di Flavio Villani
Copertina: Concerto #1 – Julio Armenante
Alla memoria di Anna Vanzan
Parte #1
Rostam provò a dimenticarla, ma non c’era riuscito prima, figurarsi adesso. Non era nemmeno sicuro che fosse la cosa giusta.
Si vergognò del sogno di entrare nella Forza Quds. Disertò le feste di Elahiyeh. I suoi rapporti con Hossein si raffreddarono, ma non aveva più paura di perdere la sua amicizia.
Gli rimase il desiderio di bere alcool, ma non osava cercarlo.
A metà marzo i corsi all’università furono sospesi per il Nowruz e Rostam tornò a casa per l’ultima vacanza prima della laurea. Non era dell’umore per le feste in famiglia, ma almeno c’era la višnëvka dello zio Ali Reza.
Lo zio era ateo e comunista. I figli invece non bevevano e andavano cinque volte al giorno in moschea e l’unico a fargli compagnia la sera, quando prendeva dall’armadietto la bottiglia di višnëvka, era Rostam.
Lo zio reggeva l’alcool benissimo. La mattina dopo andava al bazar elegantissimo e rasato con cura, mentre Rostam smaltiva il mal di testa nella sala da tè sul ponte Khaju. Si accovacciava sull’ultimo gradone vicino all’acqua con un libro di poesia, che non leggeva. Rimaneva ore a guardare il fiume Zayandeh che scorreva con dolcezza tra le arcate.
L’ultima notte delle vacanze bevvero più del solito. Lo zio Ali Reza si ubriacò per la prima volta da quando Rostam lo conosceva e maledisse i figli che baciavano il culo ai mullah. Voleva bene più a lui che a loro. Lo abbracciò e scoppiò a piangere.
Dopo qualche singhiozzo Rostam lo sentì russare. Lo adagiò sul tappeto e lo guardò. Era quest’uomo che gli permetteva di studiare, per lui era il primo del corso. Poi si chinò, avvicinò la bocca all’orecchio dello zio e in un sussurro, come se avesse paura di svegliarlo, gli raccontò di lei. La parola più difficile da pronunciare fu il suo nome, Asal.
La mattina dopo lo zio non andò al bazar e dormì tutto il giorno. Quando si svegliò non riusciva nemmeno a fumare, ma non rinunciò ad accompagnare il nipote a prendere il notturno. Gli consegnò un oggetto avvolto nella carta.
Il treno era pieno di studenti e lavoratori e Rostam faticò a trovare posto. Quando trovò un angolino, si sedette e aprì l’incarto. Conteneva un piccolo barattolo di miele.
Dopo la laurea, il padre di Hossein offrì a Rostam un posto perfetto per fare carriera e tornare a Elahiyeh da proprietario di una villa.
In quel momento Rostam non pensò né al prestigio, né alla ricchezza.
Capì di non avere né la tempra dell’eroe, né l’orgoglio del martire. E non rifiutò né per coraggio, né per follia.
Capì di non avere una grande fede e nemmeno grandi ideali dietro cui nascondere le sue piccole decisioni. E non rifiutò per paura.
Non rifiutò nemmeno per Asal.
Era nel salone della villa del padre di Hossein. Come sempre, alle pareti, sui tavolini, per terra, dappertutto erano oggetti preziosi che stordivano lo sguardo in un mulinare di riflessi e bagliori. Hossein e il padre erano davanti a lui, gentili e sorridenti.
Rostam capì che a loro non importava della sua carriera, che l’offerta era una prova di fedeltà. Capì che non voleva diventare come loro e rifiutò.
Hossein raddoppiò il sorriso. Il padre raddoppiò la gentilezza. Disse che per lui la porta era sempre aperta.
Rostam li salutò senza incrociare lo sguardo. Gli tremavano le gambe. Era sicuro che fuori lo stessero già aspettando i basiji per portarlo al carcere di Evin.
Voleva fare la cosa giusta, solo che non sapeva quale fosse. L’unica cosa che sapeva è che Hossein non avrebbe dimenticato.
Lasciò Teheran e tornò a casa.
La sera lo zio Ali Reza prendeva la bottiglia di višnëvka e bevevano insieme. La mattina dopo lo zio andava al bazar e Rostam al ponte Khaju. Si accovacciava sul gradone più vicino all’acqua e guardava il fiume che scorreva tra le arcate.
Lo zio gli aveva detto di riposarsi tutto il tempo che voleva. Lo sguardo della madre, che ogni mattina lo svegliava, gli ricordava che doveva trovarsi un lavoro.
Non era facile senza raccomandazione, nemmeno con la laurea. E non aveva ancora capito quale fosse la cosa giusta da fare.
Un giorno, seduto come sempre sul gradone, notò un rametto arenato nella piccola secca che il flusso della corrente lasciava affiorare alla base del pilone. Rimase tutto il giorno a guardarlo, finché il sole passò dall’altra parte del ponte, l’ombra coprì tutto e si accesero le luci. All’improvviso, senza aver dato alcun segno, il rametto si staccò dalla piccola secca e fu portato via dalla corrente.
Rostam si alzò. Ora sapeva cosa fare. E che Hossein si sarebbe fatto vivo.
Non si sbagliava.
Hossein si fece vivo, ma dopo tredici anni.
Rostam aveva trovato e cambiato lavoro, aveva abitato in varie case, si era sposato e aveva avuto due bambine. Lo zio Ali Reza era morto.
Era la sera del quattordici giugno 2009. Mahmud Ahmadinejad era stato rieletto presidente dell’Iran il giorno prima. A Teheran la protesta era esplosa già alla proclamazione dei risultati e si era propagata alle altre città. Il regime tremava.
Fu allora che Hossein gli telefonò.
Parte #2
Un lembo del chador della madre stretto nella mano mentre va a comprare il pane. Questo è il suo primo ricordo.
Il padre morì in un incidente stradale quando Rostam aveva quattro anni. Fu lo zio Ali Reza, mercante di tappeti molto rispettato, a prendersi cura di lui.
Da bambino Rostam abitava a due passi dal bazar. Da un lato della piazza dell’Imam c’erano le botteghe dei calderai e degli smaltatori, mentre quelle dei rilegatori di corani, dei ciabattini e dei venditori di yogurt erano sul lato opposto. Un fratello della madre era cucitore di trapunte, un amico del padre miniaturista. I macellai non avevano sistemi di refrigerazione elettrica e vendevano la carne all’aria aperta. La mattina presto giravano con i loro carretti a mano i venditori di ghiaccio.
I bambini lo prendevano in giro per il nasone, ma Rostam ne era fiero, perché era come quello dello zio.
Allora c’era la guerra con l’Iraq e pochi tra i suoi compagni di scuola non persero un fratello o un cugino. Anche la famiglia di Rostam pianse i suoi morti. Il figlio maggiore dello zio tornò dal fronte in una bara e il secondo senza un braccio. Gli altri due si salvarono solo perché erano troppo piccoli per essere arruolati.
Dopo la scuola, lo zio mandò il nipote a studiare ingegneria nella capitale. All’università Rostam fece amicizia con Hossein.Hossein era appassionato di culturismo e storia militare. I due amici parlavano per ore delle vittorie dei parti e dei sasanidi contro i romani e i bizantini. Sognavano di entrare nella forza Quds e conquistare Baghdad, Riyad, Gerusalemme e il Cairo.
La prima volta che Rostam fu invitato a casa dall’amico rimase a bocca aperta davanti allo sfarzo dell’abitazione. Hossein abitava in una villa a Elahiyeh, il quartiere esclusivo a nord di Teheran. Il padre era un pezzo grosso dei pâsdâran. Alle pareti erano quadri di metallo inciso con versetti del Corano, sui tavolini vasellame d’argento cesellato e di metallo smaltato e per terra tappeti di finissima lavorazione.
Hossein lo introdusse in alcune ville dove si tenevano feste private. Rostam incontrò italiani, tedeschi, francesi. Gli scrittori conversavano con i diplomatici, i registi con gli alti papaveri del ministero del petrolio. Le idee diventavano progetti. Si costruivano carriere. Ogni impedimento burocratico sorto di giorno, la sera era accomodato.
Rostam bevve whisky e vodka. Conobbe ragazze che indossavano minigonne e vestiti attillati. Gli uomini e le donne si mischiavano liberamente.
Questa libertà era tollerata però solo in quelle ville. Per le strade dell’Iran girava la polizia religiosa, che vegliava sull’applicazione della sharī‛a earrestava le donne che lasciavano un paio di centimetri di capelli scoperti sopra la fronte. La punizione erano settantaquattro frustate.
L’ultimo anno di università fece il suo debutto alle feste di Elahiyeh Soraya.
Non era la più bella. Non era la più disponibile. Non era la più ricca. Era la più desiderata.
Hossein, che voleva essere il primo in tutto, voleva anche essere quello che la desiderava di più e la riempiva di regali.
Per il colore dei suoi occhi e la dolcezza del suo carattere Soraya era chiamata Asal, miele.
Rostam era cotto di lei, ma non si faceva illusioni. Come poteva far colpo su Asal con il naso che si ritrovava? E poi non era figlio di nessuno, né aveva soldi per farle regali.
Smettere di frequentare quelle case e dimenticarla era impensabile, ma incontrarla alle feste era anche peggio: se lei entrava in una stanza, lui ne usciva immediatamente, se lei parlava con un altro ragazzo, quello gli pareva simile a un dio.
Una volta Hossein voleva regalare a Soraya una scatolina d’avorio intarsiato appartenuta a un grande poeta, ma lei lo ignorò e ballò con Rostam tutta la sera.
Rostam visse la più intensa beatitudine e il più profondo sconforto: l’intimità era solo per far ingelosire l’altro.
Quella sera Hossein bevve tantissimo. Dopo la festa non tornò a casa, ma corse per le strade di Teheran finché non sbandò e si schiantò contro una macchina parcheggiata. Uscì dalla sua illeso e aggredì la pattuglia di polizia che era intervenuta. Stese a pugni un paio di guardie prima di essere ammanettato e portato in caserma. Dopo una telefonata del padre fu subito rilasciato.
Rostam aveva paura di perdere la sua amicizia, ma Hossein fu leale. Forse, pensò Rostam, non lo considerava un rivale.
Il rivale infatti era un altro. A far breccia nel cuore di Soraya non furono i muscoli di Hossein, ma gli occhi azzurri e i baffetti biondi di un giovane diplomatico francese.
Il diplomatico non parlava persiano. Hossein non parlava inglese. Voleva sfidarlo, ma non riusciva a provocarlo. Per settimane parlò solo di lui. L’odio aveva riempito la sua vita. Di Soraya si era dimenticato.
Già si parlava di fidanzamento. Asal avrebbe dovuto essere felice. Ma Rostam in fondo ai suoi occhi vide un vortice torbido. Lei lo mostrava solo a lui. Rostam visse di nuovo beatitudine e sconforto: era il depositario del segreto di Asal, ma non sapeva quale fosse.
Capì quando una sera sentì Hossein parlare di lei a voce alta, dicendo che Soraya doveva stare attenta a coprirsi i capelli quando usciva, che non doveva sfidare l’autorità, che la sua bellezza non l’avrebbe protetta.
Asal fu arrestata un pomeriggio, mentre tornava a casa dall’università.
Né i diplomatici, né gli alti papaveri del ministero del petrolio, né i registi e gli scrittori riuscirono a salvarla. Fu una delle ultime a subire il castigo della frusta. Poco dopo la legge fu cambiata e la pena corporale fu sostituita da una multa.
Parte #3
Rostam si appoggia al parapetto del terrazzo. Il caldo denso del sole di luglio è stato inghiottito dalla notte e la temperatura è scesa. Anche il brusio di motori dalla Chahar Bagh è calato.
Davanti a lui, sulla sinistra, è il quartiere armeno e alla sua destra il colle roccioso di Soffeh, ai cui piedi, tra fonti e macchie d’alberi, gli abitanti di Esfahan passeggiano e fanno merenda nei giorni di festa.
In fondo, nella poltiglia luminosa, Rostam riconosce il tracciato cieco del fiume Zayandeh, in secca da anni, e scorge la cupola della grande moschea dell’Imam.
L’ha appena chiamato la figlia maggiore, che studia arte all’università di Teheran. Vuole aprire una galleria nel bazar al posto del negozio di tappeti di quegli imbranati dei cugini, che non lo sanno mandare avanti.
Rostam si versa un altro bicchiere di višnëvka, il liquore alle ciliegie e al miele preparato clandestinamente dagli armeni. La bottiglia è quasi vuota.
La višnëvka lo scalda. Rostam sente per un momento la testa leggera, ma subito tornano i pensieri. Il lavoro. I clienti che non pagano. La figlia grande che vuole farsi l’operazione al naso e adesso vuole aprire una galleria d’arte. La figlia piccola che non studia e passa tutto il giorno a chattare con le amiche. La madre che gli ha chiesto di comprargli certe medicine, ma non quelle prescritte dal medico.
Rostam alza gli occhi al cielo e guarda le stelle: il Cigno vola in alto, libero, e in basso la Lince aggredisce la Giraffa.
La moglie è rimasta giù a guardare la televisione.
Rostam scende le scale senza far rumore e arriva in salotto. Il televisore è acceso, ma nessuno lo guarda.
Asal si è addormentata sul divano.