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Dopocena, delitto, interno notte
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 03/07/2020 0 Comments 16 min read
Andrea Herman - Piccola antologia Previous Il colloquio Next

Testo: Alessia Principe
Copertina: Roma – Andrea Herman

«Ti lascio».
Il filo di cenere della Multifilter ultraslim si spacca al centro e le rovina addosso. Neanche prova a metterci la mano sotto. Attaccano le viole, poi i quattro accordi di piano. “Doppia verità”, titoli d’inizio, ultima puntata.
Che sceneggiato memorabile, pensa lei, bello come quelli che davano anni fa sul primo canale con quell’attore, come si chiama, quello alto con gli occhi chiari e la fossetta sul mento.
Mina sbuffa e si passa la lingua tra i denti. La resa dei conti è arrivata anche per Vera Steiner. Sissignora, ci può scommettere il collo di pelliccia e il servizio Rosenthal del pranzo di nozze alla tenuta Chesterfield, che è arrivata anche per lei. Arriva per tutti.

Adesso c’è un buco sul pantalone del pigiama celeste di Mina. Lei lo guarda come se facesse fatica a capire cos’è. Non c’era prima e c’è adesso. Tocca il bordo circolare irruvidito dalla brace. Le dà quasi sollievo. Loris non ha sentito. Se ne sta semisdraiato sul bordo di sinistra del divano a tre posti. Non russa mai, solo dopo due dita di amaro che si concede nelle occasioni speciali. E non sono tante. A Natale, per esempio, a fine pranzo dopo i regali e prima della tombola. Sbuccia due mandarini, si cala il bicchiere, e poi usa le bucce per riempire le caselle, invece di buttarle nel fuoco come lei gli prega di fare. Non la ascolta mai.
Mina fa una smorfia. Che peccato che quest’anno la pasta e vongole non le è riuscita come gli altri anni. È il suo piatto forte. Lo aspettano tutti. Il burro, quel maledetto burro mancava. Doveva prenderlo Loris, era nella lista. Loris dimentica sempre qualcosa.
E stasera lui dorme. Tutta quell’attesa per capire come andava a finire, le ipotesi snocciolate a pranzo e cena, e ora l’aveva mollata da sola alla tv, a fare congetture.

Stevenson Harley, corre a grandi falcate lungo il marciapiede della 66esima nell’ora di punta, dritto ad Harlington Road, dove Vera Steiner sta facendo i bagagli per svignarsela verso l’aeroporto con un passaporto falso. Il suo cappotto scuro, si apre in due ali, falciando la folla in due. Parla con la Centrale con un walkie talkie. Dà la sua posizione.
«Chiamate rinforzi ma non sparate, ripeto non sparate». Attraversa la strada incurante dei clacson, scansa un tipo in bicicletta che lo manda al diavolo prima di cadere addosso al carretto degli hot-dog.
Harley deve sbrigarsi o la perderà. L’aveva detto a Loris, che non era la donna che sembrava, quella Vera Steiner. Gliel’aveva quasi gridato la settimana scorsa, quando Harley era andato a interrogarla a casa sua, e per la foga i gusci delle noci erano saltati dalla tazza finendo sotto il divano.
«Mister Harley».
«La disturbo?».
«Sono occupata Mister Harley, è molto tardi».
«Non le ruberò molto tempo Miss Steiner o devo ancora chiamarla Mrs. DeBurnay?».
Un’esitazione.
«Vera andrà benissimo».
Ma non sembrava così occupata, aveva solo paura che lui capisse che due notti prima, mentre suo marito Richard sonnecchiava sul divano, lei era scivolata in cantina, aveva aperto la porta da basso per fare entrare il tizio con cui se la faceva. Richard s’era svegliato ed era finito col cranio fracassato da una statuetta d’ottone. Ed è lì che stava l’inghippo, l’arma del delitto. Mina aveva capito tutto.
Richard la tradiva e Vera era così infelice che s’era innamorata di un balordo con la camicia sdrucita che lavorava in un bar malfamato: un tale Bob Kingston, di Atlanta. Il classico tizio che con duecento dollari ti ammazza il marito. Ora Vera stava gettando le sue cose alla rinfusa nella valigia e già un taxi l’aspettava di sotto, e quell’Harley non avrebbe fatto in tempo a fermarla. Troppo tardi.

Mina fissa la colonna grigia di cenere sulla coscia, una torre di un bastione fragilissimo, e sente vagamente la musica della fuga in sottofondo che va in crescendo mentre Harley varca la soglia della hall.
Pubblicità.

Non le piace quando la chiamano Nuccia. Da quando era piccola che è così. Mina, Minuccia, Nuccia. Anche a Loris l’ha detto l’anno scorso.
«Mi devi chiamare Mina, è il mio nome».
«La novità di oggi» aveva commentato lui, mordendo una fetta biscottata.
«Io mi chiamo così, e mi devi chiamare così anche tu, tutti devono farlo».
«Tu mi chiami Los».
Mina aveva fatto un salto. «Los è un bel modo di chiamarti, Loris».
«Lo è anche Nuccia».
«Questo lo decido io, non tu!».
S’era arreso, deposto le armi e finito il caffè.
«Come vuoi tu, tesoro». Lei, scontenta della resa, s’era asciugata le mani alla pezza a quadri, lanciandola nel lavandino, minacciandolo, col dito puntato, di cucinare solo fagioli per una settimana.
«Vedrai se non sarà così».
«D’accordo, vada per i fagioli» e Loris s’era rituffato tra le pagine sportive.

La tavola è ancora in disordine. Le pastiglie della lavastoviglie sono finite e tocca lavare a mano. Con quel detersivo aggressivo che le rovina le unghie. Devono proprio smetterla di chiamarla Nuccia.
Mina sta annuendo al vuoto a una platea invisibile. Loris continua a sonnecchiare, con la testa sul palmo della mano. L’altra appoggiata al ventre del telecomando.

Vera si guarda allo specchio. Piange. Lo ama. Ama Harley. E si mette il rossetto specchiandosi nella cornice di bronzo della suite al settimo piano del Reager’s Hotel di New York. Con la carta da parati a righe cremisi.

«Hai capito che ti lascio, Loris?».
Mina non è sicura di averlo detto ad alta voce la prima volta.
«Los…» lo scuote con il piede.
Sente la pelle del viso di suo marito strusciare sulla mano, gli occhi spostarsi su di lei.
«Che dici?» le risponde lui con voce impastata.
«Hai sentito, ti lascio».
Loris la guarda, con gli occhi mezzi chiusi. «Non aspetti la fine?».
«Loris…».
«Mi sono addormentato. Che è successo?».
«Tu non..».
«Tesoro, sei pallida».

Stevenson Harley è arrivato alla reception, pettinato come Robert Redford in “Come eravamo”, e senza una goccia di sudore sul viso, e dio solo sa se salendo le scale riuscirà a incrociarla nel corridoio dell’albergo in cui lei s’è registrata come Geraldine McCorney, sua madre, morta quando aveva partorito le due gemelle.

«Sto bene» risponde Mina con tono asciutto.
«Ti misuro la pressione?».
«No, Loris».
«Ti faccio una tisana?».
«No Loris. Non mi ascolti. È finita. Tra noi è finita. Ti lascio, davvero».
Loris si tira su a fatica e si mette a sedere. I capelli sparuti, elettrizzati, sembrano antenne di insetto.
«Cara, ci risiamo».
«Forse abbiamo aspettato troppo per dircelo. Ma io e te sappiamo che le cose stanno così, stiamo solo camminando uno davanti all’altro, se mi giro accanto a me non vedo nessuno».
Mina riprende fiato, schiaccia la cicca nel portacenere di vetro soffiato. È incredula. L’ha detto, l’ha fatto. Senza averci pensato un attimo. E adesso il buco si è formato. Un circoletto di niente dove prima c’era qualcosa.
«Perché non ci dormi su…».
«No, Los. Ci ho pensato. Non credere che non l’abbia fatto. Lo so che credi che sia una pazza, non lo dici ma lo pensi».
Loris scuote la testa. «Non l’ho mai pensato, stiamo insieme da quarant’anni…».
«Se mi conosci, allora sai che faccio sul serio».

Harley discute con il tipo dietro al bancone, mostra il distintivo.
«Giovanotto, c’ero prima io».
Una signora con un cagnolino barbuto in braccio cerca di farsi spazio. Harley sventola il distintivo dell’Fbi davanti agli occhi truccati di azzurro mattonella.
«Si allontani immediatamente o la arresterò per intralcio alla giustizia». La vecchia con il visone, si ritrae inorridita.
«Non metterò mai più piede in questo albergo» gracchia, e sparisce.
L’uomo con i baffi sottili e la scrima di lato, controlla su un monitor la lista degli ospiti. È molto sudato e magro, manda a chiamare il direttore.

«Ma che dici?». Loris adesso ha l’aria preoccupata. Si gratta la testa. Mina lo vede affannare e prende coraggio. Non deve cedere, non deve tornare indietro.
«Era ora di dirtelo. Mi dispiace, non c’è un momento giusto».
Lui poggia le mani sulle ginocchia.
«Me l’hai detto anche otto anni fa, dopo Venezia, per quella stupida faccenda del bar. Ti ricordi quello che mi hai detto quella notte nel corridoio?».
«E tu ricordi quello che è successo dopo? Mesi a dormire sul divano, la tua cervicale… l’hai dimenticato quanto siamo stati male tutti e due», Mina che è quasi sull’orlo delle lacrime, ci fa a pugni e le ricaccia via.
«Ma adesso stiamo bene» dice Loris calmo e fissa un punto davanti a sé, come se quella scena la proiettassero sulla tenda color crema del loro salotto che li nasconde dalla notte di gennaio. «Mi hai detto: “Loris, io dico che non possiamo buttare via tutto-tutto”».
«Otto anni fa. E c’era ancora Martina che viveva qui, non volevo turbarla, aveva gli esami all’Università, quello di Diritto che non riusciva a passare. Oh, Loris, credi che sia così egoista? La faccenda del bar non era così importante ma questa sì, lo è».
«Ma di che faccenda parli?».
Mina si alza con uno scatto. «Io ti ho perdonato Los, allora l’ho fatto».
Loris si schiarisce la voce avvicinando il pugno alla bocca.
Ecco, pensa Mina, adesso cercherà di raggirarmi, come al solito.
«Tesoro, stavo solo prendendo un bicchiere d’acqua al bar, si è avvicinata quella signora… ma io che dovevo fare, mi ha chiesto di offrirle qualcosa. Non ci ho trovato niente di male».
Mina sbatte i piedi per terra. Ma le pantofole morbide attutiscono il suono. Insoddisfatta pesta con più vigore e una fitta di dolore le sale dalla caviglia al polpaccio.
«Piantala di dire così, vi ho visti».
«Le ho offerto una birra ma sono andato via subito. Mi sembrava scortese…». Loris alza di un tono la voce. Ma a lei sembra quasi divertito e questo l’accende di rabbia.
«Non importa quello che ho visto, ma ora è finita e quella non c’entra niente».
Loris ha gli occhi, lucidi. «Quando ti sei calmata mi hai detto anche: “Loris, stiamo insieme da sempre, non potrei vivere con nessun altro al mondo. E neanche tu”. E avevi ragione. Perché ora?».
Mina non lo sa perché ora.
Non lo sa esattamente come non sa perché una mattina stava bene e il pomeriggio era sul lettino di un dottore che non aveva mai visto che le diceva di stare calma e non muoversi.

Vera Steiler sa che una donna in fuga è troppo evidente. È troppo scaltra per non pensarlo. Si cala su l’impermeabile chiaro da uomo, sceglie un cappello a larga tesa per nascondere i capelli biondi e chiede al facchino di portarle il bagaglio al taxi, allungandogli una banconota da 50 dollari. Il ragazzino basso e scuro, allarga un sorriso, le guarda le gambe lunghe affinate dai tacchi sottili e si affretta ad abbrancare le due valigie. Lei scende con l’ascensore di un piano e infila le scale per uscire dalla scala di sicurezza. Ma è malinconica perché Harley le mancherà quando sarà su una spiaggia sperduta delle Canarie. Si volta un attimo a guardare il corridoio. Sembra titubante. La notte precedente a casa, con la pioggia di fuori che bagnava il vialetto, l’aveva visto andare via sentendo una stretta al petto, perché in qualche modo Harley le era stato più vicino di tutti gli uomini della sua vita. Suo marito la tradiva, l’amante voleva i suoi soldi, Stevenson Harley voleva lei. E lei, lui. L’aveva capito quando erano stati così vicini quasi da toccarsi.

«È l’unica cosa da fare per non impazzire. Non voglio impazzire Loris, e così, succederà, forse è già successo».

Loris ha la bocca aperta, gli occhiali di sbieco. Le lenti riflettono lo sfondo del caminetto in decine di cerchi. Mina ha una stretta al cuore, lui le sembra improvvisamente sperduto e piccolo. Ristretto da stare in una mano. Un ramoscello secco che altri calpesteranno fino a distruggerlo in mille pezzi. Come farà a sopravvivere senza di lei, senza l’abitudine di ogni giorno, senza pensare di poter tornare a casa dopo una giornata al lavoro per godersi i pantaloni comodi, le pantofole, e il quiz delle nove che lei non riesce mai a indovinare. La sua vita è la sicurezza di tre cassetti chiusi e ordinati, la stessa colonia che lei gli compra in profumeria due volte l’anno, per il compleanno e l’onomastico; la battuta di buongusto, i golfini che ancora gli stanno a pennello, la gentilezza naturale, il consiglio nel taschino da servirle quando è insicura, sbagliata, istintiva, quando ha la sensazione che il tempo ha cominciato a scappare, sfilandogli la vita da sotto i piedi troppo in fretta. Mina capisce che adesso è lei quel ramoscello adesso, quello che altri pesteranno indifferenti, perché non ha ordine, né ragione, non sa mai dove andare, si perde così tanto spesso da credere che sia normale. Lui l’ha sempre protetta, ma adesso è sola.
«Che farai, Mina?».

«Dove credi di andare?». Il toc del caricatore. «Non costringermi a farlo, Vera».
Vera Steiner si ferma a un passo dalla portiera del taxi. Ha la sua piccola automatica nascosta nella tasca davanti della giacca a due bottoni. Potrebbe prenderla, voltarsi e fare fuoco, e lui non avrebbe il tempo di rendersene conto.
«Voltati molto lentamente, ti prego, è finita. Prometto che non ti accadrà niente, ma tu devi venire con me, adesso» le dice Harley e la sua voce non ha esitazioni.
Il tassista, sullo sfondo ha le mani alzate, un berretto da baseball sulla testa, fugge spaventato pregando di non ammazzarlo.
«Non lo farò Harley, lo sai anche tu». Lei gli dà ancora le spalle.
«Tu non sai niente di me, Vera. Non fare qualcosa di cui ti pentirai».
Primo piano di lei. Piange. Sta prendendo la sua decisione.
«Io so soltanto che abbiamo perso un’occasione Harley. So che dovevamo incontrarci prima e che certe cose sono crudeli perché ti lasciano con il dubbio che potevi essere migliore, felice».
Stevenson Harley esita, abbassa un poco l’arma.
«Vera, ascoltami…» e ora il suo tono è più dolce. Lui è triste. Lo sono entrambi. Ma sono due tristezze diverse, ciascuna ha il suo peso.
«Harley…».

«Mina».
Mina fa due passi verso il tavolino da caffè. È ancora solida, le gambe la reggono, le pareti della stanza sono ancora lì, il vaso, la libreria di legno finita due anni fa dopo tutta quella faccenda del falegname e delle cerniere non a misura, la consolle di noce della mamma con le fotografie, protette dalle cornici d’argento, della laurea di Martina, del Natale in montagna appena sposati, i trent’anni di matrimonio nella sala al mare in quel giorno che pioveva che dio la mandava.
Di là i piatti sporchi sono ancora in tavola. E per terra ci sono le briciole del pane integrale tagliato a cena per essere grigliato.

«Oh Harley».
Vera Steiner si volta, in pugno la rivoltella argentata.

«Mina… ti prego».

Un colpo secco.
Un fiore rosso sboccia sulla sua camicetta di seta.
«Vera!».
Stevenson Harley le ha sparato per primo e ora accorre verso di lei.
«È innocente Loris, Vera è innocente, è stata sua sorella Megan».

Loris è anche lui in piedi. Il pigiama sembra gli sia colato addosso. Le braccia lungo i fianchi. Una mano stringe ancora il telecomando. Meccanicamente si gira verso lo schermo.
«Sua sorella?».
«Sua sorella gemella, Loris. Era innamorata di Richard, avevano una relazione segreta, ma lui non voleva divorziare. E lei gliel’ha fatta pagare, l’ha fatta pagare a tutti e due. Vera è stata incastrata e ora è morta».
Loris aggrotta le sopracciglia, confuso.
«Ma come…».
«Loris, ascoltami». Lui si volta a guardarla col capo reclinato. È così inerme che lei potrebbe ucciderlo soffiandoci sopra.
«Ora vado in cucina e sistemo tutto, spazzo per terra e metto anche la lavatrice perché non hai più calzini».
«D’accordo, cara…» sussurra lentamente.

Harley la tiene tra le braccia. Piange sommessamente.
«Perché l’hai fatto, perché…» e guarda verso il cielo.
Vera apre gli occhi. «Harley…».
«Vera! Mio Dio!».

«Mettiti al letto. Domani sarà tutto dimenticato. La statuetta d’ottone. Da lì che ho capito, era un regalo di Megan».
Loris alza una mano, indica un punto vago, verso di lei.
«Ma tu hai detto che mi vuoi…».
«Non importa quello che ho detto. Vai a riposare, dormire sul divano non ti fa bene. Ti faccio una tisana e te la porto. Mi hanno portato i fiori secchi della contadina, sono un toccasana anche per la digestione. Va bene?».
«Va bene, sua sorella dici…».
«Megan, sì. Con la statuetta. Era un regalo della madre. Domani ti spiego. Buonanotte».
Loris scrolla il capo. «Buonanotte, Nuccia».
«Oh Loris…no, no! Ti avevo detto di non farlo più».

Parte il colpo. Dritto al petto. Uno solo. L’aria si spacca nel mezzo e si macchia di bruciato. Lei, lo guarda accasciarsi mentre un filo di fumo fugge dalla canna della pistola e si dirama in decine di direzioni prima di svanire. Non prova rimorso. La resa dei conti, sissignora. Era ora.

Alessia Principe Dopocena delitto interno notte letteratura Racconti


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