di Elena Costa
Copertina: Castelnuovo – Andrea Herman
Le pasticche mi rassicurano come l’aglio e il limone in frigo e l’acqua frizzante da bere la notte. Questa opzione di mondo non l’avevo contemplata ma gli extraterrestri dicono che finirà. Sono stati vaghi sul quando.
Penso alla morte. Stranamente la mia non mi sembra probabile. Eppure lo so che essere stati già semimorti non garantisce l’immunità da altri tipi di morte. La vita non dà risarcimenti. Questo gli extraterrestri dovrebbero saperlo e in cambio regalano amuleti, pasticche, aglio, limone e acqua frizzante.
A quindici anni sognavo di morire. Come tutti a quindici anni. Avevo precisi scenari di morte che tiravo fuori alla bisogna. Ce n’era uno, via via arricchito di particolari, personaggi, dialoghi, che usavo con parsimonia quei pomeriggi talmente lunghi che faticavano a scomparire nella sera. Era la mia morte a scuola. Al tempo, tra tutte le cose che mi erano insopportabili, la scuola era la più insopportabile. Odiavo il liceo classico, dall’inizio alla fine. Alzarmi presto la mattina, vestirmi con la maglia di lana, andare alla fermata dell’autobus, sedermi dietro, scherzare con gli altri, osservare i ragazzi più grandi e commentarli con le amiche, correre a piazza Municipio e fare le vasche prima della campanella, marciare affannata verso la campanella con Catia parlando di letteratura anche se a lei non piaceva Heinrich Boll, sedermi al banco sempre con Catia, sentire la puzza di salame marcio del professore di latino e la pressione della sua mano appoggiata troppo a lungo sulla spalla, il ritorno a casa con lo zaino diventato più pesante da sistemare subito in camera, scaldare le lenticchie con l’origano lasciate da mia madre, lavare i piatti e mettermi a studiare nella mia stanza con la porta chiusa.
Seduta alla scrivania aprivo il libro e poi giravo la testa verso la porta finestra del balcone. Attraverso i vetri contemplavo Domenico nel suo orto compiere gesti interminabili, in qualunque stagione, che poi si sarebbero risolti nelle verdure che regalava a mio padre. Domenico nell’orto, il silenzio, la versione di greco o le equazioni o la chimica o la filosofia o la storia, ultime due cose che in astratto avrebbero potuto anche piacermi, si staccavano da me che mi ritrovavo nella palestra della scuola a stramazzare a terra all’ennesimo giro di campo stroncata da un male improvviso e imprevedibile. L’ambulanza, la disperazione dei compagni, genitori e parenti distrutti, il funerale in un bagno di folla, ragazze vestite di bianco con fasci di fiori tra le mani. Ero molto brava a immaginare i funerali e all’epoca sembrava naturale che i ragazzini partecipassero anche a quelli dei parenti più remoti e dei conoscenti meno conosciuti. Al funerale piovoso della mamma del professore che puzzava di salame avevano inviato tutte le classi con il pulmino, per rispetto. Ricordo la donnina rattrappita nella bara che mi aveva fatto la stessa impressione di disordine delle bomboniere impolverate che mia nonna teneva nella vetrina. Nel mio funerale immaginario però non pioveva e c’erano tanti fiori rossi perché il rosso anche allora era il mio colore preferito.
Nessuna, credo, delle persone che amavo avrebbe mai potuto figurarsi che nella mia testa coperta di ricci quotidianamente ci fosse il quadro della mia morte. Nessun nero pensiero usciva dalla mia bocca, nessuna apparente opposizione alla realtà programmata. Ero un’adolescente sorridente dalla morfologia tranquillizzante. O forse sono gli extraterrestri a truccare la mia memoria oscurandomi il passato e i sensi di colpa. In effetti piangevo molto, indizio difficile da ignorare anche per dei genitori. Certo piangevo indistintamente. Emozione disagio rabbia gioia allegria imbarazzo timore angoscia disperazione incomprensione tutto si lavava con il pianto.
La mia unica rivoluzione personale era non studiare abbastanza. Più subdola e forse meschina del non studiare affatto. E nonostante la nebbia offuscante che avvolge quel passato emerge il disappunto di mio padre. Sprecare la mia intelligenza mi rendeva potente e onnipotente, avere quella capacità e buttarla via mi sembrava un’azione degna di Gandhi immobile per strada di fronte agli inglesi invasori.
Che senso aveva studiare latino greco storia filosofia matematica quando avevo i romanzi e gli extraterrestri? Quando potevo immaginare la morte? La morte era sicura, quasi prevedibile. Diversa, nella sua immutabilità, dalle persone vive che mi disturbavano agendo senza coerenza in balia di emozioni indecifrabili che mi facevano soffrire. La mia morte immaginaria seguiva il mio ordine e la mia ragione. Ma è rimasta alla scrivania quando sono partita per la città grande dove, curiosamente, il disordine e l’imprevedibilità non mi turbavano più, mi ero tirata fuori da uno sguardo che mi incupiva e che non mi lasciava fiorire. Di chi fosse quello sguardo me lo chiedo ancora. Lo chiedo anche agli extraterrestri che si stringono nelle spalle come i più banali tra gli umani, sanno loro le cose grandi ma le cose piccole gli sfuggono, forse inibiti da tanta irrilevanza. Oggi non c’è nulla di male a tirare il freno a mano, a non essere certi di cosa pensare, a prendere una pasticca di ferro rosata.
La butto giù ripensando a mia zia e alle sue goccine di me ne impippo, un riuscito mix di acqua e indifferenza, che il suo padre confessore le aveva consigliato per quando si sentiva scorata da troppa vita.