Testo: Antonio Francesco Perozzi
Copertina: Che fare? – Antimonio
– …ssiamo dunque chiamarlo romanico pugliese.
Scossi il braccio e poi me ne accorsi. Cazzo. Rimasi a fissare la bocca del professore: mi sembrava si muovesse a rallenty. Richiusi la mia, che era spalancata. Inspirai. Cazzo. Davvero m’ero addormentato?
– Lo distinguiamo dal romanico in genere perché ha delle sue caratteristiche proprie, che…
Vicino a me c’erano tre sedie vuote, per fortuna. Addrizzai il colletto della camicia e cancellai un po’ di saliva sul mento con il dorso della mano. Poi con finta disinvoltura mi guardai attorno. Davanti a me la gobba di una ragazza, il suo braccio agitato e i capelli castani che le scendevano a intermittenza sul quaderno. Accanto a lei una sua amica – credo – guardava Bottini e annuiva, annuiva. Sbirciai anche dietro: la faccia di un ragazzo che qualche volta avevo incrociato in corridoio, con le sopracciglia attaccate e brufoli sulle tempie. Mi lanciò uno sguardo veloce; soffocò il riso in un pugno, poi con lo stesso continuò a prendere appunti.
– Bisogna considerare, naturalmente, l’influenza di altre…
Cercai di concentrarmi sulla lezione. Stesi il foglio. Respirai con calma ed ebbi la sensazione che tutto ciò che avevo intorno si spiegasse come la carta a quadretti: il finto massello solido del banco, le penne e gli evidenziatori addosso alla costola del quaderno, la sedia pieghevole che mi tagliava metà coscia. Poi anche i posti vuoti alla sinistra, una parete piatta e maculata in basso da impronte a carrarmato, il soffitto alto con le lampade incassate, una trentina di corpi tutti più o meno piegati in avanti e con una mano che regolarmente andava da sinistra a destra, a capo, da sinistra a destra, a capo.
– I bizantini soprattutto, ma certamente anche i normanni…
E Bottini, certo. Il prof. Bottini, un luminare della zoologia. Con gli occhiali rettangolari sottilissimi, e quella barba serafica, e la voce un po’ stridula, e le slide quasi comiche fatte con una versione non aggiornata di Power Point.
Mi convinsi che nessuno, tranne il coglione qui dietro, si fosse accorto che mi ero addormentato. Finsi una posa rilassata con due dita della sinistra sulle labbra, ed effettivamente mi rilassai.
– Perciò abbiamo quest’incrocio tra culture diverse che genera dei risultati straordinari, e unici, come la Basilica di San Nicola, a Bari…
Seguii il laser che partiva dalle mani di Bottini. Il pallino si piazzò sull’immagine in HD di un imenottero. Poi cominciò a seguirne i contorni del gastro e del torace, lentamente, a evidenziare i confini di ogni sezione. Polistes gallicus, pensai. Facile. Addrizzai la schiena e buttai un’occhiata veloce a sinistra, verso il resto della classe.
– Vedete le torri, sembrano mozzate… perché non sono mai state completate. Poi, qui, le bifore…
Bifore? Strinsi le palpebre. Era un Polistes gallicus: i colori, le macchie gialle sulle guance. Non potevo sbagliarmi su questo.
– È una basilica atipica per quello che di solito intendiamo con romanico.
Ma che basilica!? Vedevo il professore seguire il laser con attenzione e soffermarsi pure a lungo su ogni dettaglio; solo che le antenne le chiamava bifore. Piegai la testa sul quaderno: IMENOTTERI, stampato maiuscolo ed evidenziato in arancione. Ma che s’era fumato Bottini? Era convinto: parlava di contorni lineari e di conci lapidei regolari, ma sotto la macchia semitrasparente del laser io ci vedevo solo le dicromie perfette del gastro di una vespa. E pure la slide portava il titolo VESPIDI – SISTEMATICA E MORFOLOGIA.
Cominciai a spazientirmi, ma non seppi fare niente se non sbattere le palpebre in continuazione per schiarire l’immagine che avevo davanti. Dopo un dieci minuti Bottini era ancora là, che parlava dell’arte romanica in sud Italia e dietro aveva foto in altissima qualità di imenotteri. Mi chiesi se mentre stavo dormendo non fosse iniziata un’altra lezione; ma erano ancora le undici e quaranta e la faccia di Bottini era proprio la sua. Solo che la spiegazione e le slide non c’entravano un cazzo l’una con le altre. Non sapevo che scrivere, mi limitavo a leggere IMENOTTERI sul quaderno, a scandirmelo in bocca sillaba per sillaba per vedere se all’ennesimo conteggio, per qualche motivo, finisse per coincidere con Castel del Monte. Castel del Monte: dove cazzo sta Castel del Monte?
Mi sporsi in avanti e cercai di mettermi in contatto con la tizia che annuiva.
– Psst, ehi, – si accorse di me con la coda dell’occhio: si fece più avanti sulla sedia, sguardo alto e ciocca di capelli dietro le orecchie. Riprovai: – Psssst, oh! – Alzai la voce – Oooh!
– Shhhhhhhhhhh, – mi spaventò voltandosi all’improvviso. Sentii lo schienale nelle costole, mentre la tizia tornava con gli occhi fissi su Bottini e il mento in fuori, abituato a molleggiare. Vidi il gomito epilettico di quella accanto, e il naso che le sfiorava la carta: non ci provai nemmeno.
Ero costretto a chiedere al coglione dietro. Studiai di nuovo i gesti di Bottini, per un attimo, sperando di aver vissuto un’allucinazione, o di trovarmi ancora in un sogno. Obbedii al vecchio incantesimo di pizzicarsi le guance, ma me ne vergognai subito, perché Bottini era sempre lì a citare basiliche addosso all’esoscheletro delle vespe.
– Oh.
Quello dietro alzò gli occhi per un secondo, e nei miei vide qualcosa di comico. Soffocò il riso in gola.
– Dormito bene? – Soffiava nelle mani per far finta di essere serio. Testa di cazzo.
– Ma è Bottini? – indicai appena verso la cattedra.
– Che non lo vedi?
– Ma Bottini di zoologia?
Il brufolato smise di scrivere.
– Me stai a pia’ per culo?
Compressi le sopracciglia e lo fissai per qualche secondo. Poi gli strappai il quaderno dalle mani: schiaffi di fogli voltati e un “oh” secco alle spalle; la scritta identica alla mia, in un corsivo elegante: IMENOTTERI.
Monociglio si riappropriò del quaderno mentre urlavo sottovoce cosa c’entrano le basiliche dei normanni. Ma lui rispose col silenzio e il grattare plastico di una Bic gialla e nera.
Per l’ultimo quarto d’ora non scrissi niente. Le mani erano un’appendice inutile che non sapevo dove poggiare e il cervello un insulto, se Bottini sembrava serio nel disegnare il profilo della cattedrale di Trani sul nido a esagoni del Polistes dominulus, spalmato sul lenzuolo del proiettore. Mi limitai ad aspettare la fine della lezione. Era tutto così assurdo.
Quando Bottini ci congedò, a mezzogiorno, io aspettai seduto che tutti uscissero dall’aula. Squadrai dalla testa ai piedi ogni collega che mi passava accanto, in cerca di un indizio. Da un paio di quaderni tenuti sul fianco riuscii a sfilare qualche scritta evidenziata in giallo, ed erano sempre parole che avevano a che fare con l’entomologia e non con le basiliche. Poi tutti, o quasi, portavano sottobraccio la Zoologia di Hickman. Ed era questo che mi faceva incazzare come una bestia: avessero tra le dita una Storia dell’arte qualsiasi, avessero il progetto di una stupida basilica qualsiasi! Capirei che Bottini sta sotto l’effetto di una droga potente o che ha organizzato questo scherzo del cazzo insieme a un suo gemello esperto di romanico calabrese, o come si chiama. E invece no, tutti perfettamente zoologi, tutti perfettamente in linea con ciò che il corso e l’aula e l’esame chiedevano.
Mi diressi verso il professore con la voglia di scuoiargli il cranio pelato, ma due passi prima della cattedra mi ricordai che era Bottini, quello, anche se adesso si metteva la sciarpa e si grattava il naso.
– Scusi.
Già sulla prima parola mi accorsi che la conversazione che stavo per fare era impossibile. Ma che gli dovevo dire? Che era ubriaco? Che ero ubriaco io? Che Castel del Monte non c’entrava una sega coi Vespidi? Lui si voltò con la sciarpa pendente a metà collo.
– Scusi.
– Dica.
Che gli dovevo dire? La presi larga.
– Non ho capito… una cosa sul Polistes gallicus.
– Sì. Dica pure.
Dica pure? Ma come dica pure? E San Nicola? Schiarii la voce.
– Ehm… nidifica, – aprii il quaderno, – su fusti erbacei o muretti.
– Esattamente.
– O comunque in spazi più esposti rispetto a quelli del Polistes dominulus.
Bottini annuì e lanciò l’altra metà della sciarpa dietro la spalla. Quell’espressione così sicura, quella perfetta corrispondenza tra le mie domande e le sue risposte, adesso: l’avrei strangolato tirandolo per la lana grigia. Afferrò la ventiquattrore e fece un passo verso la porta.
– Aspetti.
Mi guardò un po’ accigliato: – Sì.
– E per l’esame… va bene Hickman?
– Certamente.
– La zoologia di Hickman?
Soffiò appena dal naso.
– Zoologia di Hickman. Vada tranquillo.
In quattro passi strascinati varcò la soglia.
Tre settimane dopo ero davanti la porta del suo studio. Attorno a me molte coppie di mani tenevano aperto il manuale di Hickman e molte teste annuivano o negavano. Un paio di volte mi arrivò all’orecchio il carapace degli aracnidi, ma mai che qualcuno tirasse fuori il gotico o il romanico.
Io rimanevo il più possibile su zoologia. Mi dicevo: fai l’esame come se niente fosse. Dopo quella lezione assurda ero tornato a casa, m’ero fatto subito una doccia e quasi venti sigarette; poi avevo cercato di dimenticare tutto. Certo, ogni volta che aprivo l’Hickman mi fermavo a squadrare le foto di una qualsiasi specie sperando inconsciamente che ci uscisse fuori una basilica. Ovviamente non poteva accadere: gli artropodi erano artropodi, e si dividevano in trilobitomorpha, crustacea, hexapoda, myriapoda e chelicerata, con innumerevoli classi a seguire, ma non avevano mai bifore, né guglie di nessun tipo. Schiacciavo le tempie tra le dita, mettevo un po’ di musica e studiavo come se Hickman fosse veramente parte della bibliografia e come se l’esame si chiamasse davvero Zoologia Generale: c’era scritto sul sito dell’università, sul foglio di prenotazione e sulla prima pagina del quaderno, nelle forme del mio stampatello sghembo.
Mi trovai così davanti alla porta con scritto professor Bottini e il numero 21, nel dipartimento di Scienze biologiche, circondato da manuali con un’esemplare femmina di Caretta caretta sulla copertina, convinto che tutto ciò avesse a che fare con l’argomento del mio esame, e che non contassero niente Arnolfo di Cambio o Cimabue. Nel corso della mattina vidi sfilare davanti a me una trentina di colleghi, che entravano e uscivano dallo studio del professore alcuni contenti e con il foglio di prenotazione sventolante, altri incazzati. M’ero prenotato appositamente tra gli ultimi per tastare il terreno; ma la calca che s’ammassava a ogni apertura della porta me lo impedì quasi sempre. Riuscii solo a intercettare una riccia, che appena uscita da Bottini s’era defilata a destra quasi di soppiatto: le aveva chiesto i chelicerati.
Tutta quella fatica di azzeccare l’ordine delle cose mi portò solo a un’attesa estenuante dalle otto di mattina alle sei del pomeriggio e (almeno questo) a un Bottini sfinito.
– Siete rimasti solo voi due?
Io e un ragazzo con gli occhiali tondi annuimmo quasi contemporaneamente.
– Venga, – Bottini mi invitò con un gesto morbido della mano. Chiuse la porta.
Ci sedemmo sincronizzati sui lati opposti della scrivania: io su una sedia di plastica, Bottini su una poltroncina con motivi floreali in stile liberty. Si lanciò metà sciarpa sulla schiena. Io, su sua richiesta, gli offrii un documento e il foglio di prenotazione. Poi infilai le mani una nell’altra. Cominciai a sforzarmi a non pensare, contraevo i muscoli delle braccia e fossilizzavo lo sguardo su una pietruzza gialla posata sulla scrivania, vicino a un portapenne. Ambra, forse: era giallognola, con una piccola macchia nera nel centro e un taglio trapezoidale. Mi sembrava contenesse un ragno, ma avrei dovuto tenerla sotto gli occhi per capire. Mi convinsi si trattasse di Pholcidae, ma poi seguii il taglio della pietra e mi venne in mente la Basilica di San Nicola a Bari. Sentii umido il colletto della camicia, sul retro. Spostai gli occhi sulla faccia di Bottini.
– Allora… frequentante? – il professore abbandonò la penna sul tavolo, io annuii, – Bene. Cominciamo col romanico pugliese.
Lo sapevo. Cazzo. Pensai al ritardato col monociglio, sognai di pestarlo a sangue vicino le macchinette del caffè. Che cazzo potevo fare, adesso? Per un secondo mi convinsi: ora gli dico tutto a questo vecchio di merda. Gli dico che quest’università fa schifo e che non si capisce se un corso è Zoologia Generale o Storia dell’arte medievale. Ma sul punto di farlo, il “Mi scusi” mi esplose nella laringe. Tossii.
– Come dice?
Avevo le tempie fradicie.
– Romanico, – provai a prendere tempo, – pugliese?
– Prego.
Gli occhi di Bottini mi erano addosso. Incastonati in un puzzle complesso di pelle decadente e rugosa, potevo percepirne una qualche strana cattiveria. Bottini? Lo zoologo? Proprio lui? Seguii un suo sopracciglio alzato, con un pelo che dritto svettava sugli altri; sopra, una macchia marroncina, come un neo sciolto. Ma poi quegli occhi immobili che mi facevano dire: questo ora si incazza. I ciuffetti bianchi sulle nocche, un punto spellato di un labbro, i lobi lunghi appesi alle orecchie. Ma poi gli occhi. E la sciarpa, che forse era davvero quella di uno storico dell’arte. Hickman, eh? Me lo aveva detto lui, a lezione, che l’esame era sull’Hickman. Vaffanculo, pensai, ci provo.
– Sì, allora… – schiarii la voce, – gli imenotteri sono un ordine di insetti, pterigoti, quindi dotati di ali, che comprende più di 120.000 specie…
Cominciai a recitare gli appunti sugli imenotteri, li avevo imparati a memoria. Pensavo: fai il romanico pugliese sugli imenotteri? Allora ti dico gli imenotteri. E sognavo di pestare Monociglio. E mi dicevo anche: sei fuori di testa. Ti boccia. Ti denuncia. Addio dottorato.
– …come ad esempio la famiglia dei vespidi.
Arrivai a fine pappardella che sentivo i pettorali incollati alla camicia. Respirai, come se mi fossi dimenticato di farlo fino ad allora. Guardai Bottini dritto negli occhi: ora mi mena.
– Molto bene. Si vede che ha seguito, – con un gesto lentissimo si levò un lembo della sciarpa da sotto la coscia, – ora vada più nel dettaglio e mi parli della Basilica di San Nicola. Se la ricorda? Ha delle bifore interessanti.
Non ci potevo credere. Forse era drogato. Per un secondo che mi sembrò un decennio mi sentii come sospeso in uno spazio irreale; sentivo su un fianco orde di colleghi con Hickman tra le braccia, sull’altro gli occhi e la sciarpa di Bottini; ma io ero scollato da tutto, e niente mi toccava la pelle, se non una camicia inzuppata – non sapevo che farmene della coincidenza inspiegabile tra l’architettura e la sistematica.
Risposi parlando del Polistes gallicus e del Polistes dominulus. Partii con l’anatomia: descrissi per filo e per segno il corpo delle due specie, dal clipeo allo scuto, a tutto il gastro, elencando le differenze tra l’una e l’altra. Poi parlai dei diversi spazi di nidificazione, dell’accoppiamento, di tutto quello che ricordavo si fosse detto in quella lezione, prima che m’addormentassi, e di tutto quello che c’era scritto sull’Hickman. Bottini annuiva compiaciuto, diceva esattamente esattamente e socchiudeva le palpebre con aria assennata. Ogni tanto infilava nel mio discorso qualche domanda più mirata – tipo: la Cappella Palatina a Palermo – e io, preparatissimo, rispondevo sicuro con quello che secondo qualche regola era il corrispondente zoologico – tipo: Eristalis tenax e i Sirfidi in genere. Ci presi gusto a vedere che gli occhi prima quasi minacciosi ora si rammollivano sotto palpebre assenzienti. Non capivo quell’assurdità; ma mi bastava aver scovato un meccanismo incomprensibile che faceva risultare esatte le mie risposte, anche se io parlavo un’epistemologia, Bottini un’altra.
A un certo punto il professore mi fermò. Stese la schiena in avanti, avvicinò la penna e si grattò lentamente uno zigomo. Mi chiese che media avevo e quali altri esami stavo preparando.
– Chimica organica e citologia, – ormai rispondevo con sicurezza.
– Con Turchi?
Annuii, e lui mi ricopiò.
– Fa un programma molto bello su Ruskin e i preraffaeliti.
Poi prese il foglio di prenotazione. Molto bene, disse: ventinove. Segnò data e voto con uno stampatello ordinato, quindi aggiunse una firma larga e barocca.