di Caterina Iofrida
Copertina: Fantasma in ascensore o sensazione di claustrofobia – Julio Armentante
– Ti dico di no! Ma se ti dico… Allora continua a parlare tu! Continua a… a… e va bene! Ti ascolto… – Mario aprì lo sportello della cucina in alto davanti a sé e ne estrasse un calice da vino, che posò sul bancone. – Ma non è niente! Ho soltanto preso un bicchiere… Scusa, ma che ti frega, ti ho messa in viva voce così io intanto… ma non… non capisco! Non ti va bene mai – intanto aveva avvicinato a sé la bottiglia – non ti va bene mai nulla! Mamma, potrò bere un bicchiere di vino dopo il lavoro? Anche due, magari… Gesù… io non… ma guarda che sto benissimo! Ma come mi è venuto in mente di… non ti dirò mai più che cosa sto bevendo, giuro! Sappi che, per te, da ora in poi, io berrò solo chinotto. Ma che buono questo chinotto di Bolgheri… ah… ah, ora sarei stronzo… ora lo stronzo sono io… basta! Per oggi basta. Ti saluto, okay? Ma sì… ma sì… sono un po’ teso. Ma niente, è che oggi mi sono stancato. Al lavoro, sì. Dove avrei dovuto… Beh, ti lascio. Bevo il mio chinotto… il mio vino, sì. Ciao. Anche a te… anche a te… buona serata.
La madre di Mario non abitava in un’altra città, tutt’altro; abitava anzi a soli dieci minuti di macchina da lì. Chi abitava lontano, a quasi 200 chilometri da casa sua, era invece Lucia; da cinque anni, da quando cioè si erano conosciuti, non facevano che prendere treni per vedersi, o almeno così pareva; eppure erano tanti i giorni come quello, in cui, effettivamente, ciascuno di loro si trovava a casa propria e senza che una partenza fosse imminente. Il cavatappi in una mano, l’altra sulla schiena come per iniziare a grattarsi, immobile in piedi davanti al bancone della cucina, Mario non sembrava avere fretta. Se ne stava là, la testa leggermente inclinata all’indietro, lo sguardo fisso sulla bottiglia, con un’espressione come di vaga e annoiata concentrazione. Non era granché alto, né magro né grasso, con capelli e occhi marroni, e aveva lineamenti sottili, un po’ sfuggenti; ai piedi aveva delle Converse, indossava un paio di jeans e una maglietta rossa un po’ lisa, che aveva dai tempi dell’università – almeno vent’anni prima. Se avesse ammazzato qualcuno e un testimone lo avesse descritto in un interrogatorio di polizia, probabilmente l’avrebbe fatta franca, tanto il suo aspetto era privo di “segni particolari”. Chi sa se ne era consapevole, se ci aveva mai pensato; per il momento, aveva solo l’aria di uno indeciso sul destino di una bottiglia di Bolgheri.
– Lanzi… no, non Landi, Lanzi… L … L come… mannaggia, non mi riesce mai questa storia delle città… Livorno! Ecco, Livorno, Ancona, Nuoro, Z… Zagarolo! Come non esiste… esiste eccome… non esisterà per lei, che magari non ha mai visto i film di Franco e Ciccio… e figuriamoci… andiamo bene… lasciamo andare, – Elena appoggiò la fronte al muro, il telefono ancora debolmente premuto contro l’orecchio – …e Imola! Lanzi, sì. Oh, ho finito. Ce l’abbiamo fatta. Che stress! Beh, buona giornata.
Per qualche minuto non si mosse: in piedi, testa contro il muro, occhi chiusi. Poi, lentamente, lasciò scendere il braccio destro lungo il corpo, lo rilassò. Il telefono cadde. La bestemmia la pensò soltanto, probabilmente. Con la banca, intanto, era finita. Temporaneamente, almeno. Era tempo di preoccuparsi di un nuovo problema, uno dei tanti. L’autoclave, ad esempio: nessun altro avrebbe mai preso in mano la situazione dell’acqua condominiale. A lei bastava lasciarsi andare un po’ e probabilmente nessuno, nell’intero palazzo, avrebbe più fatto una doccia. Ma no, non era il momento per l’autoclave. Eccone invece una bella: di lì a una settimana, sarebbe partita per rimanere fuori un mese intero, a Cuba. Un viaggio in cui aveva investito una somma considerevole. Una compagnia tutt’altro che trascurabile, almeno a quanto le era stato riferito – gli amici di Marta, compreso quel tizio che da tempo lei ci teneva tanto a presentarle. Provò a sforzarsi di immaginarsi a godere la vita in un tale contesto e come risultato ottenne un principio di conato, subito represso respirando a fondo. Avrebbe dato qualunque cosa per poter tornare indietro nel tempo e rifiutare quell’invito. Non aveva avuto la prontezza, non tanto quella di dire di no, proprio quella di chiedersi se davvero le andava quel viaggio, di trascorrere un mese fuori di casa, con quelle persone, soprattutto. Ora lo sapeva? Non completamente. Tutto sommato, non sembrava esserci un motivo valido che fosse uno per staccare la fronte dal muro.
– Ora non ho tempo, sto andando a lavorare, – bisbigliò Francesco nel telefono, pianissimo, come per non disturbare; anche se, in effetti, in quell’ascensore, a parte lui, non c’era nessuno. L’idea era quella di raggiungere il quinto piano, quello del suo ufficio, – sì, “lavoro”, hai presente? So che per te è un concetto alieno -. Era pure un po’ in ritardo; però, pur essendo là dentro da un quarto d’ora, non aveva premuto alcun pulsante. – Se stamani non faccio tutto quel che devo, come facciamo a partire? Glielo spieghi te, al mio capo? Allora glielo spieghi te… – e intanto non premeva pulsanti, – A posto… Senti, parliamo di cose serie… hai richiamato l’albergo? Come no… Senti, ci penso io dopo. Ma se ti ho det… Ci penso io dopo, ti dico! Non fare niente… la valigia sì. Bravo, fai la valigia… io intanto vado a lavorare. Ciao… ciao.
Si rimise il telefono in tasca. Uno a uno, contemplò i numeri sulla pulsantiera: 5, 4, 3, 2, 1… 0. Sullo zero si soffermò un po’. Non aveva avuto dimestichezza con gli ascensori, fino a quel lavoro: non ne aveva mai avuto uno in casa, né quando viveva coi suoi, né nelle varie case in cui aveva vissuto e viveva per conto suo. Si ostinava ad alloggiare al piano terra, a un passo dall’esterno, le finestre che davano sul giardino; non avrebbe saputo individuare il motivo, né l’origine, di questa sua consolidata consuetudine. Non era dipesa da nessun altro, almeno apparentemente, quantomeno per le sue case di adulto – essendone stato l’unico abitante. Eppure non aveva mai avuto l’impressione di aver fatto delle scelte, in merito. Aveva sentimenti simili riguardo il suo lavoro. Non avrebbe saputo dire esattamente se, quando, figuriamoci perché avesse deciso di fare di sé un impiegato. Come aveva finito per diventarci? Intanto aveva male alla testa. Si passò una mano sui riccioli biondi, operazione che li lasciò più scomposti di prima. Chiuse gli occhi, respirò a fondo. Cominciava a sentire caldo. Possibile che nessuno chiamasse quel benedetto ascensore?
– Ciao. Senti, ne ho tre nuovi. Sì, tra ieri e oggi. Per una so più o meno che cosa fare…beh, forse… però, insomma, mi serve una mano… sto terminando le idee. E poi, sei tu il capo. Su certe cose l’ultima parola è tua.
– E va bene. Passami le schede.
– Lo sto facendo in questo momento.
– Arrivate… ecco. Vediamo che abbiamo qua… Mario S., di Arezzo. Ma dai, non è difficile. Mi sembra tutto regolare… Abita in un condominio, vedo. Beh, facciamogli suonare da…
– Sì, ci ho pensato pure io, ma… di nuovo il vicino? Ne ho usati tre, solo ieri, proprio nel palazzo accanto!
– Senti, è la soluzione più semplice, in genere: il vicino suona, quello si deve schiodare. Dopo berrà il vino, non berrà, farà una doccia, magari guarderà un film. Qualche cosa finirà per fare. Non se ne ritornerà certo davanti al bancone della cucina, nello stesso punto.
– Lo so, lo so…
– Infatti lo sai, ma allora dov’è il problema? Che c’è?
– È che cominciano a diventare tanti. Te ne sei accorto? Abbiamo usato più vicini negli ultimi due mesi che in tutto l’anno scorso! È tutto un suonare di campanelli. Sempre con le stesse scuse, poi! Un cavatappi in prestito, il caffè finito… e che palle!
– Dobbiamo restare verosimili, lo sai.
– Non possiamo mandare in giro la gente a dire frasi assurde, lo so, lo so. “Scusi, mica le avanza un gatto grasso di cristallo?” non mi hai mai permesso di utilizzarlo. Sarebbe stato bello, però.
– Ma perché son diventati così tanti, poi?
– A me lo chiedi? Sei tu che dirigi una Unità di Sblocco, mica io!
– Ehi, ma io so assai, sono solo un po’ più vecchio di te… mica più intelligente… basta! Non perdiamoci d’animo, ché qua se ci blocchiamo pure noi…
– Giusto. Allora, a Mario S. si manda il vicino a chiedere…
– …un cavatappi, così poi magari torna in mente di usarlo pure a lui.
– Okay. Andiamo avanti. Elena L.
– Sì.
– Eh. Con questa Elena non so proprio da dove cominciare…
– Non c’è nessuno che potrebbe telefonarle? Invitarla a cena, magari.
– Eh, la fai facile, tu! Ma hai letto?
– Ho letto tutto il dossier mentre parlavamo, tranquillo. Beh, situazione bruttina. Non che ai miei tempi una si sarebbe immobilizzata per… per…
– Per?
– Beh, soltanto per questo.
– Avevamo detto niente moralismi. Me lo avevi promesso, in realtà.
– Okay. Hai ragione.
– E… e se finalmente mi permettessi…
– Ennò.
– Ma se non me l’hai fatto neanche dire!
– E secondo te non lo so? So bene che cosa ti piacerebbe tanto fare. Tu mi vorresti mandare questo disgraziato…
– E chi l’ha detto che è un disgraziato?
– Suvvia… fa l’impiegato del comune.
– Oh, ma lo sai che sei veramente classista?
– Categoria D.
– Classista, confermo.
– Eddai, risparmiami… e fammela fare una battuta…
– “E fattela una risata”… come no!
– Cristosanto. E poi dici a me “niente moralismi”! Madonna. Sei diventato davvero pesante ultimamente.
– Beh, forse sì. Scusami.
– Vabbè. Comunque tu mi manderesti questo disgr… questo impiegato…
– Bravo…
– Non ti sopporto. Me lo manderesti a casa di quella che si dispera per le vacanze. Osi negarlo?
– Beh… in effetti…
– Tanto non ti conosco.
– Ma che ci sarebbe di male, poi?
– Tanto per cominciare, uno abita a Como e l’altra a Scicli.
– Ma sarebbe facile… lo fai licenziare… tanto, figurati, col lavoro che si ritrova…
– Ah, e poi ero io quello classista!
– È già in ritardo… potrebbe scoppiare un contenzioso… poi con lui che è già stufo…
– E con questo piano geniale quando me la sbloccheresti, lei? Dopo un mese, due mesi, quanto? No, ma fai con comodo…
– Il tuo problema è che non hai fantasia. Sempre co’ ‘sti vicini di casa… non pensi mai in grande, tu.
– Ah, il mio problem… Gesù, lasciamo stare. Veniamo al punto. Che cos’hai in mente?
– Senza lavoro, gli verrà qualche preoccupazione economica. Avrà dei risparmi, ma mica potrà partire per quel viaggio con l’amico, sarebbero più di venti giorni negli USA.
– I compiti li hai fatti, almeno.
– E, indovina? Lei è iscritta su Airbnb, a periodi ospita gente.
– “Air” che?
– Poi ti spiego. Comunque Elena L. aspetta solo una scusa per non partecipare a quel viaggio di gruppo e, improvvisamente, si ritrova con Francesco P. dell’ascensore come ospite pagante per una settimana. È perfetto. Sono un genio!
– Quindi, fammi capire… il tuo piano di sblocco per queste due persone coinvolgerebbe colleghi, capi, contratti di lavoro rescissi, compagni di vacanze mollati, diverse vecchie prenotazioni disdette e una nuova fatta su quell'”aircoso”… c’è qualcos’altro? Magari un trasloco, in futuro?
– Perché no. Le relazioni a distanza, alla lunga, possono stancare…
– Ma allora non ti ho insegnato niente! La prima regola del nostro lavoro è che la perturbazione deve essere minima. E che significa? Significa che noi dobbiamo fare meno casino possibile.
– Ma quanto sei noioso! E cambiamole queste regole, una buona volta.
– Sai bene che non è possibile.
– Uffa! Allora, almeno, lasciamele infrangere, ogni tanto… sono vent’anni che faccio sempre le stesse cose. Consideralo un regalo personale a me.
– E… e va bene.
– Davvero?
– Davvero, demente. E ora collegati con questo benedetto ufficio del comune, prima che cambi idea!
– Grazie! Ah, Armando…
– Che c’è ancora?
– Del terzo tizio ti occupi tu?
– Vicino con bottiglia già mobilitato.
– La perturbazione più piccola del west!
Albeggiava appena e faceva molto freddo, ad Arezzo, quando due poliziotti entrarono nell’appartamento. La segnalazione della scomparsa dell’uomo era arrivata sei giorni prima, da parte di sua madre, e non lo si era trovato da nessuna parte. Non dovettero forzare la porta, era già aperta, e appena entrati notarono una scia di sangue sul pavimento. Lo trovarono riverso sulle mattonelle della cucina, il ventre crivellato di piccoli, numerosissimi fori. A pochi centimetri dal suo braccio sinistro giaceva, coperta di sangue e brandelli di carne, un’arma del delitto non comune: un vecchio cavatappi rosso, un po’ arrugginito.