di Stefania Maruelli
Copertina: Atene – Andrea Herman
A guardargli solo le mani poteva anche essere lui. Il trucco era non sollevare lo sguardo oltre le braccia, meno che mai sopra le spalle. Non che fossero simili, questo no, ma con uno sforzo di immaginazione – del resto era lì per quello – e concentrandosi solo sui gesti, poteva reggere i dieci minuti che mancavano all’intervallo. In fondo avevano tutti gli stessi vezzi: maniche arrotolate fino al gomito anche d’inverno, palmi a coppa a disegnare cerchi concentrici in aria.
Clara?
Giorgio la stava fissando, forse leggeva i pensieri, forse le aveva anche chiesto un qualcosa che però lei non aveva ascoltato. Avrà avuto a che fare con la faccenda dell’ambiguità di cui parlava da ottobre, o forse con Roland Barthes che continuava a citare. Lei rimase in silenzio.
Lo bevi un caffè?
Come?
Quella bevanda al sapore di malinconia.
Da lui quell’accostamento lezioso non se lo sarebbe aspettato. Poi si guardò la maglietta e capì: non ricordava di andarsene in giro con quella scritta ridicola addosso. Sollevò lo sguardo sopra le spalle di Giorgio – decisamente era calvo – e valutò il maglione a losanghe come inoffensivo. Quindi annuì, chiuse il taccuino su cui nelle ultime ore aveva scarabocchiato il suo nome e si infilò il cardigan. Lui approvò commentando che per essere maggio Torino era fredda – Palermo è diversa – lei fece un cenno di assenso. Solo allora si accorse che l’aula era vuota: gli altri dovevano essere già andati a fumare. Cercò nella memoria degli ultimi mesi un libro, un film, un ricordo di cui poter dire. Non le venne in mente niente. Lo seguì lungo il corridoio in linoleum, camminando buttò un occhio ai disegni delle costellazioni che ricoprivano le pareti arancioni. Si soffermò con lo sguardo su Andromeda. Se la figurò nuda incatenata allo scoglio, Perseo in groppa a Pegaso, la testa di Medusa sanguinante ancora stretta nel pugno. Fece per dire, ma tacque. Davanti alla macchinetta del caffè Giorgio si voltò, un sorriso benevolo.
Come lo vuoi?
Con tutto lo zucchero.
Lo osservò schiacciare cinque volte lo stesso tasto. Le mani erano piccole, le dita sottili, le unghie tagliate con quella casualità che doveva sottolineare ulteriore disinteresse per il proprio aspetto. Era un loro vezzo anche quello.
Espresso?
Lei annuì.
Una volta anche lui le aveva fatto la stessa domanda per consolarla di un racconto senza un finale a cui lavorava da mesi. Lei aveva annuito, ma in modo diverso, e mentre lui sfilava dalla tasca dei pantaloni in fustagno un portamonete, lei gli aveva osservato le mani e subito ne aveva sentito il bisogno. A sentirsele addosso dovevano essere ruvide e calde. Dalle mani era risalita con lo sguardo sul collo stretto in una camicia amaranto, i capelli ci ricadevano sopra disordinati. Non c’era niente di bello in quel collo, né in quella camicia: tuttavia l’aveva invasa una dolcezza senza rimedio. Aveva quindi staccato lo sguardo e si era voltata a fissare le costellazioni. Ne aveva indicata una a caso fingendo interesse.
Andromeda – aveva assentito lui.
Lei aveva fatto un cenno come a dire che voleva saperne di più, e così lui le aveva detto della bellezza di lei, della superbia della madre, del sacrificio che era stato deciso. Di come Perseo fosse arrivato a salvarla dal mostro, lei incatenata allo scoglio. Lei non aveva commentato, il caffè ormai freddo nel bicchiere di plastica.
Ieri ho letto quel tuo racconto – fece Giorgio – secondo me ne vale la pena.
Clara sollevò lo sguardo: le losanghe era attraversate da una riga sottile, gialla. La testa lucida era a suo modo dolce, rassicurante. Di questo non si sarebbe potuta innamorare.
Ora penserai che sia pazza – disse.
Giorgio fece di no con la testa e indicò col suo bicchiere una ragazza che, fuori dalla finestra, attraversava il cortile della scuola di corsa. Indossava un cappotto crema, i capelli erano raccolti in uno chignon. Correndo le era caduto un libro dalla borsa di cuoio che teneva a tracolla. Clara diede un sorso al caffè, era amaro anche con tutto lo zucchero. Arrivata davanti alla porta dell’aula la ragazza si fermò, la mano immobile sulla maniglia, quindi aprì.
A quest’ora deve essere Otello – commentò Clara.
Già – confermò lui – glielo prendi tu?
Lei annuì, passò a Giorgio il bicchiere e scavalcò il davanzale. In cortile si avvicinò all’albero – qualche gemma, molte foglie – si chinò e raccolse il libro. Si voltò verso Giorgio annuendo, quindi rientrò mostrandogli la copertina.
Un’altra Desdemona – commentò lui.
Già – fece Clara.
Noi torniamo in aula?
Torniamo – disse lei.