di Andrea Herman
Copertina: Chiara Casetta
Parte prima
Lascio cadere la biro rossa sui compiti in classe, spalanco la finestra alla ricerca di un altro respiro. L’aria è la stessa di sempre: solite le case, la gente e il paese. Appoggio i gomiti sul davanzale, guardo verso i resti fatiscenti dell’oratorio e trovo un tasso con il muso cacciato tra i bidoni. Fruga tra i rifiuti caduti a terra, spaurisce davanti ai fari di una macchina e si lancia ansimando verso il lavatoio. Sale per il vicolo a fianco, rasente al muro su cui qualcuno ha scritto interisti-leninisti e disegnato una falce-martello. Sotto, di recente, qualcun altro ha aggiunto merde!!! e una svastica al contrario. Non è chiaro se merde!!! si riferisca agli interisti, ai leninisti, a entrambi, o solo agli interisti che sono anche leninisti. Anche se al contrario, la svastica risulta evidente – almeno a me, di certo non al tasso che è mosso dalla fame e da nient’altro. Continua l’ascesa verso la piazza, dove il bar Gregory straripa di ragazzini tra i sedici e i diciannove anni che giocano a stordirsi d’alcol in mancanza di alternative. Hanno volti ingenui, anni feroci che marciano alla loro testa. Vedono il tasso arrivare trafelato e gli puntano contro una schiera di cellulari; lui evita quella specie di plotone d’esecuzione e scappa sculettando verso via della Scimmia. Lì i negozi sono abbandonati, l’osteria ha chiuso i battenti da otto mesi. Il Rosso ha provato fino all’ultimo a mettersi d’accordo con i proprietari per abbassare l’affitto. Loro non ne hanno voluto sapere. Erano fiduciosi di trovare qualcuno che pagasse il dovuto, e invece non hanno trovato nessuno. Adesso il locale viene divorato da tarli e dalla ruggine, consegnato all’usura.
Uno dei ragazzi rompe le righe e cerca di raggiungere il tasso. Lo riconosco, è Zanetti, un mio studente di 3ªF. Da qualche settimana va dicendo che vuole mollare la scuola per andare a lavorare. Si siede al banco e aspetta, fa anticamera per il domani. Se lo chiami in causa non risponde, se lo punisci fa spallucce e se ne frega.
Stamattina l’ho preso da parte per spiegargli che la parola lavoro significa sudore e fatica, e di questi tempi sudore e fatica sono mal ripagati. Zanetti ha ascoltato il predicozzo in silenzio, tanto da farmi credere di aver colto nel segno. Alla fine mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha augurato di morire.
«Da millecinque schifi che erano a mille tondi», ha detto il Rosso la sera della chiusura. «Meglio prendere cinquecento euro d’affitto in meno che non prendere niente, o sbaglio? Invece così io mi ritrovo a spasso e loro nella merda. Non c’ha guadagnato nessuno».
Zanetti rinuncia all’inseguimento, torna verso il bar. Alza lo sguardo e mi vede affacciato sulla piazza.
«Prof! Prof!», grida, «venga giù con noi a divertirsi».
Faccio finta di niente, chiudo la finestra e riprendo a correggere i compiti. Lui continua – gli amici al seguito – poi suona il campanello al ritmo di Ammazza la vecchia col flit.
«Chi è a quest’ora?», fa mamma sbucando dalla camera da letto. Lega la vestaglia con un nodo stretto, strizza gli occhi per controllare l’orologio a muro e spinge il tripode fino al citofono.
«Chi sei? Cosa vuoi? Che scherzi da prete son questi? Guarda che chiamo i carabinieri. Sta lì, disgraziato. Mo’ te la faccio vedere».
Si trascina verso l’altro lato della stanza, fa manovra tra i mobili del soggiorno per mettersi il comodino sulla destra. Quando ci riesce, allunga la mano e solleva la cornetta del telefono.
«Com’è che era? Centododici, centotredici?»
«Lascia perdere», faccio io.
«Il mondo sta impazzendo».
«Sono solo ragazzi».
«Ragazzi una borsa. Dei delinquenti, ecco cosa sono».
Porta il ricevitore all’orecchio, resta con il dito sospeso sui tasti per qualche secondo.
«Stavolta passi», dice. Ripone la cornetta e torna stizzita verso la camera da letto. Nel breve tragitto bofonchia qualcosa sui giovani d’oggi, su quand’era giovane lei; poi dimentica la rabbia e con essa ciò che è successo. Gli anni migliori li ha vissuti, davanti ai suoi occhi si dispiega il passato. Il futuro resta immobile alle sue spalle, come un’idea pietrificata.
Parte seconda
«Te lo ripeto n’altra volta», fa il Rosso al telefono, «stammi bene a sentire. Giri all’incrocio per Cervarezza, lì dalla fontana. Continui sulla strada per trecento metri, ci sei fino a qui? Perfetto. A na certa dovresti trovare il cartello del museo del sughero. Da bon, davvero. Noi qui si scherza mica, andiamo orgogliosi dei nostri tappi. Mica i nani, dio impestato, quelli lì lasciali perdere che a me fanno anche un po’ impressione. La roba del cuore e del culo. De André, giusto? O era Vecchioni? Comunque dal cartello ti ritrovi na carraia sulla sinistra, prendi quella e dopo poco sei arrivato al Kolchoz. Cazzo ti ridi? Te la faccio passare io la voglia di ridere. Tutto chiaro? Ottimo. Allora a dopo, tovarish».
Smorzo il cellulare e apro la porta della sala insegnanti. La collega di francese si sta ingozzando di bonbons mentre legge un poeta sconosciuto di nome Charles Cros. Ogni giorno porta caramelline e cioccolatini per il corpo docente, ma finisce che se li mangia lei.
«Les bonbons sont bons», dice vedendomi entrare. Un risolino isterico le sfugge dalle labbra, assieme a delle briciole di pastafrolla. Continua a masticare, succhiare; agita il libro a ventaglio per darsi delle arie. Dice che Cros era ossessionato dai capelli, les cheveux, e lei – che di capelli ne ha pochi, radi e sfibrati – lo trova delizioso.
«C’è così tanta bellezza nelle piccole cose da riempirci una vita».
«Non ne posso più, che manica di imbecilli», fa il collega che insegna diritto al triennio. Arriva di corsa, getta la ventiquattr’ore ai piedi di una sedia e strappa con i denti l’involucro di una capsula di caffè.
«Sti ragazzi non sanno niente e non gliene frega un cazzo», dice.
«È che siamo sempre di fretta», fa la prof di francese.
«Due calci nel culo assestati bene».
«Dovremmo rallentare, fermarci ad apprezzare il creato».
«E dì che qualche genitore venga a lamentarsi».
«Come si faceva una volta».
«Una volta non era così. Gli studenti si stanno rincretinendo sempre di più. Dove andremo a finire di questo passo?»
Il prof di diritto guarda con disgusto la broda nera che scende dalla macchinetta, la beve con una smorfia. Schiaccia nel palmo della mano il bicchierino di plastica e lo getta nel cestino.
La prof di francese scarta l’ennesimo bonbon, lo sfila con delicatezza dalla velina.
«C’est bon, c’est bon», dice e ride.
«Seh, bona!», fa il prof di diritto. Mi lancia un’occhiata esausta che evito spostandomi verso il mio armadietto. Ripongo compiti e libri, faccio un cenno con il capo e con quello saluto. Mi sbrigo nei corridoi, scongiuro altri incontri con studenti e professori. A casa mangio un piatto di pasta preparato da Luda, la badante di mia madre. Viene tutte le mattine che sono a scuola, più le volte dei consigli docenti e dei corsi di aggiornamento. Cucinare non sarebbe tra le sue mansioni, ma dice che non le pesa e lo fa volentieri. Per questo le passo qualcosa in più del dovuto; per questo e per come la tratta mamma.
«Luda, dov’è la mia collana?», dice rovistando in un cassetto pieno di vecchie bollette, monete da cento lire e pile ossidate.
«Quale collana, signora?»
«Già mamma, quale collana?»
«La mia collana, quella di perle».
Apre un altro cassetto. Anche qui, niente che valga la pena ricordare: solo tracce di consumi più o meno necessari, rimasugli di vita trascurabili; di certo non il posto dove aspettarsi di trovare un oggetto di valore.
«Mamma, non ti ho mai vista indossare una collana di perle», le dico.
«Mica la indossavo», fa lei.
«Poi perché cercarla adesso?»
«L’avevo».
«Cosa te ne fai?»
«E ora non l’ho più».
«Non si preoccupi, signora», dice Luda, «vedrà che salterà fuori».
«Come se tu non sapessi dov’è», fa mamma. «Son vecchia, mica scema».
Muove verso la poltrona – il supporto metallico che la precede, il corpo che si adegua – Luda chiude i cassetti, l’aiuta a sedersi e le passa il telecomando. Mamma lo afferra senza degnarla di uno sguardo, né ringraziare. Luda fa finta di niente, va in cucina e inizia a sparecchiare la tavola.
La seguo, le dico che mi dispiace.
«Non si preoccupi, professore», fa lei. «Ci sono abituata».
«Bel figlio mi ritrovo», scatta mamma, «sempre a prendere le difese degli altri, mai una volta che dia ragione a sua madre».
Accende il televisore, alza il volume a un livello assordante – anche se ha un udito impeccabile – e così separa il suo mondo dal mio.
Con un lungo respiro mantengo la calma, con un secondo respiro la ignoro. Do una mano a sparecchiare: scuoto la tovaglia fuori dalla finestra, mi metto dal lavandino e asciugo i piatti. Preparo una moka, aspetto che il caffè salga e la situazione si stemperi. Collana o meno, non posso lasciare mamma da sola. Devo persuadere Luda a rimanere nel pomeriggio.
Mamma abbassa il volume fino a renderlo appena percettibile. Riesco a vederla, nell’altra stanza, mentre si sporge dal bracciolo della poltrona e tende l’orecchio verso la cucina. Tiene lo sguardo dritto al televisore, origlia come la comare che è sempre stata.
«Kolchoz?», chiede Luda, perplessa; non per la parola, quanto per averla sentita uscire dalla mia bocca. Ruota il manico della tazzina così da poterla prendere con la mano sinistra, poi la porta alle labbra. Mi fissa con fiducia, in attesa di una spiegazione all’altezza della sua curiosità.
I suoi occhi si abbassano su una piastrella del pavimento uguale alle altre quando la deludo, le dico che ne so quanto lei. Probabile sia solo uno scherzo; niente a che fare con l’URSS, la carestia – anche se in occidente non è che le cose, ma questo è un altro discorso. Non volevo insinuare che – o forse sì, chi lo sa. Il Rosso ha una misura tutta sua, è fatto di una pasta strana.
No, non credo che lei lo conosca: un uomo alto, robusto; ha all’incirca la mia età, forse qualcosa in meno, comunque oltre i cinquanta. È mancino, come lei (certo che me ne sono accorto) e ogni volta che ordinavi un caffè girava la tazzina dal verso sbagliato.
Si, gestiva l’osteria qui a fianco, nel paese vecchio: un locale tranquillo e senza pretese. Potevi mangiarci qualcosa, o anche solo fare un salto per un bicchiere.
Ho passato sette anni della mia vita in quel posto. Ma sa come vanno queste cose: sparisce l’osteria e si porta via l’oste, gli amici con cui ti trovavi a bere e tutto quello che c’era dentro, compresa la tenerezza.
Mamma bofonchia qualcosa d’incomprensibile, solleva il telecomando a un palmo dal naso. Alza di nuovo il volume, inizia uno zapping frenetico, si lamenta perché non trova niente di decente da vedere. La guardo affannarsi nella sua recita: una vecchia scorbutica che cerca attenzioni, incattivita da troppe stagioni marce, bisognosa di cure. Per un attimo penso a come sarebbe la mia vita a discapito della sua, mi scopro a desiderare la sua morte. Mi vedo vestito a lutto, circondato da volti pietosi che ammirano il coraggio con cui tiro avanti. Tra quei volti, immagino una donna – più giovane e gentile di mia madre – che s’avvicina, mi bacia; riduce lo scarto che nasce quando qualcuno crepa, traduce l’amore sottratto in un altro e preferibile amore.
«Non c’è problema, professore», dice Luda. «Vada pure dal suo amico, resto io con la signora».
I suoi occhi riflettono la compassione che avevo dimenticato e la depositano nei miei.
«Grazie infinite», dico, mortificato. Luda nota il mio disagio e mi prende le mani. Le sento unite alle mie anche mentre saluto mamma e infilo la giacca per uscire; poi dopo, quando sono lontano sulla Sparavalle, a digerire tornanti in salita.
Parte terza
Svolto alla fontana, trovo il cartello e subito dopo la carraia. Proseguo tra abeti e castagni, fermo la macchina davanti a una serie di paletti piantati nel terreno e uniti da un filo di rete. Nel mezzo, un arco ribassato di legno da cui penzola la vecchia insegna dell’osteria.
Il Rosso ha tirato una riga di vernice sul nome e ci ha scritto sopra “Аврора”. Lo vedo risalire il sentiero, con un cappello di paglia che sembra uscito da un secolo desolato. Cammina sicuro, in un abisso di terra senz’anima e niente a parte le ortiche, circondata dal bosco e un misero orizzonte di montagne. Lui solo, come un eroe di un film western sperso nel deserto; senza un banco liso di gomiti davanti, luci soffuse e file di liquori alle spalle.
Leva il cappello, lo agita in segno di saluto; mi raggiunge e con un fischio fa il gesto di strizzarmi le balle. Dice che è contento di vedermi, mi trova bene. Ricambio le sue premure, gli indico il cartello e chiedo cosa significa “Аврора”.
«Aurora», dice, «come l’incrociatore, quello dal palazzo d’Inverno».
Liscia la barba lunga di un mese o due. Sembra voler aggiungere altro, ma si limita a tirare un calcio alla ghiaia e a sollevare una nube di polvere. I suoi pensieri si dissolvono con essa. Non m’aspetta, s’incammina a ritroso lungo il sentiero e fa il gesto di seguirlo. Gli vado dietro e guardo la sua schiena robusta, senza il nodo di un grembiale stretto in vita. Vorrei chiedergli molte cose ma non so da dove partire. Ripenso a quando i discorsi venivano da sé e si sprecavano nella loro abbondanza. Le notti a tirare al mattino e continuare a bere: chi fumava dentro il locale; chi sproloquiava su dio, sbirri e governo; chi s’incazzava o ascoltava divertito, poi si metteva a cantare dal niente. L’osteria ci rendeva complici e, adesso che non c’è più, il Rosso sembra un déjà-vu di muscoli e nervi, un estraneo dove solo l’ombra tradisce l’uomo che era.
La osservo, la sua ombra: raggiunge i miei piedi grazie alla luce smorta del sole che gli batte in fronte, lungo i due metri scarsi di terreno che ci separano. Sia in lungo che in largo, ha la misura di una bara.
«Cos’è quella faccia da funerale?», dice il Rosso, voltandosi. Si ferma a ridosso di un leggero declivio, mi appoggia una mano sulla spalla e con l’altra indica da basso un casolare di pietra con tutte le finestre rotte. Di fianco, i resti di una stalla e una rimessa con il tetto di lamiera. Poco più in là, dove si sente scorrere l’acqua di un ruscello, ci sono una mezza dozzina di parcelle – così le chiama il Rosso – divise da passaggi di corda bianca e ricoperte da teli di pacciame.
«Non so cosa sto guardando», dico.
«Il Kolchoz», fa il Rosso.
«Giusto, il Kolchoz».
«Che altro».
Arriviamo all’ingresso del casolare. Il Rosso spinge con la spalla la porta marcia e svela una discarica di mobili ridotti in pezzi e ferri rugginosi, ammassati tra quattro mura ammuffite, adorne di ragnatele che muovono agli spifferi come festoni. Qua e là ci sono mucchietti di merde di topo, schegge di vetro e d’intonaco; icone religiose umide e sbiadite in cui cristi, santi e madonne dissolvono il credo in una chiazza giallognola. Una poltrona con la pelle crepata, secca come il letto di un fiume in estate, ha sul fianco i resti di un nido di calabroni. Delle sterpaglie spuntano dal pavimento e richiamano quel piccolo spazio alla sua origine; un passato che è anche futuro, dove l’uomo è una bestia spelacchiata pronta a scomparire.
Però gli occhi del Rosso brillano di fiducia: non vedono nell’accozzaglia di cose i segni dell’estinzione, ma di una rivincita. Spiega di avere ereditato il Kolchoz da una zia che a malapena conosceva e di volerlo risistemare. È convinto di riuscirci nel giro di un anno o due – se tutto va bene – lavorando da solo, in economia, arrangiandosi facendo il cuoco o il cameriere nei ristoranti della bassa per mettere da parte i soldi necessari. Nel frattempo si limiterà a tagliare l’erba e coltivare l’orto durante i tempi morti – che poi sono morti per i fanatici dell’accumulazione, dice il Rosso, incapaci di concepire la vita oltre due lire schife di profitto; padroni di ricchezze senza respiro e senza sangue, che regnano in un deserto d’affetti, pronti a qu— «Quindi hai intenzione d’avviare un’attività?», gli chiedo a brutto grugno.
«Non lo so», fa lui.
«Una specie di agriturismo?»
«Non per forza».
«Allora cosa?»
«Che importanza ha?»
«Nessuna».
«Voglio un posto che sia mio. Anzi, che sia nostro».
«Sembra un progetto ambizioso».
«Anche il socialismo lo è. Tutte le cose belle lo sono».
«Volevo essere sicuro che avessi riflettuto a modo».
«Sono mesi che non faccio altro che riflettere».
«Prima d’imbarcarti in un’impresa simile».
«Ne ho le balle piene».
«Allora siamo a posto».
«Ok, a posto. È tutto quello che volevo sentirti dire».
Mi tira una pacca sul petto, si mette in posizione di guardia. Scambiamo un paio di ganci e montanti per gioco, poi ci spostiamo nella rimessa. Tra vanghe, rastrelli e sacchi di fertilizzante, il Rosso ha infilato un tavolino e due sedie di vimini reduci dall’osteria. Appende il cappello, prende dalla mensola una bottiglia di grappa e due bicchieri. Propone un brindisi e un altro: al Kolchoz, ai compagni a venire, alla rivoluzione – che se non è domani sarà poi quando dev’essere – ai poveri Lolli e Gaber e alla povra zia che non ci sono più, e pure a chi non c’è mai stato.
Andiamo avanti per chissà quanto, con solo il livello della grappa che scende a scandire il tempo.
«Al tocca!», grida il Rosso.
M’abbraccia, mi bacia.
«Siamo amici noi due?», chiede.
«Come no», faccio io. «Culoe patàia».
«Dico sul serio».
«Anch’io».
«Allora non perdiamoci più di vista».
«È una promessa?»
«Quello che vuoi».
Versa l’ultimo goccio rimasto quando fuori è ormai sera. Fa per prendere una seconda bottiglia dalla mensola; ne approfitto per dare un’occhiata al cellulare. Trovo diverse chiamate perse di Luda. Richiamo, mentre una pioggia fitta inizia a battere sulle lamiere.
Il Rosso lascia perdere la grappa, esce nei campi e si mette a danzare la pioggia.
«Pronto? Professore», fa Luda al telefono.
«Scusi, so che è tardi», dico io.
«È tutto il pomeriggio che la cerco».
«Ma sa come vanno queste cose».
«Perché non ha risposto prima?»
Sento che inizia a singhiozzare, mentre il Rosso apre la bocca al cielo e pare in grado di potersi bere anche quello. Un fulmine cade a ridosso del Casarola, la montagna s’illumina un istante e torna a rabbuiarsi in attesa del tuono.
«Fiocca giù come le bestemmie», sbraita il Rosso.
«È successo qualcosa?», chiedo a Luda. Lei fa un lungo sospiro, lo soffia nel ricevitore come il temporale che avanza.
«La signora», dice.
«Mia madre? Sta bene?»
Rimane in silenzio, cerca le parole giuste.
«È la fine del mondo», fa il Rosso.
«La signora», ripete Luda. «La signora».
Parte quarta
Il Rosso si getta addosso un paltò sfilacciato, insiste per accompagnarmi. Mi segue con il suo pick-up giù per la Sparavalle e lungo viale Bagnoli, fino all’ingresso dell’ospedale. Entriamo con gli sguardi pesti, fradici di pioggia e di grappa. La balla scende in un amen e i postumi sudano nella sciagura. Luda mi viene incontro, mi stringe a sé; anche rigati dalle lacrime, i suoi occhi sono gentili e aprono moltitudini. Dice che è successo in un attimo: stava bene, si muoveva – al solito, come può fare una vecchia con problemi motori – poi non si muoveva più, non riusciva nemmeno a parlare.
Un dottore spunta da una grande porta bianca vestito con un camice bianco; anche la sua voce è bianca come quella di un ragazzino imberbe. Parla di ciò che non è stato, dimostra di conoscere tutte le possibili cause tranne quella che ha colpito mia madre.
Aspetto che finisca il discorso, poi dico a Luda e il Rosso che possono andarsene. Loro insistono per rimanere. Sto bene, ce la faccio, grazie, non serve, non vi preoccupate. Li vedo svanire nel buio umido oltre la porta automatica. In fondo al corridoio, due persone attendono chissà quale esito tenendosi per mano. Davanti a loro, malati spinti da operatori sanitari vengono e vanno come desideri reconditi.
Passo la notte in ospedale, e così le notti seguenti. Le mattine continuo ad andare al lavoro, tengo lezioni che sono sempre le stesse. Il prof di diritto mi blocca in un cambio d’ora, dice senza cerimonie che ho una brutta cera e consiglia una settimana o due di aspettativa. La prof di francese s’unisce a noi: mi regala una confezione di Leonidas che ha fatto arrivare apposta dal Belgio, domanda sulla degenza di mia madre. Più tardi la incontro di nuovo mentre scappa in lacrime dalla 3ªF. Zanetti ha pisciato in classe dopo che lei gli ha negato il permesso di andare in bagno. Si è tirato giù le braghe e l’ha fatta contro la cattedra. Qualche schizzo le è finito sulle scarpe.
La prof di francese resta scalza davanti alla sala insegnanti a gridare disperata con le mani nei pochi cheveux. Gli studenti escono al suo appello: la riprendono con i cellulari, sghignazzano; lei sbraita più forte per vincere le loro risate. Dopo un po’ ritrova la calma, si mette a cercare le scarpe che nel frattempo sono scomparse. Indossa un paio di ciabatte da doccia – raccattate da un bidello tra gli oggetti smarriti della palestra – quando viene chiamata la preside, convocati i genitori. Viene decisa la sospensione del ragazzo, io decido per l’aspettativa. Quindici giorni a me, quindici giorni anche a Zanetti. Quel pomeriggio, prima di andare in ospedale, trovo su youtube un filmato di 3:34 minuti fatto dai ragazzi; riguardo la prof di francese che si dispera sette-otto volte, ingozzandomi di Leonidas fino alla nausea.
Dottori e infermieri sfilano per la camera di lungodegenza, dove il corpo di mia madre smagrisce sul letto, attaccato a una flebo e a un respiratore, con gli occhi spenti al soffitto e le mani livide di gesti che non potranno più compiersi. Vorrebbero darmi notizie, i dottori, buone o cattive che siano, ma ogni esame è risultato inconcludente e ulteriori esami sembrano inutili. C’è da portare pazienza, sperare; se dio vuole, più che la medicina; sperare ma non troppo: vista l’età, il resto; insomma, sperare il giusto – che si riprenda, o forse, se dio non vuole, che s’abbandoni alla luce; o quello che è: nessuno lo sa, nessuno è mai tornato indietro a spiegarlo.
Resto al suo fianco e aspetto che qualcosa succeda. Luda arriva qualche ora dopo per farmi compagnia. Le lascio l’unica sedia della camera, rimango appoggiato al muro tra l’uscio e l’attaccapanni. Chiacchieriamo del più e del meno, riusciamo a scambiare qualche sorriso. Ogni tanto infilo la mano nella tasca della giacca e sgrano come un rosario le perle della collana che volevo regalarle.
L’ho vista lì – la collana – dimenticata in un cassetto, tra oggetti privi d’importanza, un raggio di sole obliquo la faceva risplendere; così l’ho presa, senza pensare alle conseguenze; mamma è vecchia, stanca, sola, figurati se si accorge… poi cosa se ne fa? Non l’ho mai vista, mai una volta… l’aveva, questo sì, era: ridotta all’imperfetto d’ogni verbo, ogni carne, ogni memoria, a smagrire in una branda fino alla polvere.
Quella notte, in casa da solo, con l’osteria chiusa, senza compiti da correggere o altro, la indosso – la collana – e mi guardo allo specchio, immaginando che sia Luda a portarla. Oltre me vedo la finestra, la piazza, il bar Gregory e il vicolo, dove tutto è riflesso al contrario tranne la svastica.
C’è anche Zanetti. Tiene tra le mani le scarpe della prof di francese, le mostra agli amici come un trofeo di guerra, al pari delle tsantsas per gli Jìvaros: teste mozzate ai nemici e rimpicciolite a portafortuna, simboli d’accrescimento. Una cosa che conosco e insegno a ragazzi armati di cellulari, felici di riprendere la fame di un tasso come l’umiliazione di una donna; barbari di un nuovo mondo, dove gli uomini guardano alla tecnologia e la credono civiltà.
Zanetti festeggia la sospensione, capisco che non tornerà più tra i banchi di scuola. Finirà a sudare, faticare per qualche padrone. Per ora si gode questo momento: versa la birra in una delle scarpe e beve da quella; alza lo sguardo alla mia finestra e viene a suonare il campanello.
Il ronzio del citofono si spinge come una lama nel mio cranio. Am-maz-za la vec-chia… nessuno risponde. Am-maz-za la vec-chia… lui insiste. Am-maz-za la vec-chia… «E se non muore?» dico allo specchio, «se non muore?»
Tappo le orecchie con gli indici, aspetto che il gioco lo stanchi. È solo lo scherzo di un ragazzo, un po’ come il Kolchoz è lo scherzo del Rosso. Ci vado il mattino successivo, l’aiuto a svuotare il casolare e a portare la roba in discarica. Ci raggiunge qualche compagno – anche se compagni non sono più, o non lo sono mai stati – come va, come stai, quant’è passato, ricordi com’era, bei momenti, bei giorni. Anche loro sollevano mobili, li caricano sul pick-up, sollevano ancora; sudore e fatica, al solito, ma sono un sudore e una fatica diversi.
Finito il lavoro ci sediamo all’aperto, in mezzo ai campi, e freghiamo il tempo con litri di toscano. Navighiamo a vista a bordo di questa sgangherata Аврора, in una bonaccia di minuti che non chiedono niente. Ubriachi d’esistenza ci affidiamo al volo dei vinti, lo stesso che alcuni chiamano caduta.
«Capitano un sacco di robe», dico tra un bicchiere e l’altro.
«Volo come un sasso», canta il Rosso, «una chiave inglese».
«Quasi tutte schifezze».
«Volare senza le ali…».
«Alla fine la scelta da fare è una sola».
«… è un problema, mi sembra palese».
«Prendere la strada che ride oppure quella che piange».
Fisso il bosco oltre le parcelle, rimango con gli occhi sbarrati agli alberi come alla volta di una cattedrale. Getto una preghiera là in mezzo: nel folto, tra le radici. So che lì esiste un angolo sicuro, ma so anche che nessun uomo è mai riuscito a trovarlo. Abbasso lo sguardo a terra: incapace di volgermi alle montagne, è la mia unica direzione.
Il Rosso mi prende l’avambraccio, vuol farmi capire quello che in fondo so già: ciò che serve è tutto qui, nel Kolchoz – niente a che fare con l’URSS, la carestia. O forse sì; forse è proprio questo il punto.
Gli picchietto la mano che stringe, lui versa da bere a tutti e riprende la canzone dal principio.
«Da giovane avevo un sogno, volare come un uccello».
«C’è n’ho uno qui io d’uccello», fa uno soppesandosi il pacco. «Un rapace bello grosso».
«Carne chesi slunga», dice un altro.
«Senti qua che lavoro, tira come un mulo».
«Seh, bona. È già grassa se ancora ti si drizza».
«Ha parlato Rocco Siffredi».
«Ordine compagni! Ordine!», fa il Rosso sganasciandosi dalle risate, e noi con lui.
«Ma che compagni e compagni!».
«Compagna a quegli altri», sbraitiamo in coro, sollevando i bicchieri.
«Cumpagn-a chi-etre!».