Rebus
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 11/12/2020 0 Comments 10 min read
Bugiardino sincero Previous Uno, due, tre, tornerò da te Next

di Marco Corvaia
Copertina: Senza titolo – Chiara Casetta

Il mio unico amico ha smesso di respirare in diretta. Lo viviseziono per conoscerlo in maniera completa, per poterlo rispettare con maggiore consapevolezza. Al suo interno scopro nuovi orizzonti affettivi, con la fiducia alla base di tutto, una fiducia diamantifera, più forte del bisturi con cui gli apro la carne.
I miei follower apprezzano. Sono decine di migliaia e sanno che mi butto dalla finestra pur di non mangiare la minestra. E se mi rompo un braccio non mi lamento, anche se preferirei abitare al piano terra. Rebus è un urlo feroce, commentano, un carro armato in tempo di pace, un frutto bellissimo e velenoso, l’occhio di un ciclone che spazza via la mediocrità. Rebus non si ferma mai, se deve riposare fa in modo che il resto si muova. Io sono Rebus.
Gli ho asportato i bulbi oculari e l’ho divaricato. Nella testa del mio pesce il cervello è minuto, molle e indifeso. E il suo cuore è ostinato, il fegato è incredulo, l’intestino e lo stomaco si abbracciano, il sangue è gentile, la lisca sopporta. Sento un spasimo amorevole mentre incido, recido e asporto con movimenti fluidi. So già che di lui mi resterà un ricordo splendente, nell’esplorazione della bellezza, che risiede ovunque, anche nella morte.
Ogni mia azione è creazione. Niente nasce per caso, non mi piace perdere tempo. Rebus è un vulcano in continua eruzione, commentano, una miriade di visioni. Rebus è stracolmo di parole, monumenti vertiginosi, arnesi appuntiti, cattiveria selvaggia, spirali ipnotiche, montagne di creta, tempeste, enigmi e sfere di cristallo per predire il futuro. Loro sono sempre con me quando creo. Io sono qui e in decine di migliaia di altre stanze.
La premeditazione è alla base di ogni mio atto, anche di questo. L’ho chiamato Passe-partout e ho immerso nella boccia di vetro in cui ha vissuto tanti piccoli teschi di pietra, scolpiti con precisione. Doveva essergli chiara la sua sorte.
Bussano alla porta della mia stanza. È mio padre, lo riconosco dal tocco pesante. Lo ignoro. E quello urla che devo prepararmi per la cena; stanno per arrivare lo zio e sua moglie.
«E non fare casini, non puoi permettertelo, ne hai già fatti troppi.»
«Sono soltanto cadute le prime gocce, il diluvio deve ancora arrivare», dico senza distogliere lo sguardo dagli organi di Passe-partout.
«Oggi dovrà splendere il sole, hai capito?»
«Sei meteoropatico, caro contribuente?»
«Non turbarmi, potresti pentirtene.»
«Quello che sai è niente in confronto a quello che non puoi neanche immaginare. Turbarti è facile, stai calmo e ogni cosa scorrerà nel verso giusto.»
«Sbrigati!», mi urla, e torna a parlare con qualcuno che non lo disprezza.
Poggio il bisturi accanto al tagliere su cui è steso Passe-partout. Mi siedo di fronte a lui e gli sfioro le interiora con le dita: «Sei l’apertura di un varco sentimentale. La tua presenza nella mia vita, durata un anno, è nulla rispetto a questo momento. Te ne sono grato». E interrompo la diretta.

La cena è abbondante, tutti gustano i vari cadaveri su bei piatti decorati. Io mangio in silenzio, non degno nessuno di uno sguardo, osservo i contorni degli oggetti disposti sulla tavola e li deformo nella mente. Ogni tanto mi viene da sorridere e tutti si stupiscono. Mi chiamano Rebus perché non mi capiscono. Mi piace essere chiamato così.
«E a scuola come va?», mi chiede zio Leonardo, fratello di mia madre, immeritevole di qualsiasi considerazione.
«Ti dico io come va», s’intromette mio padre.
Lo lascio fare, la sua meschinità mi è indifferente.
«Non lo vogliono più in classe. Questo fenomeno sta cercando di farsi espellere anche da questa scuola. E se succede… una parola sola: collegio. Il più duro che c’è, e anche il più lontano. Così forse comincerà ad apprezzare quello che possiede.»
«Ma perché, cos’è successo?», insiste zio Leonardo, che non sa niente di me.
«Non risponde all’appello. Lui si sveglia al giusto orario, si prepara di tutto punto, arriva a scuola, prende posto, c’è l’appello, il professore dice il suo nome e lui non risponde. Il professore lo vede e continua a chiamarlo, lui dovrebbe dire soltanto “presente”, invece fa finta di niente. La spiegazione che dà al professore è molto semplice: il cognome è il nome della famiglia e non il suo personale, quindi gli sembra errato dire che è presente. Soltanto quando il professore dirà il suo nome completo risponderà all’appello. Dicono che al ragazzo piace disobbedire, che ribellarsi lo diverte. Non sopportano più le sue provocazioni.»
«Be’, caro, in questa società ci sono delle regole e bisogna rispettarle se non si vogliono avere dei problemi», mi suggerisce zio Leonardo, che lavora in municipio grazie a una raccomandazione politica.
«Io non ho nessun problema», rispondo con viso d’angelo e cuore di diavolo, fissandolo bene, mentre quello vomita le banalità di un uomo che somiglia a una pecora.
Si aggiunge alla distribuzione di frasi fatte anche sua moglie, una donna che si suiciderebbe se non esistesse il pettegolezzo. Questo soggetto anacronistico fa la casalinga, va dal parrucchiere più spesso che può e guarda tanta televisione, nient’altro. Conclude vantandosi degli ottimi risultati universitari di loro figlia, la repressa più infelice che conosco. Poi tornano alle chiacchiere insulse di prima, convinti di aver fatto il loro dovere.
Io continuo a fissare zio Leonardo. Sul suo viso, così pallido, tondo e liscio, starebbe bene il rosso, ne sono certo. È una testa con capelli bianchi e occhi chiari, gli manca colore per avere armonia ed equilibrio. Mi alzo, faccio il giro della tavola, gli vado accanto e lo guardo in profondità, oltre la sua faccia da idiota. Mia madre mi chiede cosa mi è preso. Non le rispondo e do una testata sul naso di zio Leonardo. Tutti gridano e si agitano come degli isterici. Mio padre mi tira via per un braccio da quell’apparato olfattivo che insanguina la tovaglia.
«Adesso sei perfetto. Voglio scattarti una foto», gli dico mentre viene soccorso.
Ghiaccio sul suo naso, tovaglioli di carta per tamponare il sangue, mio padre che urla contro di me, la mortificazione di mia madre che mi fa infuriare. Mi chiudo in camera abbandonando rumori inopportuni. Quell’opera avrebbe meritato contemplazione.
Emargino la mia famiglia, la escludo dal mio spazio. Essere incompreso per me è una nota di merito, ma che lo siano le mie opere è inaccettabile. I miei strumenti creativi sono tutto quello che vedono i miei occhi-punta-di-trapano. Ho sedici anni e guadagno denaro con i social, la mia immaginazione è in costante espansione. Rebus improvvisa di continuo, mi scrivono, seduce la materia per conquistarla, irradia originalità sul nostro panorama virtuale, dice che tutte le strade portano a Roma se per Roma si intende dire Rebus. Loro sì che mi capiscono.
«Accompagno zio Leonardo all’ospedale. Più tardi faremo i conti», urla mio padre da dietro la porta.
«Cosa dobbiamo contare? Vuoi lezioni di matematica?»
So che mia madre sta piangendo adesso, è preoccupata per me. Crede che la vita di Rebus sarà terribile se non imparerà a comportarsi bene, e si sente impotente, non sa come aiutare chi non vuole il suo aiuto. Non può capire la luce del mio microcosmo. E di sicuro la moglie di zio Leonardo non la sta consolando. Sarà sprofondata sul divano, davanti alla televisione, con un bicchiere di sambuca in mano. Non ricordo neppure il suo nome.
Mi accomodo di fronte a Passe-partout, con ago e filo. Sono pronto per un’altra diretta.

Termino di ricucire Passe-partout, con la Sonata per pianoforte n. 14 di Beethoven in sottofondo, quando mio padre rientra in casa. Inizia subito a picchiare la porta della mia camera, sbraitando come un pazzo: «Adesso basta, tu sei pericoloso! Non ne posso più di te, apri questa porta».
«Rilassati, alla tua età potresti avere un infarto», gli rispondo, sapendo che non potrò lasciarlo fuori per molto. Non l’ho mai sentito così imbestialito.
«Se non apri la sfondo», dice sferrando pugni e calci.
Saluto Passe-partout, indosso il giubbotto e sfilo da sotto il letto la valigia, già ripiena di quello che mi è indispensabile. Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato.
Mio padre è ancora là e ormai sputa frasi sconnesse. Nessun altro dice niente. Donne e ferito assistono muti. Anche i miei follower stanno guardando.
«Mi stai ignorando? L’hai voluto tu», dice prendendo la rincorsa per una spallata decisa.
I cardini saltano, la porta cade giù al primo colpo, ma cade anche mio padre, colpito alla testa dalla grossa sfera che ho costruito con lamette, filo spinato e molle di materasso, tenute insieme da silicone a cui è collegato, con un collare a strozzo per cani, una palla di piombo di dieci chili. L’opera, sospesa sopra la porta, è l’esistenza di un genio, barricato nel suo mondo, dietro difese alzate contro l’eterno nemico: l’uomo banale.
L’ipocrita simbolo del perbenismo, messo in regola con la società grazie alle tasse e al voto, è per terra, stordito, ha dei tagli sul viso e si regge la testa come se stesse per scappargli via. Io resto dritto davanti a lui, lo inquadro, lo rendo performance.
La vittima del mio mondo si accorge della fierezza che lo sovrasta solo dopo qualche istante. Nei suoi occhi leggo il ricordo della notizia del lieto evento, l’emozione e la paura, la gioia e il nuovo senso di responsabilità; si è chiesto come sarebbe stato suo figlio, alto o basso, magro o grasso, biondo o moro, con il suo naso aquilino, con i grandi occhi azzurri di sua moglie? Era felice di avere un maschio, voleva insegnarmi a nuotare, a radermi, a giocare a calcio, e dovevo laurearmi al posto suo. Ma ho cose più importanti a cui dedicarmi: me stesso.
Mi avvicino piegandomi sulle ginocchia, per fare un bel primo piano, e poi bisbiglio: «La fortuna mi aiuta perché sono audace».
Gli altri adulti mi guardano inebetiti, cosa che accade spesso. Me ne vado di casa sorridendo. Nessuno interviene, nessuno protesta. I miei follower sono entusiasti.

Io vedo tutto a modo mio, è l’unico che ha importanza, l’unico che esiste. Diventerò un grande artista e il numero di seguaci crescerà, centinaia di migliaia, milioni. Rebus è un nubifragio, mi scrivono, un viaggio infinito, un popolo in rivolta, lo zucchero per i diabetici, la carne nascosta nel cibo di un vegetariano, un parrucchiere che fa il taglio di capelli che gli va. Rebus è il concetto più vicino alla libertà e la sua libertà non finisce dove comincia quella degli altri.
Cammino nella notte. In tasca ho i soldi che ho rubato a mio padre ogni giorno negli ultimi sei mesi, oltre i miei, sul mio conto in banca. So dove sto andando, ma non lo rivelo, è una sorpresa. Non sono solo. Loro sono sempre con me. Loro mi amano.

Chiara Casetta letteratura Marco Corvaia Passepartout Racconti racconti di famiglia Rebus


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