Fondazione mitica del Capo delle Volte ovvero Kafka nel garage
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 17/07/2020 7 Comments 29 min read
Iperyque Previous Il palo Next

Testo: Silvia Tebaldi
Copertina: Maiola – Andrea Herman

1.

Ferrara, luglio 1973. Ho undici anni. Ho un balcone, una stanza tutta per me. La casa vecchia, la casa con l’orto e i gatti, quella è persa per sempre. Il primo ottobre andrò in prima media; ho genitori e nonni e una sorella di dieci anni, i gatti non più. Palleggio sullo stesso mattone per ore, nel cortile, davanti al garage: prendo la mira, palleggio. Il mattone, le ore. Il mattone è scheggiato in alto a destra, scheggiato a forma di candeliere, tre candele o doppia vu. Ore.
Dunque lo ho saputo ieri, da Anna, qui in cortile, come sono le scuole medie: ci sono le prime sezioni con i prof di ruolo, classi di maschi e classi di femmine, i ragazzi delle buone famiglie e poi i figli di chi va a far la coda all’alba, in segreteria, il giorno dell’iscrizione. E poi ci sono le ultime sezioni, quelle che a differenza dalle prime sono miste, e fin qui niente male, ma con i supplenti e i ripetenti, e insomma un porto di mare, dice.
E papà e mamma a piatire all’alba in segreteria. Palla, mattone, vu doppia, palla. No che non ce li vedo. E i miei bei voti, la bicicletta nel cortile, palla e vu doppia e le ore qui, a palleggiare in cortile.

Ho undici anni, all’esame di quinta elementare ho avuto dei bei voti, anzi, ho sempre avuto dei bei voti e faccio dei bei disegni. Sul rapporto tra sesso e potere potrei scrivere un saggio, tenere un master, un corso alla Sorbona, se solo avessi le parole. Ma a undici anni, le parole non le hai. E non è bene saperne così tanto, a undici anni – no, non è bene per niente, ma questo a undici anni non lo sai.
E papà e mamma in coda all’alba fuori dalla scuola per le sezioni A, C, G, questo non lo so, questo credo di no – ma i vestiti giusti, le buone compagnie, la settimana bianca, questo lo so ed è no. Palla, palla e mattone, ho undici anni e balbetto, i miei bei voti, i miei disegni, il mio balbettare, i ripetenti, i miei sandali di corda, di gomma, mattone. O dentro o fuori. Questo lo sai, a undici anni.

E so che c’è una sezione di tedesco, alle medie. Anzi due, una di maschi una di femmine. Che ora mi sembra un posto sicuro, la sezione di tedesco. Palla e mattone, lo stesso gesto, lo stesso rimbalzare di camera d’aria, di gomma, di vuoto per ore. Un posto che mica per il tedesco – che ne so del tedesco, io, ho undici anni – ma perché a studiare tedesco, a Ferrara, solo in quella sezione lì. Gente magari come me, che non sa bene dove stare. Gente che la raduna lì il tedesco, non la settimana bianca. Questo penso nel luglio 1973, sotto un sole che strina, ho undici anni e balbetto, inciampo nella lingua e nelle parole, palleggio, che sarà mai il tedesco, questo penso l’estate del 1973, quella in cui mi iscrivono alle medie.

Cara bambina,
non volevo lasciarti ma dovevo proprio andar via, partire.
Non darti pensiero per me: sto bene, ti tengo nel pensiero.
Adesso sono in viaggio.
Questo era il principio. Lo ricordo più o meno, ma l’inizio sì – Liebes Mädchen, così era scritto, e
partire.

2.

Immagina una città, il luogo in cui accedemmo alla scrittura. La sua forma, le vie, le strade come scritte sulla terra.
Immagina i nostri passi che tracciano percorsi, formano vie, cancellano tracciati. Sai l’inverno, i passi nella neve. Sai l’aver quindici anni, anzi compierli proprio domani, compierli nell’inverno, quindici anni.
Sai l’inverno, sai la belva in letargo. Io, Ida Falco, quindici anni domani, la belva e la preda.
Immagina i miei quindici anni in via Mazzini, via Mazzini o dei Sabbioni e il Saraceno e la rete delle vie del ghetto, il punto esatto e preciso e invisibile che unisce la via di casa e il centro, il cuore, il vuoto. Un punto che è un segno ed è un dolore – già nel nome, via Terranuova già Porte serrate. Bei palazzi e portoni, il Rinascimento e il Barocco, ma ecco i cardini delle porte di quello che fu il ghetto, qui il nome, qui il marchio dell’infamia, porte serrate.
Dieci gennaio 1977, quindici anni domani e un eskimo verde militare comprato al mercato del lunedì e non so nulla delle piazze del ’77, nulla del tempo che verrà, della piazza come un grido – delle porte serrate invece sì. Tutto è già accaduto e deve ancora accadere e io sono qui, alle porte invisibili del ghetto, nel centro di Ferrara con i piedi nella neve e i soldi delle paghette, del regalo di Natale, qui innanzi alla cartoleria e libreria con i piedi sull’ondale della porta e il cielo si è fatto limpido oltre la piazza e viene sera, cremisi e blu sul bianco sporco verso nordovest e siamo neve pestata e io, Ida Falco, e il tumulto.
Io sono quella che fugge, che non dice, io non sono come mia sorella Chiara che ride, che piange, che ha amiche e ragazzi nel suo ridere e nel suo pianto. Io non sono innamorata. Io sono quella che ha smontato mille volte il meccanismo dell’angoscia, un ottico, un orologiaio dell’angoscia, io con i voti a posto e io che sto impazzendo, io con un dottorato ombra già a undici anni e ora che non balbetto più ripeto i verbi forti tedeschi come bieten bat geboten oppure binden band gebunden mentre smonto e rimonto mille volte il meccanismo, palla palleggio e doppia vu, e adesso mi serve un rompicapo. Per non precipitare, per durare a vivere. Mi serve un gioco della mente, un dizionario di tedesco vero.
Mica per diventare una germanista, una linguista, un’esperta. Ma perché quella lingua rompicapo, che appiccica le parole, quel latino glutinoso è un meccanismo, è la palla, è il mattone. Non potrò volar via, con un tomo pesante nello zaino – fliegen flog geflogen.

Vieni oltre, mi dice. Vieni oltre, che cerco in magazzino. Ha un camice grigio scuro e capelli grigi, corti, tirati dietro le orecchie, occhi nerissimi. Avrà sessant’anni, settanta, che ne so. Maglione nero a collo alto, camice grigio. Mi accoglie come se mi conoscesse, la cartoleria piena di cassetti, vetrine sul bancone, libri tecnici e di scuola e fuori il brusio della città e qui buste e quaderni, legno color tabacco e color cannella ed eccola che torna, la cartolaia, la libraia. Ha un involto di carta azzurra, carta opaca, carta che ancora non lo so, ma userò per disegnarci sopra e poi cercherò e ritroverò, e poi non troverò più e rimpiangerò per sempre.
Ecco, dice. Ecco porta via. Le brillano gli occhi. Risparmia i tuoi soldi, questo qui non lo vendiamo, dice – questo è mio. Va bene per quella lingua e per te, dice, per quello spaccatesta di una lingua. Ha l’erre moscia e parla lento, preciso, senza accento. Spendile in allegria le tue paghette, dice.
Ecco.
Prima c’è stato un grazie che era quasi un posso abbracciarla ma era un grazie, solo un grazie rosso; poi la strada di casa, porte serrate terranuova giovecca che è già sera e poi l’involto di carta azzurra aperto appena dietro il portone di casa. Kluge Etymologisches Wörterbuch – anno 1960, sovraccoperta verde petrolio e bordeaux – e quel rompicapo di una lingua, e quasi un tremare della voce.

Sì che mi manchi, te lo dico prima io.
Qui c’è un mondo nuovo, cara bambina.
Ricordo che diceva della paura. E poi viaggiare nella propria stanza, diceva.

3.

Ferrara, 21 giugno 1985. Mia terza metamorfosi. Il tramonto si straccia sugli spalti, sulle torri, come un drappo lasciato appeso a scolorire; è il giorno che non finisce più. È la notte che non farà notte, che passeremo a guardare la notte, ad aspettare l’alba sull’argine destro del Po o in una terrazza o in una casa vuota. Stanotte cioè Giuseppe e io, ma ancora io non lo so.
Torno dalla stazione, vado verso casa ma a casa non andrò. Ancora non lo so, ma presto telefonerò a mia mamma da una cabina sulla via Granda e le dirò che son rimasta a Bologna da Alessandra, che l’esame trenta e lode, ma è finito tardissimo e torno domani. Perché una notte a Po, o in una casa vuota, non è cosa da dire a casa mia.
Trenta e lode lo ho preso davvero, è filologia due, studio a Bologna e vado avanti e indietro in treno, se non per qualche amica che mi ospita. Niente tedesco, però. Ora sono le lingue romanze, il latino dei sopravvissuti, il latino volgare di noi quaggiù nei paesi, nelle contrade, è il solstizio d’estate e io sono qui, dove correva il Po fino all’anno mille, uno va incontro all’altra verso le ore diciannove, ci siamo detti Giuseppe e io. Lui è uno dei miei più cari amici e ancora non stiamo assieme ma oggi è il solstizio d’estate e insomma la strada è questa, via Ripagrande, via Granda che fu ripa del Po, via delle Volte che fu Ferrara prima di Ferrara, le sue file di fondachi e botteghe, borgo fortificato, porto fluviale. E vie intessute a riviera, dossi emergenti dalle acque. E brusio, grida e passi.

E carrugi senza il mare.

Tutto qui, mentre cammino verso il centro e il mio amico Giuseppe che abita da queste parti cammina verso di me, almeno spero, perché ancora non lo vedo, vedo invece il ritmo dei comparti e delle vie che li tagliano, vedo case come castelli e casseri, torri, campielli e bucature tra le case. E vedo luce e tumulto, acqua, arenaria e vicoli.
Argine, ripa, bordo.
Ecco la via che stiamo tracciando, Giuseppe in una distanza che si accorcia, che si avvicina, che viene verso di me, jeans e maglietta blu, il mio migliore amico fino a stanotte, ma in realtà non gli sto andando incontro, in questa sera di Rinascimento e fulgore e rari passanti in bicicletta, non gli sto andando incontro in questo piano sequenza che disegna il tempo con la luce, è che mi sono fermata, mi ha fermata la cartolaia, la libraia, la donna che mi regalò il vocabolario. Ha gli stessi capelli grigi, lo stesso grigio di allora, è scesa dalla bicicletta e mi saluta.

Ci son tornata diverse volte, da allora, in cartoleria. Non sempre c’era lei. A volte c’era il vecchio e a volte sua moglie. Ma quando c’era lei, la donna dai capelli grigi, lei mi riconosceva sempre e a volte si sbagliava e mi dava un quaderno in più, quaderni con la copertina ruvida, grigia, senza marca né tempo. E ora mi riconosce e mi dice vieni in cartoleria, ci sono sempre io di pomeriggio, ci sono sempre io fino a tutto luglio, ed è così tranquilla mentre mi parla e intanto si allarga il cielo si allarga il mondo, si stende come un nastro innanzi a noi tra i sassi interrati, le parietarie, le cicche e le cacche sulla via, sul Capo delle Volte che fu il camminamento tra la ripa del Po e le botteghe e i fondachi e prima ancora le case dei soldati all’alba della città, si allarga il mondo perché qui e ora, nella luce solstiziale del sesto secolo dell’era volgare, del Rinascimento estense, dell’anno di grazia 1985, nel principio di quella che ancora non so che sarà l’Estate, nell’incipit della sera che sarà la notte mentre parlo con una donna che avrà sessantacinque, settanta, forse settantun anni e di cui ignoro il nome e che mi dice di qualcuno che i miei tratti le ricordano, proprio allora ecco Giuseppe e non saprò mai chi fosse quel qualcuno, perché la donna dai capelli grigi anche lui conosce, sono vicini di casa, dice, e va bene che siamo a Ferrara e tutti ci conosciamo e quanti amici comuni abbiamo, io e questo ragazzo con cui ancora non lo so ma sarà la notte, sarà l’Estate, e va bene tutto ma qui, nella luce iperreale del solstizio, di questo sole di mezzanotte che sarà stanotte, di questa notte senza notte che ancora non so, come l’eclisse come la cometa, con i soldati del castrum bizantino, con gli intendenti del duca d’Este e le lavandaie del Po di Volano e i mercanti di stoffe del ghetto e i partigiani nei vicoli e i figuranti del Palio e il ragazzo con cui starò stanotte e la donna dai capelli grigi che ci conosce entrambi, ecco, va bene tutto – eppure che emozione, eppure che slargo nel cuore.

4.

E la mia terza metamorfosi, e il solstizio d’estate, e la luce del giorno lungo ed eccomi qui, tre mesi dopo, 23 settembre 1985. L’estate che è passata è stata l’Estate. Ricominciano le scuole, Ferrara entra nell’autunno che è oro vecchio di platani e di pioppi e il feroce laboratorio sociale degli anni ’80, che consuma l’ombra e la luce e la ricchezza del paese e noi. E io sono qui, in una casa mezza vuota.
Ho scorte di cibo e un paniere con carrucola sul balcone, mia mamma e la Stefania mi portano verdura, fette di torta, io sul balcone fingo di aver fame e dico grazie. Ho preso una pastiglia radioattiva e devo star sola, sola per giorni, per non far male a nessuno.

Questo balcone dà su un cortile chiuso, tra le Volte dove fu il nascere di Ferrara e le vie dei soldati e la piazzetta Colomba che è quasi un campiello veneziano, un abside e un catino. Il monolocale sfitto e quasi vuoto è della zia della Stefi, la Stefi è la mia amica più cara, io invece devo farcela e basta. Con Giuseppe è durata un’estate e non è andata bene (e invece sì, che è andata bene, ma ancora non lo so. Ci saranno chilometri e chilometri, ma saremo amici per tutta la vita); del mio corpo so poco, ora, so la sua forza testarda nel poco sonno, so il voler guarire. Vedrei la casa di Giuseppe, se solo questo balcone guardasse a sud, dove la luce si ostina sullo slargo misericordioso tra la nebbia e le vie, invece guarda dentro, dentro il cortile.
Studio un po’ al mattino, poi perdo la forza. Ma ho un compito; per anni e anni non lo capirò, ma so che è un compito.

Prima della diagnosi ero andata dalla cartolaia, quella del vocabolario. Finito tutto, esami e quaderni, restava solo la tesi e chi si immaginava. Ero là, nell’imbuto di luce che fu il ghetto, poi dentro la bottega e lei mi dice te ne regalo un po’, dei quaderni grigi. Che ormai non vanno più. Te ne regalo, per te e per il tuo ragazzo.
Io le volevo dire che non lo so, se è il mio ragazzo, ma sono stata zitta e lei è andata in magazzino – per tutta la vita ci penserò a quel magazzino, al suo durare e restare, in quell’imbuto di luce – e mi porta un involto di tela, un colore azzurro spento, quasi una garza, dentro ci sono dieci quaderni grigi e uno nero, un po’ più grande, con la copertina rigida.
Ti chiedo di copiarlo due o tre volte, questo testo. Così mi ha detto, con quella voce ferma e chiara. È in tedesco e tu lo sai; così mi ha detto e indicava il quaderno nero ma senza aprirlo, senza toccarlo, solo aprendo le dita. Copialo su tre di questi, uno me lo riporti con l’originale, uno lo tieni, uno lo dai a chi ti fidi.
Quante pagine sono?, le ho chiesto. Non so perché, ma non avevo altre domande. E lei mi ha risposto così calma, così semplice, che le pagine scritte son tre per sette ventuno, ventidue, tre settimane.
Va bene, le ho detto. Allora riesco anche quattro copie.
Così vi restano tre quaderni ciascuno, a te e al tuo ragazzo, ha detto lei.
Mi sembrava tutto così semplice, con questa donna grigia, le ho scritto su un foglietto il mio nome e indirizzo non perché me lo chiedesse, perché volevo che si fidasse di me, lei mi dava un originale di non so cosa da portar via e infine mi ha detto Bene, Ida Falco, tu somigli a qualcuno che conoscevo. Riportami i quaderni qui in bottega, mi ha detto.

E quindi mi siedo a questo tavolo che ha il piano di granito quasi bianco, opaco, un po’ rotto in un angolo. Lo ho spostato verso la porta del balcone, verso la luce equinoziale e scrivo. Copio da un quaderno nero a un quaderno grigio. Questa scrittura insieme aguzza e quieta, spinta a destra, la umlaut è un trattino orizzontale, secco, imperfetto. Copio la stessa pagina su ognuno dei quaderni grigi. Poi la pagina successiva. Scrivo, poi dormo, poi resto ferma nel buio. Fuori la fondazione mitica della città e le officine delle Volte, Ripagrande, Piangipane, borgo emergente dall’acqua, fuori piazzaforte palude e mura: qui, ogni pagina inizia con Liebes Mädchen, sono lettere. Sono ventidue lettere. Ora che ho tempo e se non ora quando, ora che non balbetto più, ora palleggio e copio e doppio vu – e ora, qui e ora in questa casa radioattiva e mezzo vuota la scrittura scende come pioggia, come neve, come il grattare lieve della punta, come l’inchiostro e i segni e cosa so del mondo, cosa so del mio corpo – so solo che se non ora quando, solo che la scrittura è luce.

Scrivi e riposa.
Sembra un ossimoro ma no, non lo è.
Questa frase sì che me la ricordo: era scritta tra parentesi, più che parentesi erano due serpentelli marini, due bastoncelli ondulati. Ossimoro, contraddizione, Widerspruch.
Avrei dovuto capire, avrei dovuto.

5.

E rieccomi qui. A Ferrara, trenta e passa anni dopo. Io, Ida Falco, nella casa vuota di mio padre e mia madre.
Vuota si fa per dire.
Sono stata qui con loro per mesi, avevano entrambi novant’anni e sono morti a distanza di otto giorni l’una dall’altro. Son tornata a casa mia dopo le esequie, dopo la burocrazia, dopo lo strazio – sto a seicento chilometri da qui e ho il curriculum che abbiamo tutti, lacerazioni e addii, divorzi, ferite, cose andate bene e cose lasciate fermentare o buttate via. E ora torno qui dove ero attonita, dove ero braccia e mani e voce e dove ero segretaria della morte, torno qui nel bailamme, nel marasma, nella piena di cianfrusaglie e di memoria. Le carte da conservare, le cose da regalare, vestiti e piatti da dar via, la casa da vuotare. Chiara non tornerà.

Immagina una città, il luogo in cui accedemmo alla scrittura. All’oltranza, al teatro, e poi alla fatica o alla follia.
Ho appena aperto la sacca e già guardo fuori, sei ottobre, la luce d’oro vecchio e l’orto degli Ebrei, la piazza nuova poi detta Ariostea, la strada che porta al mare, la roba lasciata qui dopo le esequie, dopo la burocrazia dello strazio. No, non ce la faccio a stare qui. La passeggiata improvvisa, mi viene in mente – il primo racconto letto in tedesco, letto da inizio a fine in uno stupore, in uno spavento, in una gioia – uscire di qui, fare un giro, il primo racconto di Kafka, che poi sei a casa tua per sempre.

Ho portato fuori di qui la mia stanchezza, la mia orfanezza, il mio sollievo. Ho camminato per tre ore e adesso è buio, mi chiudo in casa con pane e mortadella, tre mele e una Moretti da 66.
La bicicletta aveva le gomme a terra, ho chiuso il garage e l’ho portata a riparare e poi tre ore in giro, via, via da casa, via dal garage. La mattonella scheggiata è ancora là – doppia vu, shin ebraica, candeliere o tre dita aperte – e dentro il garage la moltitudine, la frana delle carte di mio babbo, tazze stoviglie e scatole portate qui per fretta, per spazio in casa, spazzate via dalla piena, dall’era della prima badante e poi della seconda e della terza, il bailamme dei libri salvati e di quelli andati a pezzi, qui, nelle cantine dell’orfanezza e della polvere, dove Bassani e Kafka si incontrano tra vecchie insalatiere e cartoline dal Garda. Il ripostiglio della vecchiaia, del non gettar via nulla, dell’emergenza, delle aspirine scadute, dell’addizione erculea dello strazio.

E poi le strade strette, l’oro vecchio, i vuoti tra i mattoni – case come torri. Torno sempre là, da un capo all’altro delle mura, in via Volte, i due tronchi interrotti e i suoi tre nomi, i suoi tredici volti, le quattro lune di Giove, sempre, quando sono sfinita. Anche a seicento chilometri da qui, con la mente ci torno. E a un certo punto mi son fermata, pensavo all’essere o non essere delle mura alberate, delle mura atterrate, e a cosa mangiare stasera e dalla via Granda arrivava Giuseppe, con un cane ispido e festoso, nero, lui invece era come l’ho visto nel marasma, in Certosa, alle esequie di mia madre.

Giuseppe con lo sguardo di allora, del 1985, a parte gli occhiali d’oro e con il curriculum che avrà anche lui scheggiato e gonfio, come me, come tutti. Ci siamo messi a parlare, indica il muro di cinta di un giardino, del suo giardino, abita ancora là – ci sono stata anche io, in quel giardino, nella remota estate dell’85 – adesso che hanno i nipoti ha ingrandito casa, ha comprato due stanze lì vicino, e via a parlare che si faceva tardi e adesso eccomi qui, a casa dei miei, nel bailamme, a cenare con un panino e poi dormo, la notte è così strana a Ferrara. Domani inizio a rivoltare la casa, ho preso ferie apposta, ho fatto seicento chilometri apposta, e Chiara non tornerà.

Ed ecco.
All’improvviso.

Metà della Moretti ancora in frigo, finito il panino, sbucciata una mela. Buio.
Buio improvviso dappertutto.
Buio pesto.
Accendo la torcia del telefono, avanzo in cucina fino alla finestra, guardo fuori, buio in Porta Mare e ovunque. Il blackout a Ferrara, solo pensare alle parole blackout e Ferrara nella stessa frase mi mette i brividi. E adesso. La coperta in testa, il letto che fu il mio letto a undici anni, a vent’anni, letto da figlia che dorme altrove e non dice con chi, da figlia che studia fuori, che se ne va, letto della prima e della seconda e della terza badante e del ritorno della prima figlia, quella che sono stata, quella che era mani e occhi e schiena e piedi nello strazio. E ora ci mancava solo il blackout, ora il buio.
E il pensiero improvviso, che illumina la notte. Che la rovescia dentro se stessa.
Ora il pensiero.
E posso star qui al buio, senza paura, senza balbuzie, senza verbi irregolari da ripetere, senza pensare alla mezza Moretti che va scaldandosi nel frigo spento e vuoto. Ne ho passate, io, delle ore nel buio.

Mi diceva Giuseppe che sua figlia ha avuto il bambino e ora sta nella casetta là dietro, dove un tempo stava la cartolaia, te la ricordi la cartolaia, Ida? È morta a quasi cent’anni che era ancora in testa, se la cavava da sola quasi fino alla fine, Ida, stava da sola e della sua vita so poco ma so che aveva un nome tedesco, era un personaggione a modo suo, quando le portavamo la spesa Rita e io – la spesa, la cena verso la fine – lei ci diceva nel baule, gli spicci nel cassetto di cucina ma nel baule le lettere di Kafka, diceva. La sua casa così precisa, così pulita, Ida. Le lettere di Kafka nel baule.

Franz Kafka a Berlino, negli ultimi mesi della sua vita: a Berlino con Dora Dymant, finalmente via da Praga, finalmente felice – malgrado la malattia, le difficoltà economiche, l’inflazione che riempie le strade di affamati in coda davanti alle botteghe, il terribile inverno del 1923. Felice malgrado tutto questo, felice malgrado il dolore Franz Kafka vive in due stanze con Dora Dymant, che ha la metà dei suoi anni, che gli legge il Talmud, che sta con lui fino all’ultimo.
Dora e Franz che camminano nel parco di Steglitz, una bambina che piange, dove è la sua bambola, l’ha perduta. No che non l’hai perduta, dice Franz: è partita, lo so, mi ha scritto una lettera. Ce la hai qui?, chiede la bambina dubbiosa. No, è a casa mia, risponde lui. Domani te la leggo, te la porto.

E ogni giorno Kafka scrive una lettera per conto della bambola, che rassicura la bambina sul suo affetto e le manda a dire che è partita, che doveva cambiare aria, che viaggia, che cresce, che va a scuola e conosce gente nuova. E ogni giorno, nel parco, Kafka legge la lettera alla bambina, che ormai ad aver perso la bambola non pensa più, tutta presa dalla storia finché, dopo tre settimane, la bambola le scrive che si sposa e che ora la deve salutare e descrive il fidanzato, la casa nuova, i preparativi delle nozze.
Questo racconta Dora Dymant nelle sue memorie, uscite attorno al 1948 in Inghilterra, dove morirà pochi anni dopo. Non cerco il dato esatto, ora; non cerco dettagli né conferme, c’è il blackout e la carica del telefono mi serve tutta. So questa cosa e mi basta. E so che malgrado diversi appelli sui quotidiani berlinesi, né della bambina né delle lettere si è mai saputo nulla – la guerra, il tempo, lo strazio le hanno inghiottite e questo so, questo mi basta ora.
Non so invece chi fosse la cartolaia, non so il suo nome, come non so cosa fossero le ventidue lettere con Liebes Mädchen all’inizio e Deine P. alla fine (deine Puppe, deine Paula?) che ho trascritto nell’estate del 1985, con una pastiglia radioattiva in corpo, in una casa vuota in via della Concia. Se siano le lettere kafkiane della bambola, se possano reggere a una pur minima prova storica, o filologica, o che altro. Ma quello che so di certo – con una certezza bruciante in questo buio, in questo vuoto abissale, in questo imbuto che è la notte qui e ora, nella casa dei miei genitori, a Ferrara – è che io ero appena guarita e due quaderni grigi copiati li portai alla cartolaia assieme al quaderno nero e lei mi ringraziò e io le risposi ma è stato un piacere, anzi, se non ora quando, ma senza dirle della malattia, dell’isolamento, del mio brusco guarire; mentre i quaderni non scritti li ho dati tutti a Giuseppe, subito dopo; e nient’altro avevo più da dargli, niente. E dei due quaderni copiati che mi restavano, uno lo diedi alla Stefi e l’altro era qui, nella mia stanza, e ora non so dove sia ma sono certa che io, mai e poi mai, in tanti anni non lo ho mai gettato. Non lo avevo riletto ma ricordo che aveva un cerchio scuro in copertina, la traccia di una tazza di caffè. E aspetto l’alba, o il sonno, e la scrittura come luce aspetto.

È stato così.
Mi sveglio in una nebbia fulgida, in una luce creaturale, nel gran bailamme e metto in carica il telefono (sì, la luce elettrica ora c’è) mi lavo mi vesto scendo in cortile di volata, come se avessi undici anni: nemmeno lo guardo, il mattone scheggiato, e la palla non c’è più da secoli. Dentro il garage, dietro la porta di ferro, rovisto in cerca del quaderno grigio tra libri e stampe Cibachrome, vecchi referti, bollette e scatole, tra lastre radiografiche e cartelle. Cerco un quaderno grigio, con la costola telata grigioblu, mi pare, e un cerchio brunastro in copertina. Altro che ago nel pagliaio – trovo ricettari Knorr, trovo Alberto Moravia, trovo Abbagnano e Thomas Mann. Trovo bollette, cartoline da Brunico, lettere a mio padre e a mia madre, minute di disastri; una polifonia di voci, di polvere, di addii; e i quaderni di Chiara e miei di scuola, e un Aleph stranito trovo, qui dove Kafka e Bassani finalmente si incontrano, su uno scaffale di metallo, tra carte mai buttate e fotocopie. Ma un quaderno sottile, grigio, con dentro ventidue lettere scritte come in trance – quello no, non lo trovo.

Ho mollato tutto e sono andata al bar, a fare colazione e poi eccomi di nuovo qui in garage. E’ assurdo, mi rimetto a cercare, con tutto quel che ho da fare e le ferie prese apposta e la scelta, la selezione, lo scarto archivistico e lo sgombero. Ora smetto, mi dico. Sì, ma le lettere kafkiane della bambola, scritte a Berlino nel 1924 e mai ricomparse – o almeno una loro vaga, più o meno remota trascrizione – le ventidue lettere che copiai quattro volte, senza sapere nulla, in una casa radioattiva tra il Capo delle Volte e via Concia e portai qui, nella casa di mio padre e da mia madre, certo che devo trovarle e chi se non io, Ida Falco?, e se non ora, quando? E mi vien quasi da ridere, da anni non ridevo in questa casa.
Mi passo una mano sulla fronte, scotta, se fumassi uscirei a sedermi sul muretto, tra i gerani, a rollarmi una paglia; ma Ida Falco non fuma, non balbetta più, non si arrende.

E riprendo a cercare ed ecco, un solo istante.
Come se fosse tutto vuoto.
Il garage, la cantina, tutta la mia orfanezza, gli anni. La letteratura che ci fotte, che ci tira al fondo, le storie di sentimenti e corna e fragilità e famiglie, di editoria e individui – tutto via, tutto vuoto.
Ecco.
In una pila instabile di libri, ecco il dorso bordeaux del Kluge Etymologisches Wörterbuch. C’ero passata anche prima, ma senza vederlo. Sono quasi in ginocchio tra le carte, ora, e lo estraggo dal mucchio con cautela.
Dentro c’è una foglia cinerea, di pioppa, e due quaderni sottili e grigi.
Uno ha un cerchio nerastro in copertina.
Erano proprio dove dovevano essere – misericordia del caos, erano proprio al loro posto.
Ma non li tocco.

Mi sono alzata adagio. Sono uscita in cortile, in questa nebbia che si dirada, porto come un vassoio il dizionario, i quaderni chiusi dentro, ho fatto un gran respiro e non mi siedo sul muretto, no, resto in piedi sulla piastrella scheggiata. E solo allora apro i due quaderni.

Uno è vuoto, mai scritto, ancora nuovo.
L’altro ha un anello scuro in copertina, è lui, quello copiato a mano nel settembre dell’85, nel fondo della fondazione mitica della città, è quello delle ventidue lettere.
Guardo dentro, nel vuoto apparente.
È proprio lui.
Ma la scrittura, tutto l’inchiostro e le parole e i segni – le lettere, insomma – tutto questo è sparito, stinto per sempre in una nebbia creaturale, arreso alla miseria del pigmento, dell’inchiostro e del tempo. Solo un’onda sottile e impercettibile e tutto il segno perduto, più niente, più niente.

Bassani Dora Dymant Ferrara Fondazione mitica del Capo delle Volte ovvero Kafka nel garage Kafka metamorfosi Silvia Tebaldi


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  1. Vita… come pagine di quel quaderno che non contiene più parole, ma onde di inchiostro fuse fra di loro… grazie… io leggo pochissimo, ma oggi non ho alzato gli occhi né chiuso il cuore
    Ro ‘

  2. Grazie ad Ida  per le antiche strade, per i vecchi muri memori di pallonate stampate sui mattoni e di graffiti fatti coi chiodi. Come una shin ebraica.
    Vecchie pietre e parole perdute saranno lì per sempre.
    E per favore, telefona alla Stefi, forse un quaderno grigio ce l’ha ancora .
    Grazie signora Tebaldi

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