcosa di così poco romantico?»
«Ma non capisci, è tutto nella mente di lui. È un sogno. Allo spettatore quello che poi lui fa con Cinzia non interessa, è chiaro che ci fa comunque cose, nell’ambito della sua sfera privata. Tutti farebbero cose con te, Cinzia, in privato o in pubblico poco importerebbe. Lo spettatore vuole divertirsi. E la mia scena è la più divertente. E poi vendiamo due giocattoli in più: le due signore. Comunque, ne parlerò con Mauro.»
Mauro. Pare sia partito in vacanza, tre settimane di fila, con l’uomo al seguito, l’uomo misterioso, in dipartimento corre voce che, ma nessuno poi sa davvero bene. La voce l’ho fatta partire io parlando con due colleghi, uno alla volta, quindi il gossip ti arriva e poi ti si conferma da un’altra parte, e poi arriva anche a me e dico sì, è vero, me l’ha detto anche quell’altro eccetera eccetera. La calunnia è un venticello, lo sapevano anche nell’Ottocento…
In ogni caso, il dipartimento è senza guida per tre, lunghe settimane. Serena sarà di sicuro triste, nessuno nella stanza accanto, forse vorrà compagnia, forse vorrà…
«Oggi è il mio compleanno», interrompe i miei pensieri.
Lo so. Infatti mi sono fatto un regalo appropriato. Per Cinzia avrei speso trenta euro, cifra tonda, e allora ieri sono andato al centro e mi sono comperato la raccolta rimasterizzata di Lucio Battisti. Faccio sempre così, è più efficiente. Quando è il compleanno di qualcuno compro per me: così non sbaglio. Facessero tutti così sarebbe un mondo perfetto, senza doppioni, senza oggetti inutili. Minimalista. Metto su il primo disco.
«Cinzia, sei un angelo caduto in volo. Cosa vuoi che sia un anno di più.»
Ci baciamo.
APPROCCIO AMOROSO IPOTETICO n. 3
Potrei pensarci, al sesso con Serena. Lei non è in forma, si vede, ogni giorno di più, ha altro cui pensare. Continua a piangere, la ragazza. Sono triste anche io per lei, un collega mi ha sorpreso a lacrimare in cesso. Gli ho detto chissà cosa per giustificarmi, che è morta una mia prozia cui tenevo, forse, una cugina, cose così. Abbiamo pranzato insieme, mi ha invitato lui, è stato un buon supporto, lo rifaremo. Andrà al funerale. Tutti abbiamo bisogno di amici.
Serena. L’agenda del direttore del dipartimento, le missioni dei colleghi, è ovvio che non le interessano. Aggiungere il sesso potrebbe svagarla? Rileggo la scena scritta da Cinzia, tra l’uomo vestito di bianco e la donna elegante. È più appropriata di quella che ho scritto io, se mi immagino Serena protagonista. Potrei mettermi a correggerla. Un ritocchino e potrei renderla sublime. Potrei farla leggere a Serena. Dirle: è questo che voglio da te. Che voglio per te. L’altra scena, l’orgia, potrei riservarla piuttosto a una di queste notti con Cinzia, quello non è amore, quello è l’odore della carne, umore, macelleria, sauna a novanta gradi. Il buio, i sospiri, le urla, il sangue, la bava, il seme, il godimento primordiale. Serena no, non è affatto tutto questo.
Potrei chiedere a lei di riscriverla, di metterci quello che sogna, quello che immagina di una notte con me. Potrei attenermi alla parte, potrei essere l’attore della sua commedia brillante, romantica. Tutto rosa, anche la cravatta.
Come colonna sonora potrei sedermi al pianoforte, eseguire di persona un pezzo, magari il tema di Jurassic Park, che così mi viene voglia di azzannarle il culotto alla maniera di un velociraptor, e sentire che urletto fa.
Potrei fare tutto quello che vuole.
Se solo fosse mia.
Puntata #17
37
Vai in giro per il quartiere. Ora la storia ti intriga. Dai, quattro morti sono abbastanza per tenerti più sobrio del solito, non sono le solite litigate durante le assemblee di condominio che tengono tutti sulle spine, e tanto a te poco importa ché non sei proprietario.
Qui si parla di quattro vite terminate in modo violento da un pazzo che va in giro vestito di plastica nera, o perlomeno così sembra.
La serie televisiva. Cos’altro aveva detto la ragazza? Il professore. Poco, per iniziare a indagare in questa direzione, non ti sembra?
Metti le cuffiette, ascolti qualcosa dei T. Rex: Get it on, un classico. Speri ti dia una svegliata, in parte ce la fa, come resistere a questa canzone: non si può. Poi passi ai Blondie, metti su Atomic e la sola voce di Debbie Harry un pochino ce la fa a risvegliarti anche dove dormi da mesi. Fa miracoli, senza nemmeno guardarne una fotografia.
Ti dirigi verso l’ospedale, è una passeggiata, speri di buttar giù un chiletto ma lo sai che è un’utopia, il rosso ingrassa e il bianco pure. L’edificio innanzi a te perde pezzi, mattoni che si staccano, certo, ma anche pezzi di mondo: vite, persone. Risate, ricordi. Quando muore un vecchio il suo bisnonno scompare per sempre dalla memoria terrena. Accade ogni minuto. L’ospedale necessiterebbe di più fondi. Entri, cerchi di parlare con qualcuno. Vieni rimbalzato.
Alle urgenze non collaborano, tiri fuori il patentino da investigatore privato ma è scaduto e poi cosa vuoi che gliene freghi agli infermieri, questa è roba da mandato di un giudice, roba non per te. Cosa vuoi sapere, Gastone? Ah, sì! Volevi sapere il nome di quella ragazza che hanno trasportato qui l’altro giorno in ambulanza. Bella intuizione, stai tornando in auge. Non te lo dicono, e basta. Torni a casa. Forse potresti informare Luciano Barabba, ma perché dovrebbe darti ascolto, e se poi si scopre che la tipa è una mitomane – come di certo è – tu ci fai solo una figuraccia. Non si fa perdere tempo alla polizia con un assassino del genere in giro.
La sera, beh, la sera ti buchi ascoltando Sister Morphine, la versione cantata da Marianne Faithfull. Siringa nuova, ago luccicante, rubata poco fa a un’infermiera, imparerà la prossima volta a essere più cortese. Spari la canzone a tutto volume, in casa, mentre ti spari in vena la roba. La voce della donna graffia come quella poltiglia che ti hanno venduto a pochi euro a contatto con il tuo prezioso sangue. Ti fa smettere di pensare, infine. È il modo migliore che conosci per andare avanti di ventiquattro ore senza doverti preoccupare di nulla.
Non lo fai tanto spesso, ma inizi a doverlo fare con una certa regolarità. Non è bene, lo pensi non appena riprendi la facoltà di capire.
Accendi il computer. È lento come te.
Il sito dell’Università di Villacarla non è fatto molto bene, ma è funzionale. Grafica primi anni duemila, colori pastello, avvisi urgenti che lampeggiano. Cerchi una serie televisiva. Entri nelle pagine dei dipartimenti di lettere e scienze della comunicazione. Qualche professore di arti visive, multimedia e palle varie c’è. Anche troppi, per indagare davvero su qualcosa. Gli ordinari, quelli che forse potrebbero avere i fondi per una produzione, sono quattro o cinque. Dare un’occhiata in giro, puoi farlo. Potresti mandarci Luca, se sei davvero così pigro. Inizia dal più politicante di tutti, Egidio Mauro, uno che le news riportano in odore di rettorato. Insegna storia della televisione quando non ha da fare puttanate amministrative: sì, ti sembra un buon candidato. Per essere coinvolto con la ragazza, non per diventare rettore.
Chiami in facoltà, cerchi di fartelo passare, ti rimbalzano due o tre volte, come all’ospedale, e alla fine ti risponde una voce strepitosa di donna, una voce che manco Debbie Harry, davvero, e ti dice che Mauro non c’è, che è in vacanza. Una voce stronza, perché poi mette giù e non fai nemmeno in tempo a salutarla.
E se te lo passavano, che gli dicevi? Non lo sai neanche tu, dì la verità. Non lo sai. Meglio così. Cosa dici? Ah, la ragazza. Sì, avresti potuto far finta di essere un medico, domandare se la tipa stava meglio. Ma un professore non sa mai queste cose che riguardano i suoi allievi. Di nuovo: meglio così.
38
Esterno notte.
L’uomo che vestiva di bianco, ora veste di nero. La donna elegante è vestita sportiva. Camminano piano, non fanno rumore i loro passi. L’edificio che si para davanti a loro è noto solo a lei, è lei la guida.
GASTONE: «È questo il nascondiglio del Pozzo?»
La donna gli fa cenno di stare zitto.
CINZIA (piano pianissimo senza parlar): «Sì.»
Digita un codice. Apre il portone. Entra lei. Entra lui. Chiude il portone.
Interno notte.
La donna mostra il pavimento con il dito. Scendono le scale. Sono almeno tre rampe.
Percorrono uno stretto corridoio, l’espressione nel volto di lei è tale che è chiaro a tutti che è la prima volta che si trova lì, e che non sa bene dove andare. L’uomo la incoraggia.
Esaminano tutte le porte, l’uomo non sa bene cosa cercare ma aiuta lo stesso. Svoltano a destra, poi a destra ancora e infine a sinistra. La porta di fronte, l’ultima, è marchiata con un’enorme “P”, tutta nera, inchiostro di china.
CINZIA: «Questa è l’entrata.»
GASTONE: «Non c’è dubbio.»
CINZIA: «È chiusa. Come facciamo? Non ho la chiave.»
L’uomo vestito di nero le fa cenno di spostarsi. La donna vestita sportiva si sposta.
CINZIA: «Fai attenzione. Dentro potrebbero attaccarti.»
L’uomo annuisce. Una breve rincorsa. La spallata.
Dentro, il vuoto. La sporcizia. Un’altra “P”. Nient’altro che valga la pena menzionare.
39
«Leggiamo davvero nella mente l’uno dell’altra, mia piccola Cinzia.»
Oggi sono di buon umore e ho voglia di incoraggiare i miei studenti. Indosso il completo rosa di velluto, per impressionare Serena, ma è Cinzia che mi vede per prima. Non la smette di ridere: bene, perché è contagiosa quanto lo sono le lacrime di Serena, e, francamente, a me piangere non si addice. Un buon motivo per evitarla anche stamattina, l’ho intravista tutta bianca in volto e il trucco sfatto, non ho voglia di tirare fuori l’empatia.
«Quello che mi sorprende», dico a Cinzia, «non è tanto che tu abbia scritto un’ottima scena, piena di tensione, né che tu abbia deciso alla fine di non far trovare nulla ai tuoi protagonisti. Piuttosto, mi sorprende che anche io, in parallelo, ho fatto spostare al Pozzo la prigione, anzi l’albergo, di Daniele. Senti qui che roba.»
Prendo le mie carte e le recito alla mia allieva, aggiungendo qui e là qualche iperbole per rendere la narrazione bella sugosa, come si confà.
«Il Pozzo entra nella stanza di Daniele. L’uomo è ingrassato: una decina di chili in più, ma quel che importa è l’espressione: ora è felice. Non ha molto da fare – non ne aveva neanche prima – ma almeno non deve lavorare per vivere. A farlo vivere ci pensa il Pozzo, ci pensa Enrico Proci. Non è contento di dover traslocare – chi lo è? – protesta, è nervoso, è perché non fa l’amore da giorni, ormai ci aveva fatto l’abitudine. Il Pozzo si scusa tanto, ma è davvero necessario andare via, in un posto migliore, più di buon gusto, gli procurerà altre donne, uomini se vuole, ma per favore ora deve collaborare. Escono mano nella mano – siamo in esterno notte – prendono la macchina d’epoca di Enrico Proci, quella rossa rubino, vanno fuori città, pochi chilometri. Un altro posto: più bello ancora, i quadri non sono un granché ma è comodo. Fa al caso di Daniele, può renderlo felice. Il Pozzo ci proverà, verrà a fargli visita due volte al giorno, a prendere ordini: si potrebbe cominciare con una bella festa, perché no, alla lista degli ospiti ci penserà lui, selezione dura all’ingresso.»
«Cinzia è invitata?», dice la ragazza soffiandosi sui capelli che le cadono davanti agli occhi.
«Cinzia no, Cinzia ora è nella squadra di Gastone Longhena, il Pozzo lo sa, sa tutto: è un supereroe, no? Ancora non ho deciso che poteri dargli, ma per iniziare direi una forza prodigiosa e, appunto, il sapere tutto. L’invisibilità no, Enrico Proci è uno che si nota subito, il centro dell’attenzione generale, non potrebbe mai riuscire a diventare invisibile. Comunque, digressione a parte: Cinzia e Daniele devono stare ben separati. Non ti pare? Non siamo ancora arrivati al climax narrativo della nostra serie, quando evidentemente Cinzia e Gastone troveranno Daniele e dovranno di conseguenza essere eliminati dal Pozzo. O forse no, in realtà non ho ancora deciso: magari litigheranno, non troveranno nulla, e saranno risparmiati.»
«Peccato, le feste mi divertono.»
Si accende una sigaretta, lì, nel mio soggiorno, tanto per farmi incazzare. Chiudo gli occhi, così almeno non la vedo.
«Lo so, lo so, sei giovane, ma a quello rimediamo e ti porto io a una bella festa, la settimana prossima.»
Tira due boccate e la spegne. Lo sa che poi la pelle le diventa brutta e se le diventa brutta prima di finire la tesi io la scarico e non troverà un altro relatore con il quale terminare il ciclo.
«Ma non mi interrompere più, ti prego, ché poi mi dimentico la storia.»
«Ma ce l’hai lì scritta!»
«La versione scritta è una merda: questa sceneggiatura mi viene meglio quando la tramando oralmente, così da riuscire a esprimermi, a dire davvero quello che voglio dire. Poi tanto il regista cambierà le cose, lo fanno tutti, lo fanno sempre. Comunque: Daniele vuole due o tre colleghi, da scegliere tra i più tristi; un dirigente di medio livello, uno di quelli bloccati per sempre in quello scalino, speranzosi ma senza futuro. Al resto ci pensa Enrico Proci, gente divertente, che ne so, la sottosegretaria, la ragazzina del talent show, il dottor Fresco, il monsignore. Uniamo il triste mondo che conta e il triste mondo che produce, così da generare allegria in tutti i cuori. Così ognuno può capire che non c’è salvezza, anche cambiando di ruolo, si resterebbe sempre e solo tristi.»
Cinzia comincia a capire.
«Ma come, lo scopo del Pozzo non è salvare la gente dalla loro routine, dalla loro malinconia quotidiana?»
«Ci prova, Cinzia. Ma si sta rendendo conto che Daniele si sta stufando, sta quasi impazzendo, senza andare nella sua fabbrichetta ogni giorno. Ha morso Roxana, no?»
«Capisco. Ti serve l’esempio contrario.»
«Precisamente.»
«Ma puoi usare questi personaggi nella serie? Il dottor Fresco, ad esempio, non si offenderà?»
«Gli cambieremo il nome poi.»
Cinzia prende il soprabito e sta per uscire, la blocco un secondo, è importante.
«Cosa c’è?»
«Il giocattolo del dottor Fresco, Cinzia: fagli un sorriso perfetto. Da caricare a molla.»
Puntata #18
40
Non ci sono più morti da giorni, perlomeno mischiati all’immondizia di casa tua, ti stai tranquillizzando. Hai fatto le tue telefonate, hai mosso anche il culo, qualche domanda in giro l’hai posta, hai bevuto meno del solito e non ti droghi da settantadue ore. Inizi a pensare che puoi tornare a fare quello che ti viene meglio da qualche anno a questa parte, e cioè gli affari tuoi.
Non sapresti da dove cominciare, non hai nemmeno un cliente. La ragazza non la sai rintracciare, e mai ti ha promesso un onorario. L’omicida mascherato non appare più nelle prime pagine dei quotidiani nazionali, trovi qualche trafiletto solo nei settimanali lasciati nella sala d’aspetto dalla tua estetista – ne avessi una: ti farebbe bene: guardati.
Il mondo va avanti, l’interesse creato da questa specie di vendicatore della notte è finito, non ce n’era bisogno, non importa a nessuno. Forse alla madre del ragazzo ancora importa, o forse ai clienti più fedeli delle tre donne. Danni trascurabili per un mondo come questo. La società rimane intonsa.
I tuoi problemi rimangono intonsi. Forse dovresti tornare a vedere lo psichiatra, forse qualcosa di più forte ti farebbe bene, qualcosa che magari possa anche sostituire l’eroina.
O forse l’ultima telefonatina dovresti provarla, all’università, non fosse altro che per risentire quella voce. No: Egidio Mauro non è ancora tornato, niente da fare. Però percepisci che quel suono di donna è un toccasana per i tuoi problemi andrologici, vuoi prolungare la terapia. Lo chiedi a lei, alla probabile segretaria. Ce le hanno ragazze sulla trentina scarsa in dipartimento? Una giovane prof, forse? Mette giù, sei un maniaco sessuale di certo, Gastone. Non sono domande da fare.
Egidio Mauro deve avere una certa età. Forse tiene ancora il suo indirizzo nell’elenco telefonico, per tradizione. Potresti andare là, qualche vicina più collaborativa e meno istituzionale della sensualissima segretaria forse la trovi, una che ti può dare il numero di cellulare di Mauro, ad esempio. Alle e-mail non risponde. Certo, è in vacanza. Ma al telefono non si rinuncia mai, specie quando si è in campagna elettorale per diventare rettori.
Domani.
41
Interno giorno.
L’uomo nudo e la donna nuda sono sul letto, si fanno le coccole.
Il sole che passa dalla finestra fa sembrare i loro corpi bianchi come spettri.
Lui le accarezza i fianchi, lei lo lascia fare con aria distratta.
CINZIA: «Il Pozzo sta per organizzare una festa, ci sarà molta gente, ci sarà un uomo che ha rapito. Ho paura, temo che ammazzerà ancora, e che ammazzerà proprio in questo frangente.»
GASTONE: «Come le sai tutte queste cose?»
CINZIA: «Mi sono state raccontate da uno degli invitati.»
L’uomo si rigira nel letto: ora le dà le spalle.
GASTONE: «Non vuoi dirmelo. Lo proteggi ancora. Chi è il Pozzo, Cinzia?»
La donna si alza, raccoglie i suoi vestiti e si riveste in velocità.
CINZIA: «Non posso ancora parlartene. Non ho alcuna prova contro di lui. Devo molto a quell’uomo. Ma sono la tua alleata, ti ho portato nel suo nascondiglio, era vuoto, è vero, ma la grande “P”? Non l’hai vista, la grande “P”?»
L’uomo si alza a sua volta, piano piano.
GASTONE: «L’hai scritta tu, vero? Prima di portarmici.»
La donna esce dalla stanza, l’uomo la insegue. Corrono. Lui la prende per un braccio, lei lo schiaffeggia con la mano libera. Piangono entrambi.
CINZIA: «Non ti direi mai una bugia, Gastone. Quella lettera è stata scritta dal Pozzo. Dall’assassino. Dal rapitore. Fino a prova contraria.»
Lui la scuote con vigore.
GASTONE: «Un nome, Cinzia! Un nome!»
Lei sviene tra le sue braccia.
CINZIA: «… Egidio Mauro.»
42
Cinzia mi spiazza, siamo troppo concordi nelle nostre finalità d’intenti, siamo una coppia perfetta, di potere, amanti mefistofelici, nonché dei creativi di gran classe. Leggo le sue ultime pagine e approvo con foga, la ricopro di baci, sulla bocca, sull’ano: dappertutto.
Egidio Mauro! Il direttore sarà contentissimo di apparire nella serie: studio nella mia mente il merchandising: il suo giocattolo, con gli accessori migliori di tutti, gli occhiali removibili, la piccola cravatta di vera seta, costerà produrlo ma le vendite saranno all’altezza della sua carica istituzionale. La valigetta, la valigetta la faremo apribile, e dentro metteremo tanti pezzettini di carta vuoti. Anche il cranio potremmo fare apribile, con dentro altra carta, bianca. Mischiata con qualche grammo di slime, lo voglio fucsia, immagina la sorpresa dei bambini, lo apriranno e chiuderanno in continuazione, così da far cadere il liquido viscoso nel parquet nuovo dei loro genitori.
Mando via Cinzia, l’ho fin troppo elogiata, non mi piace molto che fantastichi così tanto su Gastone, dovrò punirla per questo prima o poi, ma è vero che per la narrazione è necessario, sta venendo bene, al Pozzo servono antagonisti seri.
E poi, soprattutto, devo prepararmi per la festa di questa sera. Ho invitato un sacco di gente, Daniele sarà contento.
Passo l’intero pomeriggio a fare flessioni, c’è un motivo: hanno un effetto immediato, pompano il petto per ore e alle ragazze viene voglia di toccarlo.
Arrivo una mezz’oretta in anticipo per controllare tutto, indosso lo smoking, di sartoria, con il nodo sul colletto fatto a mano, non quelle robe già pronte. Daniele mi chiede chi cazzo io sia: è vero, non mi ha mai visto, lui conosce solo il Pozzo, e in fondo è meglio così, meglio che ignori la mia identità. Non voglio ucciderlo, mi fa peccato, mi ci sono affezionato. Se però continua a darmi del tu non garantisco nulla.
«Sono Enrico Proci, uno stretto collaboratore del padrone di casa, il professor Mauro. Tu devi essere Daniele?»
Mi guarda inclinando la testa, strizzando gli occhi, non sa cosa dire, poi dice l’ovvio: «Sì…»
«Mi ha parlato tanto di te.»
Lo lascio lì, davanti allo schermo al plasma, i pantaloni sbottonati non so per quale motivo, piccoli peli duri dappertutto sul divano: spero si ricomponga prima che arrivino gli ospiti. È un ragazzo così spontaneo. Mi faccio un drink, bello fresco, roba forte.
Sono indeciso sulla colonna sonora della festa: Wagner è cosa per pochi, ne sono conscio, le arie di Puccini no, mi piace ascoltarle in silenzio, assaporarne le note giuste al momento giusto, non potrei tollerare le chiacchiere della sottosegretaria mentre Cho Cho San sussurra piccina, mogliettina, olezzo di verbena, tutta contenta in un’apoteosi musicale senza pari, prima di sapere che il suo Pinkerton ha fatto quello che, dopotutto, avrebbe fatto chiunque altro. Verdi nemmeno, troppo zumpappà a momenti, starei tutta la festa a molleggiare le cosce e oggi ho già fatto troppi squat. Rimarrebbe la collezione delle ouverture di Rossini dirette da Claudio Abbado. Chiedo a Daniele, prima di premere il tasto play sul mio cellulare, già assaporo il suono del rullante solo in apertura de La Gazza Ladra. Daniele è impegnato con una riga di cocaina, la riconosco dal profumo: è quella che gli ho portato io la settimana scorsa. Allora la musica può aspettare, in questi frangenti ciò che importa è la compagnia e quella di Daniele è ottima: è generoso, divide con me, e meno male: se non lo faceva, la prossima volta gli avrei portato gesso.
Gli ospiti iniziano ad arrivare. Un paio di ragazze, tipe dell’università che ho incontrato in corridoio e che ho invitato: studentesse, gioventù, tanto per svecchiare il luogo. Portano un vassoio di paste, le getto in un angolo, servo loro un bicchiere di Kahlúa, liscia, non ho tempo da perdere a fare dei cocktail a questa gente. Le invito a sedersi vicino a Daniele, dico loro che è un uomo molto ricco, che è il suo compleanno e che siano carine con lui. Lui le guarda ai polpacci, spero non gli venga in mente di morderle proprio qui, questo è un ricevimento elegante, che vada in bagno o in camera di Mauro se deve dare sfogo ai suoi istinti, sono sicuro che si lasceranno fare, sembrano due brave ragazze. Tra l’altro la camera di Mauro è ben equipaggiata di ogni comodità, me lo ricordo bene.
Poco dopo arriva l’assessore Astori con il figlio; devo trovare un modo per riuscire a sgozzare questo ragazzo e recapitarlo nella pattumiera di Longhena, gliel’avevo promesso, però forse non adesso: c’è troppa gente, c’è anche il padre, poi magari manda a monte l’elezione di Mauro, è uno influente, in odore di ministero, mal che vada sarà il prossimo sindaco. Il giovane si siede vicino alle giovani e a Daniele, sembrano divertirsi tutti insieme. Bene: tenere Daniele sorridente è lo scopo della mia vita, ci sto riuscendo.
L’assessore si accende un sigaro, lo lascio fare, non è casa mia. Gli servo un whisky con ghiaccio, ci sputo dentro, lui lo beve in pochi sorsi, un paio di gargarismi, facendo finta di meditare, dicendomi due o tre cazzate che manco sento. Abbado sta dirigendo Semiramide, richiede la mia concentrazione, non è roba immediata come Il Barbiere di Siviglia.
Dopo un quarto d’ora anche il prete è dei nostri, lo prendo a braccetto, gli presento Daniele, voglio che lo confessi, l’uomo deve rimanere puro, libero dal peccato, gli serve il perdono. Se la sbrigano in pochi minuti, il prete ride, chissà cosa gli ha detto, poi mando Daniele dietro al figlio dell’Astori, che è già in camera con le tipe, gli raccomando di comportarsi bene, non è un posto da campagnoli questo.
Il prete, credo sia monsignore, davvero non lo so ma è sempre in televisione, gradisce il vinello che gli faccio assaggiare. Preferisce la compagnia dell’assessore alla mia. Meglio così: posso concentrarmi sulla sottosegretaria, che fa il suo ingresso radiosa, con un vestito rosso lungo, uno spacco da danzatrice di tango e una scollatura adeguata. È ingrassata un paio di chili. Vuole salutare il padrone di casa, ma non c’è, è in vacanza, lo rappresento io, allora si fa triste perché sa che non posso scomparire come l’altra volta, devo tenere banco, sono l’ospite della serata, la gente si deve divertire e ne sono io responsabile.
La cantante del talent è già qui da mezz’ora, non se ne era accorto nessuno, me ne accorgo io ma evito di darle importanza. Sta lì con un disco in mano, cerca lo stereo, forse vuole propinarci la sua roba, è vero che il tale con la giacca verde è un produttore discografico. Lei lo guarda con sguardo affamato, ma lui sembra più interessato allo champagne di Mauro, cui ho dato fondo, che a lavorare anche stasera. In ogni caso, se trova lo stereo e mi taglia sul più bello L’Italiana in Algeri io taglio un dito a lei e lo recapito a Longhena, e, se protesta, anche la lingua.
Ogni tanto sbircio in camera, controllo se Daniele si diverte, sembra di sì, ora sta provando un’esperienza omosessuale. Pare che anche i suoi colleghi non si stiano annoiando. È un’orgia di corpi al buio.
Esorto Daniele a uscire, dare qualche ordine: come risultato il monsignore è dietro al bancone del bar che prepara aperitivi, allinea piste di polverine varie, sembra che non si sia mai divertito così tanto; la sottosegretaria è in biancheria intima che porta le ordinazioni in giro per le stanze, in cambio riceve banconote nel reggiseno; il dottor Fresco pulisce i liquidi che scorrono nei corridoi, è molto capace, non ha mai lustrato con così tanta cura nemmeno i suoi denti perfetti. L’assessore è nudo, nell’angolo, si sta facendo frustare da qualcuno, è la cantante – so bene cosa le piace fare; il figlio gli fa foto con l’iPhone e ride, tutto è già su Instagram, ottanta cuoricini, novanta. I sondaggi elettorali lo danno sempre più trendy.
Suona il campanello. Non aspetto più nessuno, corro ad aprire, non vorrei che i vicini si lamentassero, non ho nemmeno la risposta pronta, Mauro è in vacanza nel momento sbagliato.
Sul pianerottolo c’è Gastone Longhena. Quello vero. Senza Cinzia.
43
Ti apre la porta un tizio, c’è una festa là dentro, da com’è vestito è di certo un cameriere.
Ti scusi per il disturbo, capisci sempre quando non è il momento, ma l’uomo ti ferma, ti dà la mano, ti fa entrare. Hai la barba lunga e la giacca bianca che sembra grigia, non è il caso di rimanere, ma lui sembra volerti, sembra quasi desiderarti, ti mette in mano una coppa di quello buono, lo trangugi senza pensarci, vagamente amaro. Ti presenta in giro, sa chi sei, non ricordi di avergli detto il tuo nome. Esalta indagini cui non hai partecipato, consulenze per la polizia che non rammenti, ma tu annuisci, sembra gente importante, uomini e donne di gran cultura, la tipa scosciata ti fa voglia, lei ti guarda, tu la guardi. Sei al terzo bicchiere di quella roba, ora vai in giro per la casa con una magnum in mano, bevi a canna, vedi un tale che corre con pezzi di stoffa in bocca, una ragazza che ride e corre, con il culo fuori, la stoffa era dei suoi pantaloni. Il cameriere accorre, dice a questo pazzoide, a questo Daniele, di stare buono, di trattare bene gli ospiti; lui obbedisce, sputa la roba fuori dalle fauci e torna nella stanza dalla quale era uscito. Ti è familiare, il pazzoide: un ricordo più da passato prossimo che da passato remoto, ma chi sa. Comunque un ricordo archiviato, un problema non più tuo. Vedi tanta gente, clienti, obiettivi. Troppi stimoli. Gli odori sono peculiari in questa casa.
Ti stai divertendo. Quasi non riesci ad ammetterlo a te stesso.
Perché sei venuto in questo posto? Chi ti ha invitato? Dev’essere la tipa mezza nuda con i soldi che escono dal reggipetto, senz’altro, non vuoi interromperla, ora sta parlando con un tale col colletto bianco e nient’altro addosso. Rompe un bicchiere, lo senti bestemmiare. Guarda e passa, Gastone.
No, non ti ha invitato nessuno, scuoti la testa con vigore. Bevi un altro goccio per focalizzare i neuroni: sei lì per parlare con il professor Egidio Mauro, ti aspettavi di non trovare nessuno nel suo appartamento e di dover chiedere ai vicini il suo numero di telefono. E invece nel suo appartamento ci trovi una cinquantina di persone urlanti.
Ritrovi il cameriere, il tizio che ti ha aperto alla porta, gli passi venti euro da mano a mano e gli chiedi di indicarti il professore. Scopri che anche il cameriere è professore, forse fa due lavori, del resto oggi è sabato e le università sono chiuse. Ma questo è più giovane, gli fai il nome di Mauro, lui allarga le braccia, ti dice che è in vacanza con l’amante, un bodybuilder tailandese.
Lo saluti, gli dici che ritornerai. Anzi no, sei cretino? Non hai ancora finito: gli chiedi il numero di telefono, eri qui per questo. Lo ottieni subito, l’uomo lo sa a memoria, sembra spari cifre a caso, dev’essere la verve degli accademici.
Ti ritrovi sul pianerottolo, la magnum in mano, è vuota. Hai un paio di mutandine sulla spalla sinistra, non ricordi come ci possano essere finite. È un pizzo costoso, decidi di conservarle, tu non butti mai via niente, di questi tempi. A Marta piaceranno, è il suo genere.
In strada fai il numero del professor Mauro. Risponde una signora, hai sbagliato una cifra di sicuro, intontito come sei. Rifai il numero, la voce dall’altra parte della linea è la stessa. La cifra deve averla sbagliata il cameriere: a voler usare sempre la memoria ogni tanto si sbaglia. L’uomo era così gentile che decidi di tornare alla festa e chiedere di nuovo, con tanta cortesia. Ti fermi da un cinese a comprare del vino: alle feste non ci si va a mani vuote. Lo travasi dentro alla magnum vuota, vuoi fare bella figura, sono stati gentili con te.
E però questa volta non ti apre nessuno: forse la musica è troppo alta, la senti anche tu da fuori. Guglielmo Tell. Qualche ricordo scolastico ce l’hai ancora. Il campanello non suona, strano, prima funzionava. Bussi invano. Allora torni a casa, al tuo mondo. Ascolti due o tre brani dei Blondie prima di andare a dormire. Uh huh, make me tonight, tonight make it right, oh, your hair is beautiful…
Buio totale.
Puntata #19
44
«Bella la descrizione della festa. Ci si potrebbe anche fare un episodio a parte.»
Stiamo mangiando insieme la pizza, come due liceali, m’ama, sì m’ama, lo vedo, lo vedo, direbbe Gaetano Donizetti. Anzi, il suo librettista: Felice Romani.
Io ho preso una “mare e monti”, la pizza che non prende mai nessuno, così, per distinguermi, e per distinguermi ancora di più la lascio lì tutta.
«Sì, piccola. È quel che penso anch’io. Uno degli episodi finali, per diminuire la tensione in vista dell’inesorabile finale drammatico.»
«Però non capisco perché hai deciso di inserire il mio personaggio.»
«Gastone?»
«Sì.»
Piego la pizza in due parti, poi l’apro di nuovo. Non si gioca col cibo. Sorseggio un calice di Amarone.
«Un colpo di scena, no? Gli hai fatto tu il nome di Egidio Mauro, nella scena prima, quando eri a letto con lui.»
«Ma io non l’avrei fatto correre nell’appartamento di Mauro. Non sapevo nemmeno che Daniele fosse nascosto lì! Volevo che il mio personaggio coprisse ancora per qualche tempo il suo relatore.»
Sbatto il pugno sul tavolo.
«Infatti. Ora è un problema. Lo sanno anche tutti i telespettatori dov’è nascosto Daniele.»
Cinzia ride. È bella, quando ride.
«Non ancora. È solo una sceneggiatura. Comunque ora devo scrivere la scenata che Cinzia farà a Gastone. Una ti fa una confidenza…»
«… una bugia…»
«… Sì, ma pur sempre la confidenza della tua amante.»
«Hai ragione, è imperdonabile. E poi darebbe brio all’episodio. Sentiamo.»
Cinzia termina la pizza in pochi secondi, poggia le posate sul piatto e si distende sullo schienale, la testa all’indietro, sognante.
«L’uomo vestito di bianco va da lei, le porta dei fiori, sa quali le piacciono.»
«Io no.»
«Lo so, tu non me ne regali mai. Peonie.»
«Che classe.»
«Molta. Peccato che lei sia tanto arrabbiata con lui, qualcuno le ha detto della prodezza, infilarsi così a una festa, non invitato, sulla base della confidenza strappatole dopo l’amplesso…»
Le faccio coraggio, che vada fino in fondo, niente censure, per l’arte.
«Io dico che gli dà un bello schiaffone. Prende il mazzo di peonie, le mette in un vaso, e gli dà un bello schiaffone. Che ne dici?»
«Dico che è interessante, anche se succede già nella scena precedente: dona una dimensione da soap opera a quella che per me in partenza era piuttosto una serie all’avanguardia, del tipo La casa de papel, per intenderci.»
Cinzia ordina soddisfatta un tiramisù.
Per me niente, grazie.
«Ma Proci che numero ha dato a Longhena? Devo saperlo per non fare errori.»
«Un numero a caso, ovviamente. Proci non è un cretino.»
Non sono un cretino, no. Poi dico quello che devo dirle.
«Ma te lo scopi sul serio Gastone?»
Mi guarda senza capire.
«E tu, le ammazzi sul serio le puttane?»
Non so cosa risponderle. Una sceneggiatura va scritta bene: certe cose vanno sperimentate, prima di poterne parlare. Però non capisco cosa ci facesse quel detective al mio party. Dev’essere in relazione al fatto di avergli messo tutti quei cadaveri putrefatti davanti a casa. Non credo che Cinzia lo frequenti davvero.
I nostri quesiti rimangono irrisolti, così come il nostro rapporto.
La accompagno a casa, la lascio al portone, non salgo. Che chiami coso se ne ha voglia, il ragazzetto. Io ho da fare.
45
Cammini sobrio, è una sensazione diversa. Per fortuna l’indirizzo è scritto nell’elenco, devi riguardarlo, non ci sai tornare senza. L’appartamento di Egidio Mauro fa parte di un complesso residenziale recente, una decina d’anni al massimo, candido, pulito, il portiere ti apre di nuovo, ti conosce, eri invitato alla festa l’altro giorno, sei candido e pulito anche tu. Sali al piano, prendi le scale, nonostante la gamba malandata. A te gli ascensori proprio non piacciono. È una vecchia storia.
Non c’è musica questa volta. Suoni. Nessuna risposta.
Provi la porta accanto. La vicina è gentile. Il numero di Mauro non te lo dà, ti dice che non sta bene farlo senza permesso. Però un caffè te lo offre. E ti dice anche che non conosce nessuna ragazza in particolare che frequenti Mauro. Ridacchia, le guance le diventano rossastre. Al di fuori delle feste, il professore in casa riceve solo bei giovanotti. La donna ha una bella casa. Ti metti comodo. Dividete per qualche ora le vostre esistenze solitarie, dicendo niente, dicendo tutto.
Si fa tardi, rinunci a chiedere ancora, a chiedere ad altri vicini. Non pensi che il risultato possa cambiare, e assumere troppa caffeina ti fa male. Aspetterai. Ti presenterai in dipartimento tra qualche giorno, prima o poi le vacanze finiranno, anche per un dirigente, anche per un accademico. E poi così vedrai il volto e il corpo della Debbie Harry che risponde al telefono. Impossibile una delusione, ne sei certo.
Torni a casa, ora puoi bere. A canna, dalla magnum di Cristal, il vino del cinese: l’hai tenuto in serbo. Va giù tutto, stai bene, fa schifo. Accendi il computer, hai qualche rottura di coglioni burocratica da risolvere, apri la posta elettronica. C’è la risposta: la risposta di Mauro!
Dice che una ragazza che corrisponde alla descrizione in dipartimento c’è. Non ricorda il nome. Puoi andare a parlarci domani. In ufficio; stasera torna e sarà subito operativo. Un’elezione da vincere, pensi. Strano che abbia tempo da perdere con te, ma ricordi cosa diceva la vicina, e le poche foto che di te stanno in rete ritraggono un gran bel figone, prima di tutta questa ciccia, prima della gamba zoppa e la barba portata lunga.
In ogni caso, la barba te la fai, la segretaria davvero vuoi conoscerla, al resto purtroppo non hai rimedio immediato.
Salti la cena, ecco, quello puoi farlo. Riesci anche a rinunciare alla droga, non sai nemmeno tu come: lo sforzo è grande. Vai a dormire presto, fai un paio di addominali al mattino, ti lavi. Ecco, sì: ti lavi.
Dai una pulita sommaria anche alla giacca bianca, combini il pantalone giusto, esci di casa. Sono pochi chilometri, ci puoi andare a piedi. Compri dei fiori, vuoi ringraziare la segretaria per non averti dato il numero del direttore, la professionalità va premiata.
Ti senti molto fortunato, devi fare anticamera. Nella stanza con lei: Serena, il nome lo leggi sulla porta. È davvero qualcuno, questa Serena. Qualcuno di inarrivabile. Dopo cinque minuti, preghi affinché Mauro si sbrighi a riceverti, stare troppo esposto al sole fa scottare, non sai più dove guardare, se la fissi ti fissa lei e allora devi distogliere subito l’insostenibile sguardo, se invece non la consideri capisci di perdere un’occasione unica per ammirarla e ti senti più coglione di quanto tu lo sia già di tuo. Mauro apre la porta del suo ufficio dopo mezz’ora di sofferenze, getti i fiori nel cestino delle cartacce da riciclare, prendi posto al tavolo delle riunioni. Diligente tiri fuori il taccuino e la penna e guardi negli occhi il professore, che apre bocca per primo, questione di seniority.
«Mi dica tutto, dottor…?»
Gli dici il tuo cognome. L’aria è gentile, il tono della voce curato, ma il fatto che non si ricordi il tuo nome dopo averti dato appuntamento lui stesso lo inserisce in una precisa categoria di persone a te ben nota dato il tuo mestiere: quella dei viscidi.
«Lei voleva sapere il nome di una delle nostre studentesse di dottorato, così mi ha detto la mia segretaria, poco fa.»
C’era anche scritto nella mail cui ha risposto. Soprassiedi, Gastone.
Tu sorridi. Lascialo parlare, questa gente adora il suono della propria voce, è più facile ottenere un risultato stando zitti o rispondendo in maniera concisa, come stai facendo.
«Non credo sia possibile per me comunicarglielo, non per le ragioni che mi ha esposto.»
Ora la mail se la ricorda. Allora perché ti ha fatto venire? Mauro si alza dalla sedia, va su e giù per la stanza.
«Lei è un investigatore privato. Posso vedere il tesserino?»
È scaduto. Lo guarda, la data per fortuna sembra non notarla. Te lo ridà, sfiorandoti la mano con le dita.
«La ragazza è svenuta ed è stata portata all’ospedale. Sembra a me un fatto di natura strettamente privata. Niente a che vedere con un’indagine. Se la donna volesse ricontattarla, lo farebbe. Lei è uno stalker, Longhena?»
No, non lo sei, sei tante cose ma questa no. Ti alzi, vai verso la porta, e la noti. Sulla scrivania.
La statuetta: tale e quale alle immagini dell’assassino, pubblicate da tutti i giornali. Alta circa trenta centimetri, con il mantello e tutto, in gesso dipinto di nero. Il simbolo disegnato sui pettorali è identico a quello che si vede nelle fotografie. O quest’uomo fa l’apologia di un assassino, oppure quest’uomo è l’assassino.
«Le piace il modellino? È l’Olandese Volante. Sa, il fantasma, protagonista dell’opera di Richard Wagner. Sto producendo una serie televisiva su di lui. Dovesse interessarle un ruolo, può rivolgersi a me quando vuole. Soprattutto se le fanno storie per rinnovarle la licenza da investigatore privato.»
Sorride.
Esci di corsa, torni a casa, hai bisogno dell’eroina ora più che mai, il cervello ti spinge la scatola cranica, vuole uscire, non capisci più niente. Anzi, no, capisci tutto, devi vomitare. La ragazza, il professore, la serie televisiva, tutto torna. È lui l’assassino.
Il laccio emostatico. Il cucchiaio. Il buio, ancora e sempre.
46
Interno giorno.
L’uomo vestito di bianco e la donna elegante stanno uno di fronte all’altra, urlano, sbraitano, quasi vengono alle mani. Fiori rosa sparpagliati ovunque nella stanza.
GASTONE: «Perché questo schiaffo? Mi hai fatto malissimo, puttana!»
CINZIA (in lacrime): «Come ti permetti, come…»
GASTONE: «Scusa, scusa, non volevo offenderti. Ma cazzo, mi hai fatto male. Cristo…»
CINZIA: «Non dovevi presentarti così, in casa del professor Mauro.»
GASTONE: «Quel pazzo omicida? Dovevo vedere dove vive, cosa fa. Va fermato. Ora vado dalla polizia.»
L’uomo cerca di uscire, la donna lo trattiene.
CINZIA: «Era una confidenza, un’ipotesi, non voglio che tu inizi a far casino di qua e di là, a rovinare la reputazione delle persone.»
GASTONE: «Ma vaffanculo!»
Exit l’uomo vestito di bianco.
Puntata #20
47
«E adesso?»
Me lo chiede dopo che ho finito di leggere le sue ridicole righe.
«Cinzia ha rotto con Gastone. Mi sembra ovvio. In ogni caso lui non era degno di lei.»
Oggi siamo alla spa. Mi sto facendo massaggiare le chiappe da un uomo e nel mentre leggo e ascolto Cinzia.
«Professore, intendo adesso cosa succede? Gastone va a trovare qualcuno della polizia. Li convince. Arrestano Mauro.»
Ah, che goduria questa strizzata di culo. Più forte, più forte.
«Mi sembra tu abbia le idee molto chiare. Bene. Arrestano Mauro. Il Pozzo sparisce. Daniele può scegliere se restare ospite di Proci, nella cantina, o se tornare libero. Credo che sceglierà di restare, si diverte troppo. Poi glielo chiedo. Insisterò affinché resti. Potremmo anche portarlo a farsi un bel viaggio, tu e io, ma non una cosa turistica, una volgare trappola per pendolari, penso a una bella avventura.»
Cinzia ha la schiena ricoperta di aghi. Non un bel vedere.
«Ma, Enrico…»
Enrico?
«Professore… »
Meglio.
«L’assassino sei tu.»
Il massaggiatore e l’agopuntore si guardano. Sento un crac, qualcosa di sbagliato, qualcuno si scusa tanto, chiederò uno sconto, un ingresso gratis: c’è chi perderà il lavoro.
«L’assassino è Enrico Proci. Se arrestano Egidio Mauro, tanto meglio per Cinzia. O no? Enrico potrebbe diventare il nuovo direttore di dipartimento: mediocre coronamento di una carriera con potenziale, rovinata dalle circostanze, ma sempre meglio di niente. Cinzia potrebbe difendere la sua tesi e trovare un bel posto da ricercatrice… Cosa ne dici? Bel finale?»
Riflette. Sembra Hellraiser, con tutti quegli aghi addosso, pronta a squartare qualcuno. Non dice niente, sembra che la prospettiva sia di suo gradimento. Se mi denuncia, la sua carriera è finita. Se tace morirà tranquilla: un infarto in un giorno lontano, seduta sulla sua cattedra da ordinario emerito, mentre scrive trenta e lode nel libretto vergine di un bel giovanotto impomatato, sorseggiando un’infusione rooibos. La fine dei giusti. Io non ci sarò più da molto tempo.
«E la serie?»
La sua domanda mi spiazza. C’è ancora qualcuno a cui interessi questa serie? È passata di moda, ormai, ce n’è senz’altro una migliore da guardare: un buon documentario di cucina le farebbe bene, ad esempio. Quantomeno le colonne sonore sono più alla portata della gente, curate, barocche: Vivaldi, Albinoni, niente romanticismo tedesco. E niente giocattoli, non funzionano, i ragazzi oggi badano solo al digitale, era e rimane un’extravaganza priva di senso.
«Arresteranno il nostro produttore, cioè il nostro direttore. È bene tenere un profilo basso, Cinzia. Quell’uomo ne ha fatte troppe, non voglio essere collegato a lui in nessun modo. La serie è cancellata, la mia direzione del dipartimento prenderà un percorso completamente diverso dal suo. Cambierà tutto. Terrò soltanto Serena, la segretaria di Mauro. La ragazza non merita di pagare gli errori del vecchio. Avrà un ufficio più grande. Anche la panchina dove aspetti tu: ne metteremo una più comoda.»
E poi Serena non sembra più preoccupata per la scomparsa del suo fidanzato. Ora forse potrò provare una mossa, uno dei tanti approcci così a lungo studiati.
«E i soldi del ministero?», dice Cinzia mentre le lampeggiano gli occhi, interrompendo il mio ben più importante pensiero.
«Proporremo di convertirli in borse di studio in onore del ragazzo morto ammazzato mentre faceva il tirocinio obbligatorio per laurearsi. Assumeremo nuovi dottorandi, finanzieremo un nuovo grosso progetto tutto per te, svilupperai skills da project manager. Tutto per il meglio. Nessun politico sano di mente si opporrà. La sottosegretaria la convinco io.»
Cinzia si alza, toglie la merda che ha sul corpo, si riveste. Un forte smack sulla guancia.
«Torniamo a casa, professore. Ti faccio la torta di carote.»
APPROCCIO AMOROSO IPOTETICO n. 4
Daniele vivrà. Lo odio, ma vivrà: amo troppo Serena per eliminarlo, cosa succederebbe se mai lo scoprisse? Di certo la perderei per sempre.
Potrei ora farmi avanti davvero, le rose in mano, la camicia aperta, l’occhiale scuro Ray-Ban.
A lui, lei non ci pensa più. È scomparso da tempo, ma deve sentirlo in qualche modo che vive, ed è felice. Le ho mandato una cartolina al giorno, a firma Daniele, per tutto questo tempo. Le ho spiegato per bene le ragioni per le quali ha dovuto lasciarla: tutto ciò si chiama vita. Serena è quindi pronta ad accogliere un altro uomo, lo percepisco con chiarezza.
Potrei dirle di venire in ufficio quando vuole, lasciarle gli orari flessibili, intortarmela. O potrei dirle di arrivare prestissimo e partire tardissimo, così da essere soli io e lei e rotolarci nudi per i corridoi, giorno dopo giorno, celebrando la purezza del nostro amore. Ah, quanto vorrei un figlio da Serena. Potrei ingravidarla, e poi potrei mandarla in congedo di maternità, tenerla al riparo dagli sguardi degli altri, farla mia, tenerla chiusa nel mio loft, dodici piani sopra la prigione del suo ex, con il mio corpo perfetto a disposizione, come unico giocattolo giocattoloso, e con l’infante a piangere sopra la settima sinfonia di Beethoven che rimbalza tra le mura. E ogni tanto, tornando dall’ufficio, senza mai esagerare nella frequenza, intonare rap italiano urlandole: «Affacciati alla finestra, amore mio.»
Potrei poi dire in giro che è morta, che è malata, che non torna più. Potrei non tornare più nemmeno io. Potrei, un giorno lontano, far salire in casa anche Daniele, a bere qualcosa insieme. Sorpresa. Il regalo d’amore definitivo.
Potrei tutto questo.
M’ama, o non m’ama?
48
Luciano Barabba ti lascia venire, ti conosce, la soffiata viene da te. Hai avuto un momento di lucidità stamattina, di onestà, anche intellettuale. Non sai davvero nemmeno tu come hai fatto per riprenderti dopo la dose di ieri sera. Chiami subito Luca, che si apposti, faccia qualche foto da rivendere al giornale, e anche al telegiornale, con prezzi da monopolista. Nessun cliente pagherà la risoluzione di questo caso, ma tu l’affitto lo devi pagare lo stesso.
La palazzina la conosci, il portiere ti saluta, questa volta viene anche su con voi. Qualcuno gli ha detto che alle feste di Mauro ci si diverte, vuole imbucarsi. Ma non sarà una festa, questa volta, purtroppo.
L’unica sorpresa è che il Mauro lo trovate appeso al lampadario con la cravatta di seta, nudo, la lingua fuori, il costume di lattice per terra, fogli sparsi sul pavimento. A fianco, la montatura degli occhiali rotta: come se prima di suicidarsi l’abbia pestata con forza, come se la detestasse. Ti sembra strano. Vorresti approfondire l’elemento, qualcosa non torna, dev’essere andata in un altro modo. Intanto il portiere sviene. Barabba deve uscire a vomitare, non è abituato, rimane sbirro di campagna.
Tu raccogli i fogli. Una confessione. Come se servisse! Un perverso: il ragazzino, le meretrici; tanta solitudine, quella tipica del potere. Luca fa delle foto, bravo, sono più efficaci delle fatture. È giovane ma è già un professionista. In un paio di scatti appari anche tu, circondato dai poliziotti in divisa, il corpo nello sfondo. Che prenda anche immagini della lettera, così poi puoi appenderla in ufficio: un diploma, il trionfo. Riassume tutto quello che già sapevi, e che sta a verbale negli uffici della questura. Finalmente il tuo ritorno tra i grandi di Villacarla, l’uscita dalla dipendenza dall’eroina – forse – e il recupero del vigore sessuale: ti aspettano. Stasera andrai a festeggiare con Marta, lei non aspetta altro. Poi magari potresti offrire un lavoro a Serena, la segretaria dell’omicida suicida, vorrà cambiare vita, dimenticare gli ambienti universitari, in futuro chissà.
Gli occhiali rotti? Un’ipotesi alternativa? Chissenefrega. Uscendo prendi una bottiglia di Cristal dal frigo. Offre il morto, come spesso accade a chi accumula beni terreni.
49
Interno notte.
L’uomo che un tempo aveva la bocca più dritta di tutti ora ha la bocca più curva di tutti. Nessuno l’ha reclamato. Se ne sta lì in pace, nel divano: mangia, beve, ogni tanto fa l’amore. Mangia. Beve. Fa l’amore. Due volte a settimana, con una donna diversa, che mai fa domande: sarebbero inutili.
La televisione all’interno del piccolo locale è più grande di quella delle scene precedenti. Le casse funzionano in Dolby Surround. Lo schermo è sempre acceso, ventiquattro barra sette. Daniele alle abitudini è assuefatto da sempre: ma certo, alcune sono migliori di altre.
Esterno notte.
Molti piani più in alto, sul tetto dell’edificio, tra un camino e un’antenna parabolica, il Pozzo osserva la città. La luna si specchia in lui.
Note del Lohengrin, preludio all’atto primo. Titoli di coda.
Bravi! Bravi tutti. Si torna a casa. Ora rimane l’ultima cosa, piazzare il lavoro: per ora nessuno vuole produrre il film Giocattolosa, né la serie Il Pozzo e i pendolari al suo interno, né il biopic su Wagner che è parte di quest’ultima. E nemmeno Ritorno all’Isola dei Dadi, il fumetto che avevo pensato di realizzare – e la cui genesi avrei inserito nel film – sulla base di una vecchia storia di Braccio di Ferro, con Enrico, Gastone e Daniele come protagonisti invece di Castor Oyl, Ham Gravy e Braccio di Ferro. Avrei ben delineato un viaggio verso una remota isoletta dell’Africa, pronti a sbancare un ricco casinò, almeno nella parte inventata da Enrico, che Cinzia avrebbe cercato di disegnare nello stile del grande Segar. Invece nella parte narrata da Gastone, reale, avrei inserito i miei personaggi in un sordido locale popolato da tristi figuri, che come ogni sera perdono al tavolo dello Chemin de Fer una parte del patrimonio ereditato dai loro saggi genitori. Ma niente.
Nessuno pagherà lo stipendio rimanente di questi pochi attori presi dalla strada, soldi non ce ne sono più, il piccolo ufficio già l’ho dovuto lasciare. Non mi troveranno più, sono a rischio di farmi linciare. Nessuno ingaggerà un regista, un direttore della fotografia, rimarrà un’opera incompiuta! Tutta questa immaginazione tirata fuori per salvarmi non servirà a nulla. Anche la ragazza mi sono giocato. Serena crede che io sia pazzo. Io, Daniele, tornerò al mio grigiore quotidiano: al capitolo 13.
Forse, e dico forse, lascerò che una rivista metta un po’ d’ordine tra questi miei appunti e li pubblichi in maniera giocattolosa. Io i contatti già li ho presi: come il Pozzo, mi auguro che possa contribuire ad alleggerire la vita delle persone che lo leggeranno. E magari, se possibile, a strappar loro un sorriso, o un’incazzatura: tutto, fuorché una piatta, impassibile, reazione alla banalità.
Il pdf di Giocattolosa vede un’introduzione critica di Aurora Dell’Oro e un’intervista all’autore, Gabriele Esposito, a cura di Livia Del Gaudio.