di Maria Cristina Comparato
Copertina: Bratislava #1 – Maria Cristina Comparato
Non sapeva di preciso quanti chilometri la piazza distasse da casa sua, ma nel percorrerli aveva perduto una scarpa, gli occhiali da vista e anche quasi il naso, per via di un ubriaco che lo aveva scambiato per un ebreo. Era effettivamente ebreo, ma non quello con cui l’ubriaco pensava di lottare.
Poi aveva recuperato delle scarpe e degli occhiali, e quasi completamente il naso, si era congedato dall’ubriaco e aveva ripreso il cammino.
Aveva sentito alla radio che erano passati trent’anni dall’ultima volta che aveva visitato Bratislava. In trent’anni aveva trovato una buona sistemazione, si era sposato e poi aveva perduto il lavoro e anche la moglie, tutto perché erano gli anni delle grandi divisioni, delle rivincite, delle rivendicazioni, e lui non aveva niente da rivendicare.
Era partito prima dell’alba. Il primo autobus lo aveva portato in stazione, da lì aveva preso il treno e poi aveva incrociato l’ubriaco. Una signora gli aveva fasciato il naso alla buona, raccomandandogli di bere per il dolore, e gli aveva lasciato una bottiglia di vodka e una benedizione, anche se pensava che fosse matto.
Nel suo paese non amavano ricordare. Quando una cosa finiva, la si dimenticava e si passava ad altro, quelli che ricordavano erano i ricchi, gli intellettuali o i matti. Lui non era ricco e non era un intellettuale.
Poi la radio gli aveva detto di partire, e lui, come se fosse stato pronto da sempre, aveva spento l’apparecchio, aveva preso la borsa e la lampada, ed era andato a dormire presto, per uscire prima dell’alba.
Quando l’ubriaco si era calmato, gli aveva chiesto perché volesse tornare a Bratislava, e lui non seppe rispondergli. Allora l’ubriaco aveva preso le sue chiavi e le aveva fatte tintinnare a lungo, e mentre tintinnavano, quasi echeggiando nella stanza vuota, lo fissava negli occhi, si fissavano negli occhi. Poi avevano annuito.
La padrona di casa li aveva trovati a fissare le chiavi sul tavolo, si era spaventata a vederlo col naso tumefatto e lo aveva medicato alla buona, maledicendo il suo inquilino, cui voleva un gran bene e forse pure lo amava.
L’ubriaco, che si chiamava Miloš, aveva imparato a bere nelle carceri comuniste dove, diceva, erano tutti delle carogne, però l’alcol non mancava mai e dove aveva capito che non serve essere sempre lucidi. Ci era finito per via di un ebreo, che lo aveva infilato in un affare strano e poi se l’era svignata; era ebreo anche lui e ai poliziotti era bastato. Quell’ebreo era stata la prima persona che aveva cercato quando avevano aperto le carceri, ma, forse perché era sempre ubriaco, ancora non lo aveva incontrato, e sempre per via dell’alcol lo aveva preso a pugni, credendo di averlo finalmente scovato.
Non se l’era presa, in fondo loro, gli ebrei, si somigliano tutti e poteva capitare a chiunque.
Per cercare di rimediare, gli aveva lasciato un paio di scarpe e degli occhiali, mentre la signora lo raccomandava a Dio e sperava che Dio lo mandasse via presto.
Era partito di nuovo prima dell’alba, era tornato in stazione e aveva preso il secondo treno, quello che per via di Miloš aveva perduto, e silenziosamente guardava il paesaggio dal finestrino.
Quando Miloš aveva preso le chiavi, sapeva che avrebbe dovuto annuire, anche se lui nelle carceri comuniste non era mai stato; non gli dispiaceva il regime, però comprendeva le ragioni degli altri, e questo suo non prendere posizione gli era costato un’intera vita.
Da allora le persone si dividevano in arrabbiati e contenti, lui non era arrabbiato con nessuno, ma nemmeno era contento, perché da quel giorno anche lui era cambiato, suo malgrado, e si era reso conto di non essere più un uomo, ma un qualcosa di diverso, sospeso nello stupore.
Aveva però bisogno di ricordare cosa era stato prima. Se lo ricordava tutti i giorni, alzandosi dal letto, solo; se lo diceva mentre mangiava l’uovo fritto col pane nero; non lo dimenticava nemmeno mentre sognava, lo teneva a mente quando vedeva qualcuno festeggiare o litigare, se lo ripeteva quando gli avevano detto che poteva finalmente andare in pensione e che non era più necessario che pulisse le strade alle quattro del mattino.
Al suo arrivo la piazza era già gremita. Sul marciapiede era appoggiata la foto di due ragazzi circondata da lampade e gente che pregava, non ricordava chi fossero, ma gli andava bene; si era creato persino un piccolo comizio con tanto di pulpito, da dove le due fazioni, ancora vive, si insultavano e si scambiavano occhiatacce.
Aveva tirato fuori con fatica la sua lampada e l’aveva ripulita per bene; dopo aver esitato qualche istante, l’aveva accesa e l’aveva messa il più vicino possibile al ritratto della giovane coppia e l’aveva fissata per qualche minuto, commosso.
Erano trent’anni che anche lui era morto.
Aveva tirato fuori con fatica la sua lampada e l’aveva ripulita per bene; dopo aver esitato qualche istante, l’aveva accesa e l’aveva messa il più vicino possibile al ritratto della giovane coppia e l’aveva fissata per qualche minuto, commosso.
Erano trent’anni che anche lui era morto.
Foto e testo di Maria Cristina Comparato