di Antonella Dilorenzo
Copertina: Precipizi urbani – Julio Armenante
Mo’ ti freco di mazzate!
Mi diceva sempre mia madre, solo che poi le mazzate non me le dava. Passava la palla a mio padre che era uno bravo, ma proprio bravo. E io una cosa non scorderò proprio: la fantasticheria delle sue menate. E lo volete sapere come faceva? Quello mica mi dava le palate come tutti i padri dell’amici mii. No, no, non mi tirava gli scarponi ingudda e nemmeno mi stirava con la cinta. Seee, troppo facile. Mio padre ci metteva la fantasia. La cre-a-ti-vi-tà, come dicono i professori delle scuole alte. Avete capito come faceva? No, nemmanco usava le mani, quelle se le teneva care care per i tufi e i mattoni che tutti i giorni andava mettendo per costruirci le case. Sì, quelle degli altri, mica le nostre. Noi stavamo in quattro in uno stanzone in affitto e la casa grande stava nel mondo dei sogni. Forse sì, la sognavo proprio quando mi ripassava con il nerbo del bue, che io chiamavo nervo del bue, forse perché si usava quando faceva innervosire qualcuno. L’etomilo… l’etemoligia, inzomma quella parola là, la parola giusta è fru-sti-no da car-ret-tie-re, così mi hanno detto che si chiama, mai l’avete visto? Alla scuola, quando lo dissi a un professore, quello mi spiegò bell bell che “viene fatto con pene di toro essiccato”, e io dissi “col pisello?”. E quello fece sì con la testa. Mo’ avete capito la fantasticheria?
Quando prendeva in mano quel coso, per me era il mago, come Merlino, e quella la sua bacchetta magica. Sì, faceva le mascìe. A lui si cambiava proprio la faccia, diventava rosso rosso e gli occhi piccoli piccoli, e poi ’sti denti stringiuti stringiuti. Diventava tipo un animale, un toro. Io lo guardavo un poco e quando capivo che stava arrivando fresco fresco il nervo del bue, mi accucciulavo in un angolo e mi prendevo ’sti colpi.
Una volta, per divagliare la testa e non stare a pensare al dulore, ho provato a contarli i colpi. Erano sempre sei. Prima me ne dava tre dritti al centro delle rine, sì sotto alle spadde, come dite voi? E poi uno a ’sto cuosto e l’altro all’altro cuosto. E poi n’altuno alle rine. Era nu masciaro, nu mago! Mi trasformava la schiena a righe rosse. Sembravo uno di quelli che portano quelle barche strane a Venezia con le magliette a righe, li canuscite no? Sì, magari voi li avete pure visti dal vivo. Io no, anzi sì. A casa abbiamo uno di quei pupazzi su un mobile, o come le chiama mia madre, bamboniere che ci hanno dato al matrimonio di zì Pasquale e zì Rosa. Che poi, pure quel giorno, non vi dico che mascìe ha fatto mio padre! Era estate. Luglio, mi pare, ma il giorno preciso non me lo ricordo. Era finita la festa di matrimonio e siamo tornati a casa. Papà aveva bevuto un pochino, mi pare. Vedevo che cantava. Quando era contento faceva sempre una canzone brutta, una che diceva di un pullover, che io nemmeno sapevo cosa era ’sto pullover. Quella sera gli ho detto: “Ma ce è ’sto pullover, papà?”, e lui sapete che mi ha risposto? Nudda. S’è messo a cantare più forte di prima: “Il pullover che mi hai dato tu, sai mia cara possiede una virtù”. Mo pure la virtù? E me ne so frecat e non ho dumannato: vi-r-tù, pul-lo-ver, sac!, tutte ste parole estranieri. Comunque sì, stavo a dire che quella sera del matrimonio di zì Pasquale siamo tornati a casa e sono salito prima io con mamma, e papà è andato a chiudere la macchina co Nicoletta. Mamma stava avanti e io dietro. Ha aperto la porta e come ha acceso la luce ha cominciato a gridare: i latr! I latr!
Ma comm i ladri? Mica sapevo cosa dovevo fare: scappare, salvare a mamma o fare quello che poi ho fatto. Rimanere fermo fermo con i denti stringiuti e con le gambe che facevano Giacomo Giacomo. Che poi dicono che i maschi non devono piangere, non lo so perché, però io non ho pianto. E sono stato come quelli, i pa-la-tini- della –giu-sti-zia dei cartoni animati che sono forti e coraggiosi. Mamma correva per tutto lo stanzone di casa e gridava: i latr, i latr! Poi è arrivato papà co Nicoletta e ha cominciato a dire un sacco di parole brutte, mi pare che ce l’aveva con i morti, i morti, tanti morti. Io sono restato zitto zitto, senza piangere. E loro non pensavano a me. Hanno cominciato a dire cose come: televisione, videoregistratore, cullana d’oro, i sold. Mi sono mosso e sono andato vicino al letto dove dormivamo, e ho visto che tutta quella robba che avevano detto, che stava sempre là, non ci stava più. E poi ho capito che erano stati questi ladri. Papà ha cominciato a chiamare la polizia e poi i garabinieri, poi la polizia e ancora i garabinieri e un’altra volta alla polizia. Ma a casa nostra non è venuto proprio nessuno a vedere, uno di ’sti palatini, nudda. Io ero coraggioso. Non piangevo, eh. Nicoletta era rimasta appiccicata alla maglietta di mamma. Guardava a papà e poi guardava a mamma con gli occhi grandi grandi e nessuno guardava a me, e io guardavo tutti e non chiedevo niente, avevo paura che papà si metteva a fare di nuovo il mago.
Inzomma non è venuta la polizia e nemmanco i garabinieri e si è fatto notte. Stavamo tutti zitti. Papà ha detto a mamma di lavare tutti i piatti, i bicchieri, le forcine e li cucchiari. Tutto quanto. Io non sapevo perché, ma mi sa che avevo capito: i ladri avevano sporcato tutte ’ste cose con la droga. Avevano cunzato tutto come si fa con il sale, per drogarci e venire di nuovo a rubbare. Sì, era così. Più tardi, Nicoletta si era addormisciuta in braccio a mamma che non diceva nudda, ma ogni tanto si lamentava, poi si puliva il naso e si annettava il sudore da in faccia; papà aveva preso una radiolina, quella da dove si sentiva le partite, e l’aveva messa sul tavolo. Fumava e sentiva. Che poi manco prendeva bene: un poco di musica, un poco voci e un poco rumori. Papà e si era fumato due pacchetti di Diana, e la stanza era diventata fumo fumo.
Nessuno si muoveva. Nessuno andava a dormire. Io avevo paura e non volevo andare da solo nel letto. Poi ’sta radiolina si è messa a gridare: Splu Splughen, Splu, Splughen, svita la voglia di Splughen, così diceva la canzone della pubblicità, e poi, madò, hanno suonato il citofono. Io mi sono spaventato, Nicoletta si è messa a piangere, mamma guardava a papà, e papà si è alzato di scatto. Quelli si erano attaccati proprio al citofono! E suonava, suonava. Papà è andato in mezzo alle scale al buio e scendeva giù zitto zitto e veloce. E quelli continuavano a suonare. Noi ci siamo avvicinati alla porta per sentire se papà li andava a prendere. Ma sogn i latr? I latr? Ho chiesto a mamma, ma quella ha spalancato gli occhi e mi ha messo una mano sopra alla bocca e stringeva forte e non respiravo più. Papà scendeva le scale e quelli si sono riattaccati al citofono. Non la finivano più. Tre piani doveva fare papà e se li andava a prendere. Ma era tutto scuro in mezzo alle scale e come faceva a vederli? E allora ho appicciato la luce e finalmente si vedeva tutto, come l’illuminazione della festa di San Michele. Quelli hanno finito di suonare al citofono, meno male. Se ne sono andati e mio padre ha cominciato a parlare di nuovo di morti, i morti, tanti morti, gridando in mezzo alle scale. E saliva veloce e veniva da noi, ma mi sa che si stava di nuovo trasformando. Ho guardato a mamma che mi ha detto: madò, mo’ ti freca di mazzate!
Inzomma pure quel giorno, non vi dico che mascìe…