di Giulio Papadia
Copertina: Cronopio – Marta Di Giovanni
I morsi della cefalea paiono meno incisivi, giacché s’affaccia un sole opalescente e l’aria si va intiepidendo. È la fine del letargo mortifero. Oltremodo spietato, l’inverno ha strappato decine di anime alla nostra comunità, ecatombe che siamo rassegnati a pagare con disarmante puntualità.
Si procede alla volta del vicino zoo attorniati da giganti di legno e fronde, i giovani a passo spedito mentre gli anchilosati chiedono un’andatura moderata. Il cammino è minato dalle asperità, il clan si fa sempre più esiguo, un tanfo di morte ci pedina: questi dettagli mi riportano a ricordanze oscure e tristi che credevo ormai ammantate di una coltre isolante. C’è una storiaccia che ho udito una mezza dozzina di volte, ora mi pare che si arricchisca di dettagli, o forse è la mia mente a non accompagnarmi appieno. Me la raccontava mio nonno, e io ascoltavo rapito dal talento affabulatorio del vegliardo. Il patriarca mostrava la sua partecipazione emotiva con un certo tremolare della mascella, mentre la voce stentorea pareva impossibile da alterare.
Quando lui era piccino, diceva, il concetto di zoo era molto distante da quello che conoscevo io. L’uomo piegava la natura alle sue voglie, i rapporti con gli animali erano pacifici, le bestie esotiche erano rare e guardate con meraviglia invece che con timore.
Esordiva così, ma la memoria mi tradisce, ho un vuoto nel punto nodale della storia. Se provassi a confessare i miei ricordi, riceverei come risposta solo espressioni di scherno, ghignate compassionevoli, insulti al beone decrepito. Sono più che certo che nessuno rammenti nulla di simile.
Io invece ricordo i mal di testa iniziati in giovane età, forse proprio in concomitanza con la morte del nonno, ricordo mia madre che mi veste di tutto punto per il funerale e insiste perché lo veda disteso nella bara, consunto come un torsolo mummificato, per lenire il distacco. Non ricordo però come fosse la vita prima delle emicranie lancinanti, non ricordo più come fosse mio nonno, non ho la minima idea di come potessero essere gli zoo a cui alludeva coi suoi racconti.
Necessitiamo di una mezz’ora buona prima di giungere a ridosso delle sbarre che ci separano dagli animali. Fiumi umani affluiscono da ogni dove, mandrie di individui recanti sui volti sguardi di attesa. Si scorge dalla parte opposta un altro branco, ma trattasi di ordinato flusso animale. Il corteo ferino fa il suo ingresso secondo una coreografia studiata nei dettagli che vede come capifila degli elefanti mastodontici, sormontati da diversi scimpanzé urlanti ciascuno. Di pachidermi ne vien fuori una sequela, poi un manipolo di giraffe e zebre – anch’esse cavalcate da scimmie – seguite da rinoceronti e leoni. Infine dieci gorilla disposti su due file scortano quello che ha l’aria di essere il maschio alfa. Il leader si appressa alle sbarre e con aria solenne comincia il suo sermone.
Oggi celebriamo l’anniversario del Nuovo Mondo! Quando il pianeta era in mano alla razza umana la Terra era malata, resa vulnerabile da secoli di dominio sconsiderato. L’uomo ha gettato il sistema nello squilibrio, agendo con un eccesso di crudeltà rispetto a quanto la natura poteva tollerare.
Ho già sentito quelle parole in un’epoca lontana, difformi nel tono ma sovrapponibili nei contenuti. Mi rivedo seduto sulle ginocchia del vecchio, e quelle che sembravano favole macabre assumono concretezza grazie al timbro ultrabaritonale del gorilla. Il mal di testa, ancora, e i denti serrati, gli occhi che si fanno vitrei.
L’uomo è la peggior sciagura per gli altri uomini. L’uomo è stato fautore del suo tramonto. L’uomo ha sempre cercato di celare il ringhio cannibale verso l’altro fingendosi tollerante e rispettoso, dissimulando un odio viscerale.
Socchiudo di nuovo le palpebre, stavolta mi vedo seduto sulle ginocchia di quell’abnorme scimmione che indossa gli occhiali di mio nonno e pure la sua vestaglia da camera (impossibile scordare quella trama a righe colorate, l’odore rancido di piscio che permea l’aria, l’alito etilico del vecchio).
Fra i fumi della confusione, ora ogni cosa affiora improvvisamente nitida. Negli zoo ai tempi di mio nonno venivano rinchiusi gli animali, non gli esseri umani. Siamo convinti di andare a vederli in gabbia, ma sono loro a stare dalla parte della libertà. Siamo segregati in un lager da un tempo sufficiente a non serbarne ricordo, crediamo di essere liberi quando siamo bestie in cattività.
Darete la caccia ai pochi animali rimasti nella foresta, o a quelli radunatisi attorno ai villaggi in rovina.
Darete la caccia ai vostri cari che avete perso per sempre e li riporterete indietro con la forza.
Darete la caccia alle prede più pericolose, e scuoierete anche i vostri simili se necessario.
Da qualche parte nel mondo un uomo proverà a sconfiggere l’inedia gettandosi in mare per pescare a mani nude. Le onde lo riporteranno a riva dopo averlo frollato sugli scogli, e sarà orrido pasto dei suoi figli famelici.
Ridacchiano senza vergogna i gorilla, si avvicinano alle sbarre per lanciarci delle noccioline. I miei simili le raccolgono facendo a gara, felicissimi di avere finalmente da mangiare. Odo cori sboccati contro noi e la razza umana tutta, schiamazzi di giubilo dei primati che mi riportano a viva forza al centro dell’incubo.