di Debora Silvestri
Copertina: Tutte le famiglie felici si assomigliano – Antimonio
Nel bagliore bianco di un vestito estivo Dora spalancò la porta di vetro del bar dell’università. Si aggiustò i capelli nel ritratto frantumato di una specchiera rotta. E lui, spiandola da lontano, sentì una scossa fissando quelle dita scorrerle sulla scriminatura dei capelli. Una tosse dell’anima, per quel piccolo tocco.
Nel buio di ogni suo pensiero obiettivo, Piero aveva compreso che era irragionevole cercare di infilarsi dentro al futuro di una ragazza come quella. Un’idea del tutto irresponsabile. Eppure ne scrutava il corpo e avvertiva la furia di possesso, profonda, impaziente. E questo sentimento agitato, l’assillo della sua bocca affamata, era per lui l’unico modo conosciuto di amare. Quello strazio chiuso nel suo torace si muoveva in tenere onde sensuali. Vi annegò la sua prudenza.
Un chiosco di granite lungo una strada rumorosa. Di fronte a tutti quegli sconosciuti le chiese se poteva amarlo. Poteva.
Non era per via dei significati minimi delle sue attenzioni che lei disse di sì. Era per la somma totale. Lui era ansioso di chiudere quel dialogo e la baciò insolente, inghiottendo tutta l’aria dalla sua bocca. Lei si accorse in quel momento, cingendogli i fianchi, che lui era magrissimo e quando lui le baciò, stavolta docile, un orecchio, stampandole il suo corpo sul vestito leggero, lei pensò, nel turbinio chiassoso dei succhiatori di bibite, colpita dal rosa violento del ghiaccio nei bicchierini di plastica, che quel bacio conteneva una certa incandescenza. Lo stesso calore di un fuoco che prometteva di essere eterno.
Piero usò quella parola, amore. Ma Dora sapeva che quella parola in sé non valeva niente. Una emissione lustrata da un suono sentimentale.
Il valore reale della parola stava tutto dentro l’individuo. Si affidò a quel linguaggio sovversivo che era lo sguardo di lui, innamorato.
Prima di cena avevano lasciato le loro impronte lungo tutta la strada, amabili viali d’asfalto. Esplorando i giardini pubblici lui la ricoprì di attenzioni. Si sdraiarono sull’erba scomoda, i sassi caldi gli tormentavano le schiene, «Che vuoi fare?», «Sposarti o qualcosa del genere!», «Sei matto? Intendevo ora, stasera!», «Sposami!»
Dora, nel suo vestito bianco, vide in quello sguardo esultante un assaggio del futuro.
Tra i sussurri delle foglie, lei osservò lo spettacolo singolare di una natura fulgida, curiosamente imparentata col suo incanto interiore. L’estate le spingeva alle caviglie soffi di vento caldo.
Vide il viso di Piero ondeggiare tra altre teste nella ressa della stazione, le parve pensieroso, addirittura triste. Sgomitò per raggiungerlo sobbalzando contro uno schieramento di fianchi, seni, spalle.
Lui fu sorpreso di vederla, la sgridò, le chiese perché era andata a prenderlo senza che ce ne fosse bisogno. Lei si limitò ad uno sfregamento furtivo contro il suo corpo, nell’occhio pubblico della folla, facendogli capire quanto le fosse mancato quel contatto. Allora lui rise e la trattenne accanto a sé. Poi la prese a braccetto e la portò a sedere in un bar.
«Se ci pensi, tutte le cose importanti che ci sono successe finora, sono successe davanti ad un bar!»
Bevvero il caffè lasciando scivolare il residuo vischioso dello zucchero dal fondo delle tazzine alle loro lingue.
Dora registrò con curiosità il diverso senso che assumeva il paesaggio ora che lui era tornato, notò l’effetto che dava alla realtà la presenza o la mancanza di Piero. Pensò che la luce primaverile incoraggiasse quella sensazione: il mondo contraeva uno svantaggio immediato se la mano di Piero non era stretta nella sua. Ma, se lui era lì accanto, la realtà diveniva un’ipnosi radiosa che non ammetteva intermittenze. I due mondi erano separati da una frontiera rigorosamente definita e quella linea di confine era data dal corpo di Piero.
Sotto al portico della stazione lui si sfilò la giacca e un cumulo di piccioni si levarono in volo lasciando scoperto il marciapiede, scuro e appiccicoso di guano. Lo stesso, il mondo che Dora stava osservando, restava immerso in una luce vivida, interessante.
Un’ora dopo, stesi sul letto, lui le carezzò il pancione e le disse che era più bella che mai. Lei lo autorizzò con un sorriso a mangiarle il cuore. I denti di Piero luccicarono. Premette le sue labbra qua e là sul suo corpo. Dora pregò che non si fermasse un solo attimo.
Dell’altra donna non sapeva ancora niente.
C’era sempre un pomeriggio di autunno, col sole ancora caldo e la luce dorata, in cui si sedeva sul terrazzo e il paesaggio si annodava a qualcuna delle sue emozioni. Allora si lasciava andare a qualche tipo di speranza, senza guardare esattamente a cosa fosse destinata.
Piero si aggrappò con grande foga alla ringhiera. Seguì, a quell’impeto fisico, un movimento lento con cui spinse, gentilmente, i suoi pensieri nel tramonto.
Furono pochi istanti di apnea dalla sua parte razionale in cui, come una bestia minacciata, restò immobile, confuso dalla forte luce di una stagione che non voleva morire.
Sentì il rumore di passi concitati e l’urlo che esplose alle sue spalle. Forte. Molto forte.
Non gli prestò davvero attenzione: da padre aveva fatto l’orecchio ai rumori per i quali era necessario preoccuparsi. Rimase concentrato sul paesaggio, strinse le dita sul metallo tiepido della ringhiera e cercò di prolungare il suo piacere vagando con gli occhi dai tetti al pieno cielo, indugiando sulla doratura che scendeva lenta sulla schiena delle montagne.
Dietro di lui, stesi sul pavimento della cucina, i visi di un rosso vivo, i pigiamini sporchi di ogni tipo di cibo che guasti l’appetito, i suoi figli si rotolavano l’uno sull’altro come furie.
Vide Dora attraversare il parco davanti alla loro casa. Portava i capelli raccolti ma qualche ciocca era sfuggita al controllo e le dondolava vicino alle orecchie. Questo le dava un’aria da ragazza sveglia. La amò per quel ciuffo in disordine che le scendeva sul collo della camicetta.
Si ricordò del primo bacio che le aveva dato, lo rivisse da quella distanza, da quel futuro all’epoca impensabile in cui la magrezza in lui era del tutto scomparsa e Dora non era più così perfettamente pettinata.
La gonna che indossava continuava a salirle sopra le cosce ad ogni passo e Dora la tirava giù con impazienza, stendendola di nuovo sopra le calze. Il gesto non era sensuale in sé, ma Piero non poté ignorare la tenacia di quella mano che ricacciava indietro la stoffa. Guardandola attraversare il cortile del condominio, tra i cerchi soffici dei vasi fioriti, le restituì tutto l’amore ricevuto in uno sguardo non visto. Rientrò in cucina pensando che avrebbe dovuto trovare il coraggio di lasciarla libera da lui. Chiuse la finestra del balcone mentre la porta di casa si spalancava.
Fuori, gli alberi d’autunno, anneriti nella sera, parevano ostili.
Le persiane accostate della casa, generosa di luce, chiudevano lo sguardo alle finestre. Dentro il salone, un’atmosfera domenicale, un disteso senso di malinconica appena intaccato dalle voci irrequiete dei bambini.
Bevvero caffè in pigiama, accoccolati sul divano, poi cominciarono a vestirsi. Nell’atmosfera di luce soffusa, disorientato dal movimento dei loro corpi, il pulviscolo vorticava impazzito.
Si guardarono negli occhi frettolosamente, con intimità e lontananza. Dora si mise gli stivali, baciò i bambini sulla porta, fece le raccomandazioni solite alla loro tata, la pausa di voce forte davanti alle parole più importanti. Giocassero pure con tutto ma l’aspirapolvere no. Uscirono salutando con la mano. Il bambino più piccolo gridò con la gola spalancata appena la porta si chiuse, Dora fece per tornare indietro ma Piero le sorrise scuotendo la testa. La baciò mentre l’ascensore scendeva, partendo dalla guancia lungo una traiettoria inaspettata.
Attraversarono i viali chiacchierando di come, nonostante i loro figli avessero manifestato fin da subito l’intenzione di infilarsi in ogni guaio possibile, loro due fossero una buona squadra.
Con le feste imminenti, si presero il tempo di sbirciare più a fondo le vetrine, passeggiarono nel freddo affilato tenendosi per un braccio. Trovarono una ressa di persone all’ingresso del bar. Gente che entrava e usciva dalle porte del locale nell’arco colorato di luci natalizie.
«Volevo solo che tu lo sapessi.», Piero abbassò lo sguardo insieme alla sua tazzina vuota, Dora annuì ma non commentò. Osservò curiosa l’aspetto che assunse quell’istante di vita, vide la folla attorno a lei perdere forma, farsi trasparente.
Nella piazza del mercato comprarono castagne arrostite e mangiandole raddoppiarono il vapore che usciva dalle loro labbra con le parole.
Camminarono fino a sera, le guance segnate da un onesto rossore, e come per bizzarra contaminazione con i mucchi di neve sporca ammucchiata sui marciapiedi, l’eterno in loro rimpicciolì, consumato da una pioggia furibonda.