di Lorenzo Del Corso
Copertina: Dolore intenso – Julio Armenante
Ho dovuto iniziare a prendere farmaci perché le conseguenze dell’insonnia stavano diventando pericolose. Rimanevo sveglio tutta la notte a pensare alle pratiche e ai contratti, poi pensavo al fatto che non ho ancora scelto le lapidi per le tombe dei miei; pensavo al fatto che sono solo, che ancora non ho convinto una donna a sposarmi, e che per forza non piaccio alle donne se continuo a ingrassare; e allora cominciavo a pensare a quale sarebbe stata la palestra più vicina, i prezzi che avrebbero potuto fare, e poi iniziavo a contare i soldi che mi rimanevano per le bollette, e pensiero dopo pensiero suonava la sveglia, ed era l’ora di tornare in ufficio.
Non ricordo come, ma ho preso appuntamento con il medico. Poi ricordo che mi trovavo sull’autobus, pioveva, e avevo in mano una scatoletta bianca con la scritta grigia: Morfedol. L’autobus si è fermato sul piccolo ponte sull’Aniene, all’ingresso di Tor Cervara, dove i condomini spuntano dalle capocchie dei pini deformi, e cadeva la pioggia. Mentre aprivo la confezione, mi sono toccato gli occhi e ho sentito le borse, come si chiamano, delle vesciche grinzose sotto le palpebre.
Ho tirato fuori il blister del Morfedol, e ho scartato una pasticca muta, bianca, piccola. Ho cercato di ricordare cosa mi aveva detto il medico sul dosaggio, ma è stato inutile. Sono rimasto a fissare la minuscola pasticca a lungo, la superficie porosa, come se fosse stata picchiettata da minuscole goccioline. Ho deciso di metterla in bocca, ma ho sempre avuto difficoltà a buttare giù le pasticche. Mi sono leccato i denti e le labbra, ma era come sfregare due fogli di cartavetrata: non avevo più salivazione, da un po’ ormai. Così ho rimesso la pasticca nel suo loculo, e ho aspettato che l’autobus riprendesse la corsa.
Quando sono sceso alla fermata, la pioggia cadeva buia; e non avevo l’ombrello. Mentre camminavo sotto lo sgrondo delle nuvole ho sentito qualcosa graffiarmi le labbra. Le ho toccate, e mi sono accorto che era solo acqua che mi bagnava la bocca, che frizzava sulle cicatrici causate dalla secchezza. Ho pensato che l’acqua è acqua: un bicchiere del rubinetto non è diverso da un morso di pioggia. Ho estratto la pasticca che avevo già scartato e l’ho messa in mano, ho tirato su la testa e aperto la bocca, lasciando che si riempisse come un pozzo. Poi ho preso il Morfedol.
Ho mangiato delle patate lesse. Mi sono fatto un bagno con acqua fredda, perché ci vuole un’eternità per avere quella calda. Mi sono tolto i vestiti, e mi sono messo sotto il lenzuolo, in mutande. Ho spento la luce. Non mi ricordo nemmeno più come si fa a prendere sonno. Non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho dormito. Forse l’anno scorso, quando mi sono addormentato con le mani sul volante, e sono sprofondato nel Tevere. Forse durante il coma ho dormito.
Il farmaco non mi fa sentire diverso. Provo a chiudere gli occhi, di solito sono quelli che rimanendo aperti mi fanno vedere tutti i miei pensieri. L’unica luce in camera mia è il filamento della lampadina che ho sul soffitto; rimane sempre acceso. Credo sia un contatto. Mi giro da un lato, per non vederla. Sento un leggero prurito sul palmo di sinistra, e inizio a grattarlo con le dita. È un pinzo, forse una pellicina. Tiro fuori la mano, e nella luce debole del filamento vedo la pillola di Morfedol, appiccicata al centro della mano come una pallina di polistirolo. Cerco di prenderla con l’altra mano, ma per sbaglio la premo, ed entra sottopelle. La biglia mi attraversa le ossa e i nervi della mano, come un solletico. La sento zampettare. Poi riaffiora sul dorso e si ferma. La osservo, cercando di metterla a fuoco; si schiude. Dalla piccola pillola esce un geco, una lucertola bianca. Non so perché ma mi viene in mente la parola lucifuga. Così battezzo quel piccolo coccodrillo sul dorso della mia mano, mentre mi sento venire la pelle d’oca. È bianchissima. È simile a una lucertola albina, con due piccole ciliegie di sangue al posto degli occhi. Il suo petto si gonfia e si sgonfia velocemente, seguendo il battito del suo mostruoso cuoricino. La pelle della lucifuga è talmente bianca da essere trasparente, le scaglie sono simili a vetri appannati. Vedo i suoi ossicini, le sue costole simili a fili azzurri. Dentro di lei si muovono convulsamente le piccole sfere nere venate di viola dei polmoni, del cuore, degli intestini. Rotea gli occhi e si accorge di me. Scatta sul cuscino, la testata del letto, ed entra in una crepa aperta sul muro, una crepa che non avevo mai visto. Forse devo ucciderla? Mi alzo e osservo nella crepa. Dentro vedo la mia stanza, capovolta. Io sono seduto sul letto con la testa fusa nel muro. Mentre mi osservo vedo che dalla mia nuca iniziano a sgattaiolare lucifughe, centinaia, migliaia di insetti che corrono sui muri e riempiono la stanza, come fosse piena di vermi impazziti. La stanza adiacente alla mia è il loro nido: devo distruggerlo. Allungo il mio braccio telescopico e prendo il filamento incandescente della lampadina. Adagio il filo di luce sulla crepa, e ci soffio sopra. Un fuoco azzurro invade la stanza di là dalla crepa. Loro si dimenano, corrono all’impazzata e si contorcono. Ma una, la prima, riesce a fuoriuscire dalla stanza gemella e si nasconde in camera mia. Mentre l’incendio si propaga al di là della parete, cerco con lo sguardo di vedere la lucifuga. Vedo il filamento di luce sul soffitto, lo osservo e si trasforma nella lucertola. Si stacca dal soffitto e mi cade sulla faccia. Comincio a urlare, urlare come stessi prendendo fuoco, mentre la creatura mi cammina lentamente sugli occhi. Comincio prendermi a schiaffi il viso, ma il geco zampetta lungo il collo ed entra nel nella camicia, nonostante il nodo della cravatta. Mi strappo di dosso la giacca e la camicia, come fossero di carta velina, e la lucertola scende sotto l’ascella, sulla schiena, sul petto, sulla pancia; inizio a scucire la canottiera e vedo la lucertola nascondersi nelle mutande. Strofinandoli sciolgo i pantaloni e le mutande, e vedo la lucertola andare giù. Divarico le cosce come una partoriente, e vedo, fra le mie gambe, invece dei miei genitali, il mio viso. Apro la mia bocca verticale e dai miei denti cominciano a strisciare via le lucifughe. Mentre le vomito fuori dalla bocca delle mie gambe ricoprono il letto, entrano nei cassetti e ne fuoriescono. Sono milioni e milioni. Io le contemplo, e loro continuano a fuoriuscire dalla bocca che ho fra le gambe. Salgono sui muri, sulla porta, sulla finestra. L’infisso cede, il vetro cade in terra e si sfarina diventando sabbia. Le imposte diventano bianchissime. Tutta la stanza si riscalda, loro cominciano a muoversi impazzite come larve e diventano talmente bianche da sembrare luminose e prendono fuoco. Le vedo incenerirsi. I loro resti vengono riassorbiti dalla parete, e tutto si ferma.