di Luca Murano
Copertina: Ecatombe – Julio Armenante
Ostaggi del caldo agostano, entrammo assetati nel primo locale del corso. Unici avventori, fummo accolti da un giovane in grembiule e occhiali da sole, di quelli a specchio avvolgenti, oramai fuori moda da un pezzo. Emma, la mia dolce metà sicula, ordinò una birra doppio malto alla spina, io, pusillanime, optai per un estathé. Mi pentii subito di quella scelta. Ma non c’era nulla da fare: quando il buon dio aveva distribuito l’audacia, la mia anima era probabilmente chiusa in bagno.
Ci sedemmo a un tavolino appena fuori il locale e, mantenendo come sottofondo una conversazione piuttosto blanda, ci mettemmo ad osservare i passanti. Per me era sempre stata una cosa appagante. Farmi i cazzi altrui, dico. Forse perché in quella circostanza particolare gli altri non ti chiedono nulla in cambio: si prendono i tuoi sguardi indiscreti e filano via, senza interazioni sterili o contatti umani deludenti. Per meglio godere di quel momento voyeuristico e contemporaneamente tenere a bada il bisogno di attenzione di mia moglie, le chiesi lumi circa le vacanze della cugina, facendo leva sul malcelato complesso d’inferiorità che Emma soffriva nei suoi confronti. Così facendo, la serie di invettive gratuite che avevo appena innescato mi avrebbero concesso di godermi l’attimo e spostare l’ingombrante luce dei riflettori sugli estranei che brulicavano di fronte a noi.
Proprio mentre le mie pupille dilatate rimbalzavano come palline di un flipper da un bipede a un altro, arrivarono gli occhiali da sole con le nostre ordinazioni. Fissai quelle lenti demodè chiedendomi se il giovane, per caso, non soffrisse di qualche strana patologia agli occhi.
«Sono otto euro e cinquanta»
Un bulldog inglese rapì la mia attenzione: si stava facendo trascinare al guinzaglio come un sacco di patate, senza opporre resistenza e con le tozze zampe paralizzate dal caldo. Compiaciuto, sfilai il portafoglio e presi una banconota da dieci euro.
«Ecco»
«Grazie, le porto subito il resto»
«Stavi dicendo tesoro?»
Emma riattaccò il suo pippone sulla cugina stronza che faceva vacanze in posti che non meritava assieme a fidanzati dementi che meritava. Io tornai alla mia libidinosa occupazione, giusto in tempo per vedere una bella e discinta ragazza di colore passarmi davanti intenta a suggere granita al limone da una cannuccia. Mi ricordai così di avere ancora una gran sete e, senza smettere di godermi lo spettacolo, infilzai la mia di cannuccia e succhiai avido.
Puah!»
Un fiotto di saliva mista a brodo primordiale mi usci dalla bocca e investì in pieno le mie vecchie birkenstock.
«Lu, ma chi minchia fai?»
«Cristo è un’estaté alla pèsca?»
«E allora? mica stricnina è.»
«Peggio! Lo detesto, l’estathé alla pèsca è anticostituzionale diocristo. Vilipendio di bandiera.»
«Eeeee quanne storie, turna rintra e fallu canciari.»
Rientrai scuro in volto senza sapere se fossi più avvelenato dall’estathè alla merda o dal dialetto siculo. Madonna se detestavo quando Emma s’incazzava e partiva a nastro a vomitare siciliano stretto. Per un istante fantasticai di tornare fuori con una lupara, sedermi di fianco a lei, e spararmi in bocca. M’immaginai la sua faccia ed il mio sangue, misto a materia grigia, imbrattare il muro giallo dietro di noi. Per quanto l’opzione mi solleticasse, non era ancora tempo di morire: dovevo ancora fare il pieno di rimpianti e delusioni. Una volta dentro, notai in un angolo il ragazzo godersi una meritata pausa, col deretano appoggiato al ripiano della macchina del caffè e il cellulare in mano.
«Scusa.»
Appena si accorse della mia presenza, spense goffamente il display e s’infilò il telefono nella tasca marsupiale del grembiule.
«Mi dica.»
Sollevai il bricco dell’estathé, come il boia del Caravaggio dopo aver decapitato la testa di San Giovanni Battista.
«È alla pesca, io lo volevo classico, al limone.»
«Ah, ok non me l’ha specificato e ho fatto di testa mia, scusi. Glielo cambio subito.»
Si abbassò e aprì l’anta di un frigorifero mentre io sentivo distintamente una vena in fronte che si tappava. Continuai: «Non dovevo specificarlo, se chiedo un estathé può essere solo al limone, sennò ti avrei chiesto un estathé alla pèsca.»
Lo vidi riemergere dalle profondità del bancone con un’aria di sfida e un estathé come-dio-comanda che per qualche strano motivo si rifiutava ancora di allungarmi.
«Guardi che di estathé ce ne sono tanti: pèsca, limone, tè verde, estathé zero. C’è anche quello deteinato ad esempio, solo che qui non lo teniamo.»
Se ne avessi avuto la possibilità lo avrei scrutato negli occhi pietrificandolo come Medusa, invece niente. Dietro quelle immense lenti a specchio vedevo solo la mia faccia, contratta dalla rabbia e mortificata dall’ennesima ingiustizia.
«Ragazzo mio, se ordino una coca cola non è che mi chiedi di specificare se la voglio, light, zero, senza caffeina o al vomito. Mi porti la coca cola originale, stop. Ecco, a mio modesto parere con l’estathé un cliente si aspetta la stessa cosa. Se non specifica è perché vuol bere estathé; quello al gusto di limone ovviamente.»
Sibilai l’ultima frase, gonfiando il petto e dandomi un tono alla Sheldon Cooper di Big Bang Theory quando dispensa lezioncine acide ai coinquilini.
Il giovane, accusando il colpo, abbozzò un sorriso e si arrese. Mollò la presa sull’estathé, l‘unico, l’originale, il solo, e me lo lasciò sul bancone. Era la prima vittoria della settimana, eppure mi sentii malinconico, senza un particolare motivo. Abbassai lo sguardo, rimirandomi i piedi, appiccicosi per colpa del succo di pesca concentrato.
«Grazie. Comunque te lo pago, quanto ti devo?»
«No, non si preoccupi, apposto così signore.»
«Insisto.»
«No, davvero, errore mio.»
Lo fissai per un’ultima volta. Nel riflesso di quelle lenti, mi vidi di colpo invecchiato, obsoleto come un Nokia 3310, attempato e stanco come un quarantenne non dovrebbe mai sembrare. Mentre guadagnavo l’uscita, mi vergognai un po’ per quel battibecco. Poi guardai l’estathé che stringevo in mano e mi chiesi quando era stata l’ultima volta in cui mi ero preso un rischio, l’ultima volta che avevo provato davvero a cambiare le cose. Ma così, a caldo, non mi venne in mente proprio nulla. Mentre riprendevo posto fuori accanto ad Emma, osservai il muro dietro di noi. Il rosso del mio sangue avrebbe stonato decisamente: era comunque tempo di prendere decisioni importanti, di compiere atti rivoluzionari.
Presi bene la mira. Estesi il braccio destro e spezzai bene il polso: l’estathé, in orbita sopra la testa di mia moglie, disegnò una parabola arcuata e perfetta prima di infilarsi nel cestino alle sue spalle. Emma mi guardò sgomenta: «Ma picchì?»
«La finisci la birra?»