di Giacomo Cavaliere
Copertina: Senza titolo – Aurora Dell’Oro
Era bellissima.
Non facevano che ripeterlo tutti, da sempre, al punto da farlo sembrare la cosa più ovvia del mondo. È difficile immaginare l’aspetto di qualcuno che si è conosciuto da vecchio, che sempre si ricorderà con la pelle grinzosa, gli occhi incavati e la scorza stropicciata. Una bellezza memorabile, intonsa, geometrica, ancora ben visibile nelle stinte foto di famiglia con gli angoli rosicchiati sparse sul tavolo cosparso dei residui del pranzo. Immancabile conclusione di ogni convivio domenicale. Gli ingranaggi della memoria oliati da moscato e cantucci, o pasticcini e Sauternes, quando un cugino provava elevare il palato comune a sapori più raffinati, e spezzare lo scroscio ininterrotto di pessimo rosso frizzante.
Silvia adorava il brandy de Jerez; suo padre ne aveva riempito la casa tornato dalla Spagna. Le bocche giovani tendevano a rigettare il sapore del brandy, le papille impiegavano decadi ad abituarcisi, una vita intera ad apprezzare fino in fondo tutte le tappe il percorso dall’esofago allo stomaco. Ma ancora di più amava la cachaça, per quanto non avesse il piacere di berla spesso. Le labbra per poco non ne avevano dimenticato la dolcezza, finché zio Mimì non portò due bottiglie di Velho Barreiro e lei sgranò gli occhi come avesse visto un fantasma del quale s’era rassegnata a non ricevere più visita. Se non fosse stato per la guerra, sorrideva, non ne avrebbe mai neppure scoperto l’esistenza.
I vecchi la sapevano lunga, bisognava saperne di cose per arrivare vivi e pensanti alla loro età. E nessuno aveva niente che potesse competere con quello che raccontavano, nessuna storia che reggesse il passo dell’epica di cui erano portatori. Le storie riesumate di domenica in domenica, erano esattamente ciò per cui valeva la pena di sopportare sei giorni di tediosa inutilità. Sei giorni vuoti. Sei giorni senza epica.
Vecchie foto spuntavano dappertutto, una regressione temporale capace di raggiungere mete impensabili. Silvia non beveva vino, spesso accompagnava bolliti e arrosti col brandy. Le colava in gola come melassa calda, il sapore evocava l’olezzo stantio delle foto rimaste mezzo secolo in un baule. Nafta per il cervello, diceva. Unici dagherrotipi superstiti di un tempo fossilizzato. Adorava i dettagli, ma li elargiva con parsimonia. Conservati gelosamente nei recessi della vecchiaia per proteggerli dall’impietosa infezione che il tempo era per la memoria. Di certe cose non ci si poteva dimenticare, altre non si dovevanodimenticare. Un uomo impiega una vita intera per discernere questa sottile differenza, qualche volta non ne basterebbero due. Per fortuna, a Silvia piaceva bere e non aveva marito che imponesse limiti sulle sigarette o censurasse le sue parole. In chiesa, diceva, non ci metteva più piede da quando era finita la guerra. E non una sola volta c’era entrata per pregare.
La fine doveva essere vicina. Tutti erano sicuri che la cagnara si sarebbe conclusa entro poco, gli Alleati avevano solcato la via Appia e liberato Roma, spalancata fanciulla bisognosa d’emancipazione. Un altro mese abbondante per arrivare all’Arno. In paese li aspettavano da oltre tre, ma all’orizzonte non si muoveva foglia. Qualche sbarbatello tronfiava di poterli raggiungere in bicicletta, in groppa a un mulo, a piedi, con un fagotto sulle spalle. Qualcuno ci aveva anche provato, e solo Iddio poteva sapere se c’era riuscito o quanto orribile fosse la morte a cui era andato incontro. In paese gli uomini non erano più molti. I giovani scampati ai patrii reclutamenti erano finiti quasi tutti bendati nei cassoni dell’Ordnungpolizei e della nuova Guardia nazionale repubblicana. Una compagnia di divise color cachi dello U.S. Army scese dagli autoblindo e dagli Sherman con incedere esotico, spavaldo, una prestanza creola più latina che anglosassone. Gli ufficiali erano di pelle chiara, alcuni con capelli biondi e occhi verdazzurri, di una fisionomia mitteleuropea piuttosto familiare, in contrasto con l’idea degli yankee modellata dall’immaginazione. Chi li aveva mai visti, del resto? Potevano essere inglesi come australiani, forse greci, polacchi o francesi alla testa di una brigata di goumier marocchini reduce dalle devastazioni in Ciociaria. Un ufficiale giovane e affusolato, tutto nervi e spigoli, coi capelli biondi e gli occhi azzurri, fisico da atletica leggera, fu il primo che sentì parlare. La bocca sembrava muoversi appena emettendo un effluvio di note morbidissime, una cantilena del tutto priva di asperità. I soldati della compagnia erano quasi tutti bassi di statura, livellati dall’addestramento alla stessa, ordinata altezza, carnagioni olivastre formavano un ventaglio dall’ambrato, al camoscio, al tenné, al nero più nero degli abissini. Avevano occhi che parevano onici e opali incastonati nella roccia.
I pezzi della divisa cadevano sulle assi del pavimento, appena varcato l’ingresso di una casa priva di guardiani; prima l’elmetto, poi gli stivali, il giaccone, i calzoni, senza fretta né tentennamenti, ma anche senza formalità, quasi rivedesse in quel minuscolo salotto dalle molteplici funzioni l’antro di casa sua. Sapeva leggere i galloni. Sottotenente, maresciallo, ammesso che fossero gli stessi dell’esercito che avevano sconfitto e parzialmente inglobato. Il Regio esercito s’era ridotta ad una sparuta forza cobelligerante; la guerra era terminata com’era iniziata, ora era il tempo degli assassini. Quei soldati non avevano niente degli americani, trasudavano un erotismo inconoscibile, una scia di colore che la gente non riusciva, per quanto si sforzasse, a identificare. E niente spaventa di più l’essere umano di ciò che non riesce a comprendere. Silvia lasciava cadere la sottana, si spogliava del cencio della nonna per lasciare che l’ospite assaggiasse un tenue preliminare, prima che lei si mettesse seduta di traverso sulle gambe nude di lui e pian piano lasciasse discendere la punta delle dita dai capezzoli fin giù attorno all’inguine. Sentiva il membro irrigidirsi e trasformarsi in un’asta orientabile in un’unica direzione, il sangue rigonfiava i vasi spingendo sulle pareti del pugno stretto ad anello tutt’intorno. Nessuno dei due era solito dire nulla, finché la fusione di corpi e di schiene sudate non si scindeva di nuovo in due distinte figure, in due coppie di polmoni che producevano affanni nuovamente distinguibili. Lei era silenziosa, tanto per indole quanto per necessità, il paese aveva orecchie ovunque. Oltre le persiane cieche e di là dalle pareti, persone sprovviste di un’esistenza aspettavano il momento di potersi cibare di quella altrui. La sua, soprattutto. Di tutte quelle vite che avevano riacquistato il sapore della carne. Nessuna brava fanciulla cattolica avrebbe mai dovuto vivere sola, ma su come arredare quella solitudine ognuno disponeva la sua sentenza.
Non ricordava d’aver intrattenuto conversazioni tanto interessanti; aveva tenuto la bocca chiusa per quasi un anno, senza nemmeno rendersene conto, rifuggendo qualunque avvicinamento dell’umanità che non fosse indispensabile alla sopravvivenza. Quella conoscenza post-coitale aveva assunto i connotati di una favola sporca man mano che l’estate degenerava in un autunno inclemente. La stufa accesa, i corpi nudi ancora contratti nell’abbraccio cristallizzato dagli orgasmi. L’ebrezza del coito li aiutava a parlare, a snocciolare qualunque cosa volessero senza il timore d’essere capiti. Dalla sua bocca fluivano armonici fonemi assemblati in un’esotica filastrocca appena la testa ardente dello svedese toccava l’estremità della sigaretta arrotolata e l’ebrezza dell’eiaculazione lubrificava i pensieri. Rimaneva incantata ad ascoltare, replicando in italiano ciò che le passava per la testa, suggerimenti di una comprensione ipotetica, un significato del tutto subordinato alla musicalità. Non aveva mai udito una lingua tanto soave. Lei accarezzava la costellazione di cicatrici in rilievo sparse dalle spalle al fondo schiena, lui si divertiva a elettrificare la peluria trasparente sulle braccia stuzzicandole i lobi con la lingua. La paura dell’incertezza si discioglieva nel tepore del sesso, e Silvia si lasciava cullare nuda da quello scroscio di fonemi concepiti per la musica. Una musica che non richiedeva traduzioni. Il fado, la chiamava.
I solchi di pelle cicatrizzata avevano forme diverse, piccoli grafemi di dolore da poter leggere a occhi chiusi, scritti con un gatto a nove code. Aveva alcuni tatuaggi appena visibili, impressi sotto pelle da uno spillone tremolante, il ritratto di qualcuno in un ovale, una data: Minas Geraes, 26 novembro 1910. Per alcune parole bastava la logica dell’assonanza, per altre l’intuito. Era stato in marina, non erano serviti grandi sforzi per capire che chibata significasse scudiscio.
Non aveva mai avuto la possibilità di approfondire la conoscenza di un uomo in termini così tragicamente puri, una conoscenza umana che sgorgava direttamente dallo scontro delle carni che infuocava la pelle e ammansiva viscere in subbuglio. Le dita affusolate di Silvia toccavano la toppa col vessillo della divisione, un serpente verde che stringeva tra i denti una pipa. Era un sergente, di questo ne era certa, lei aveva tenuto a dire come si chiamasse ma non aveva mai chiesto il suo. Quei soldati bevevano tutto il giorno ed era chiaro che la loro idea di guerra fosse incompatibile con quella del vecchio mondo. Ma era sempre meglio affezionarsi il meno possibile ai soldati. Nessuno di loro si vergognava ad ammettere che preferiva scopare piuttosto che sparare, ma era chiaro che non avrebbero esitato a farlo, appena le circostanze l’avessero richiesto; per loro la vita umana in tempo di pace o di carneficine non mutava granché il suo valore: solo le ore e le settimane trascorse sembravano avere un qualche significato. Avevano occupato il villaggio come una goliardica forza di pace, scaricando cibo in scatola, cioccolata, salsicce, verdure del sud e la loro acquavite al sapore di melassa, su qualunque tavolo venissero invitati. Tutti smaniosi di accaparrarsi cartoline di felicità con cui consolarsi alla partenza, per stemperare le previsioni su ciò che li aspettava di là del Serchio o con cui sollazzarsi per il resto della vita, se fossero riusciti a conservarla. Immaginava che il colore della pelle bianca delle donne del paese li facesse fibrillare nella stessa misura in cui le donne impazzivano per l’ebano. Donne color avorio spalancavano le porte e le richiudevano di colpo, spostavano credenze e cassettiere e sbarravano le imposte, per dedicarsi ai loro ambrati salvatori.
«Sai perché quello stemma sulle divise?» le chiese il calzolaio con fare biasimevole. Silvia non rispose, era uscita di casa col collo storto, gli occhi bassi per non incrociare quelli altrui. «Perché anche loro sanno che è più facile che un serpente inizi a fumare, piuttosto che il Brasile entri in guerra.» Il vecchio non alzò mai gli occhi dalla suola che stava inchiodando, pronunciò ogni parola con estrema calma, il tono austero e placido di chi non distingueva tra minacce e promesse. Silvia ebbe la sensazione che quella bocca baffuta emettesse sentenze a nome di tutto il paese, di tutte le anziane, delle vedove rabbiose, dei pochi, anziani repubblichini rimasti a casa. Il calzolaio sapeva che Silvia non era l’unica fanciulla a seguire l’effluvio di cacao che portava al cioccolato. Dai granai e delle stamberghe in cui si nascondevano con le ragazze, l’esotica orda d’oro scivolava in sogni femminili rimasti desolati troppo a lungo.
I vecchi abbassavano lo sguardo al passaggio dei barbari mori, sputavano a terra, serravano le imposte, confabulavano tra di loro di stupri mai avvenuti, unica soluzione rimasta per salvare l’onore delle fanciulle diventate di colpo meretrici contro volontà. Quale incantesimo creolo stavano esercitando? Doveva provenire da quella strana musica che suonavano da ubriachi. Le notti non portavano niente di buono. L’aria stagnava, l’atmosfera imputridiva senza la carezza di un solo afflato di vento. Una cappa immaginaria sembrava essere calata sul paese, raccogliendolo all’interno come un formicaio sotto una pentola capovolta. Al baretto, i vecchi non litigavano più, non ringhiavano ai vincitori d’essere dei bari e, soprattutto, non scherzavano più sulle corna. Non gli scappava mai neanche per scherzo il nome della moglie d’un altro, delle proprie figlie e nipoti. Bevevano con più voracità, non pativano più la riduzione dei pasti, trangugiavano vinaccia addizionata con grappa cristallina distillata in paese, più simile a un whisky di grano, e centellinavano le damigiane di chianti. Guardandosi negli occhi, con le carte pinzate dalle dita in modo innaturale, si scambiavano sguardi obliqui che raccoglievano le tacite sentenze modulate al loro perpetuo tavolino. Sembrava anche esserci più gente, come se tutti gli uomini rimasti avessero deciso di sviluppare una comune passione per il bere in pubblico. Di solito, in altri tempi, preferivano bere a casa, al tavolo, dopo il lavoro, durante la cena e prima d’addormentarsi. E ubriacarsi dove nessuno poteva vederli. Adesso, si ubriacavano di metanolo dove il loro sguardo giudicante poteva posarsi ovunque. Le strade s’erano fatte più silenziose, alcuni reparti avevano lasciato il paese, ma non il sergente, le cui visite andavano moltiplicandosi man mano che la temperatura precipitava verso l’autunno e le temperature degradavano all’ostilità di sempre.
Sarebbe stato un inverno freddo, che entrambi avrebbero facilmente sconfitto avvicinando il sofà alla stufa. Lo stoppino del tempo si consumava nella reciproca ispezione anatomica, nella ricerca vicendevole degli ingranaggi del piacere. Le lingue duellavano al fioretto e disegnavano traiettorie sconnesse tra collo e cosce. Un terzo di bottiglia di Cardenal Mendoza permise a Silvia di liberarsi di uno sfizio, la mano sinistra si strinse attorno al membro violaceo del sergente, mentre l’altra trascinava il palmo calloso di lui sul monte di venere, invitandola col polso a scendere con le carezze verso il basso, tra le cosce, al capolinea di ogni dolcezza. Il corpo di Silvia era pallido e soffice come un cuscino d’oca, ma generoso nelle forme e ancora lontano dal momento in cui avrebbe sentito la presenza della gravità. Il sergente era abbastanza giovane, poteva avere sei o sette anni in più, un carapace ispessito da paura e cicatrici, ma incredibilmente attraente. Almeno per alcuni occhi, nonostante il deperimento fisico dato dal repentino invecchiamento dei soldati. Lo stesso tipo di precoce decadimento che coglieva coloro che dovevano evitare la morte per rincorrerla di nuovo. Gli incontri andavano moltiplicandosi nel piccolo paese arroccato alle pendici d’un mondo nebbioso e brulicante di morte, in posto qualsiasi di un qualsiasi angolo dimenticato, in un reciproco e incendiario bisogno d’esoticità. Il ricambio era cominciato a metà settembre, il terzo plotone venne trasferito di notte verso il fronte del Serchio, con l’avvicinarsi dell’inverno fecero ritorno i primi feriti. Qualcuno di loro, aveva già un’infermiera ad aspettarlo.
Il sergente non aveva mai lasciato il paese, o tenuto lontane le mani dal corpo di Silvia un minuto in più di quanto servisse a svolgere le sue mansione. Non che ne avesse più di tante, una volta allestita la colazione nelle aule della scuola elementare, dove bivaccava la maggior parte dell’unità.
I capezzoli spuntavano dritti da due sode e precise circonferenze ben salde sul petto, del tutto aliene a qualunque attrazione gravitazionale, in insieme di precise distanze tra gli occhi, il naso e la bocca, come se l’avessero progettata con la sezione aurea. Lasciarsi ammirare nuda, sdraiata sul tavolo o sul pavimento, raffreddandosi ancora per godersi la sferzata, il fuoco dell’impatto, palpitando per l’eccitazione che scendeva tra la curva delle natiche e sgocciolava sul legno del pavimento. Sentiva d’essere appena stata liberata da un ghiacciaio e scongelata da un calore mai avvertito prima. Il tipo di calore che ogni uomo, marito, fidanzato e compagno di banco del loro stesso colore avrebbe dovuto saper dare, al di là d’ogni romanticheria e mordacchia matrimoniale. Nessuno le aveva mai insegnato a vedere il sesso senza vergogna, a ignorare colpe, giudizi e processi civili che ruotavano attorno ad un coito che non si poteva neppure nominare. Senza quelle insulse eiaculazioni doverosamente concesse dalle loro madri ai mariti che rincasavano e che avevano tutto il sapore di un dovere. Il sergente aveva scoperchiato un forziere di ricchezze senza doversi piegare alla lingua, e senza neanche aver coscienza di farlo. Finalmente, anche l’ultimo briciolo del timorato senso di colpa che era obbligata a portare come orfana di El Alemein era stato incenerito. Un uomo bussava alla sua porta ed entrava in casa soltanto per amarla. Amare il suo corpo, la sua pelle, il binomio di colori castano corvini e bianco perla, e tutto ciò che conteneva. Aveva ancora un qualche diritto di sognare.
Per quanto misero, piccolo e decrepito fosse il paese, il campo santo era enorme. Per i morti lo spazio non sarebbe mai bastato. Si faceva sempre in fretta a mettere una croce. «Cinquant’anni fa avremmo bruciato vive tutte le sgualdrine e saremmo finiti a chiavarci le scrofe!», sentì borbottare per strada. Un paese ridotto a cimitero, non aspetta che un rumore inaspettato per risvegliarsi. Il sergente la aspettava a casa. Lei sigillò fuori la realtà con tutti i chiavistelli, l’incontro riprese da dove si era interrotto. Era uscita solo per ascoltare l’etere e rispondere con una comparsa a quelli che già la immaginavano morta. Gli strilli si levarono dal ciottolato delle strade, qualcuno stava scappando, qualcun altro lo stava rincorrendo. «Bastardi, negri!» Il sergente distolse a fatica il naso dai capelli sciolti di Silvia, respirò una profonda voluta della sua fragranza; puntò lo sguardo sulle persiane richiuse dietro la finestra, quasi potesse vedervi attraverso; la scarica non lo scosse, non trasalì, una mitragliata breve, sorda. Un piccolo calibro. Sette, otto colpi singoli di risposta, gli schioppi metallici dei Garand. Il sergente scansò il corpo infiacchito di Silvia e per poco non la scagliò a terra. Lei lo guardò rivestirsi mentre si proiettava fuori dalla porta. Le cosce erano ancora divaricate verso la porta, a raccogliere l’aria fredda che saliva dalle scale per scontrarsi contro le volute calde del suo corpo. Poggiò la schiena contro il sofà, la mano scivolò tra i seni, le unghie pinzarono i capezzoli, agguantò una tetta con la mano a coppa mentre l’altra superava l’ombelico e s’immergeva nel succo che le bagnava le labbra più nascoste. Avrebbe concluso da sola, con la porta aperta, sicura che il mondo avesse altro da fare; due scariche di mitra la disturbarono, acuendo il ritardo accumulato sul piacere, si distese sul pavimento freddo, spalancò le ginocchia al limite delle possibilità e riuscì a recuperarlo, raggiungerlo, conquistarlo. Da qualche parte, sette metri più in basso, qualcuno faceva lo stesso con la morte.
Quando scese stringeva le spalle in un càban color blu marina in cui non aveva infilato le maniche. Non c’era nessuno, eppure l’assembramento sembrava sotto la sua finestra, la cagnara si era spostata di qualche via. Arrivò alla fine della strada e svoltò a sinistra, discese i gradini del vicoletto e sentì il concerto di bestemmie e imprecazioni bilingue che provenivano dal pollaio dei Valentini. Impiegò un po’ prima di discernere le circostanze che si erano accavallate l’una sull’altra. Il vecchio Valentini era tornato in città con un pugno di camerati delle Brigata nera mobile, repubblichini senza divisa. Qualcuno era andato a chiamarlo, a raccontargli di come un reggimento di schiavi negri stesse trasformando tutti le loro immacolate figlie in navigate puttane. La figlia tredicenne penzolava nuda da una trave portante del soffitto del pollaio, la sottana tirata sopra i seni, avvolta attorno a testa e collo come il cappuccio nero di un condannato. Valentini e e due sbarbati repubblichini giacevano a un centinaio di vetri più avanti, in un viottolo vicino. Due giorni dopo, Bernardo Pozzi, di professione argentiere, sparò alla moglie Giuditta e alle tre figlie dopo che la maggiore non era rientrata per la notte. I brasiliani lo fucilarono lo stesso giorno e lo fecero seppellire in una fossa senza nome, alla sola presenza del parroco.
Dopo quei fatti cominciarono a incontrarsi nel rudere della chiesetta di Sant’Egidio. Una chiesa di campagna col tetto divelto da un’ignota artiglieria o bersagliato da uno squadrone notturno. La struttura era instabile, enormi crepe disegnavano ragnatele sulle murate sopravvissute della navata, l’interno era quasi sempre allagato, sopravvivevano solo un paio di panche integre e un crocifisso di legno senza Cristo, collocato nel cratere in cui era sprofondato l’altare. Nessuno li avrebbe disturbati e, se gli fosse capitato di morire, non esisteva posto migliore. L’avrebbe trovata lì, al ritorno dalla missione di sfondamento della Linea Gotica, in Romagna. La porta era ostruita dai detriti, si apriva con estrema difficoltà: non era il tenente, loro usavano altri ingressi di servizio ricavati dagli squarci dei bombardamenti. Quando la porta si aprì, Silvia teneva la Beretta puntata sull’intruso. Alzò subito le mani, scavalcò ogni genere di arredo frantumato, aveva il fare sicuro dell’ufficiale, si presentò come il maggiore Joâo Morales Cordova de Lucìa. Doveva avere una quarantina d’anni, era alto e prestante, pelle e lineamenti europei, l’ostentata superiorità del colono. La informò senza emozione che il sergente era tra i quarantacinque caduti di Fornovo. La sacca nazifascista fu l’ultima a deporre le armi, il giorno dopo la morte del Duce. La guerra era finita, e Silvia non aveva avuto modo di festeggiare. Il maggiore distese le braccia, le cinse la spalla e la invitò ad avvicinarci senza imprimere alcuna forza. Si scambiarono una lunga occhiata che condensò i desideri di entrambi. Lui si slacciò i calzoni della divisa, Silvia si chinò su di lui, avviluppò le labbra come sapeva e risucchiò via la guerra. Faceva caldo, rimasero lì tutta la notte, nell’intimità garantita dai due piantoni che riuscivano a godere di uno spettacolo sonoro che si liberava dalla navata scotennata. Silvia raccontava che se i brasiliani non fossero rimasti in paese, le avrebbero uccise tutte quante; sarebbero finiti davvero a scoparsi le scrofe. Quante volte ho sentito questa frase. Ognuno in paese ha una storia diversa da raccontare sui brasiliani. Qualcuno li dipinge come unni, quasi nessuno come brave persone. A parte la nonna Silvia. Ascoltavo l’aneddoto ogni anno, ogni festività lo arricchiva di dettagli sempre più tetri e interessanti, man mano che la nonna avvizziva nella vecchiaia. Le mani, quasi sempre incrociate sul tavolo, scendevano sulle ginocchia, risalendo di qualche centimetro sulle cosce, dove le teneva finché non restava sola, e finalmente poteva rivangare e concedersi tutti gli stinti fotogrammi a cui non osava più dare voce.