Rituale per l’evocazione di una scimmia

di Giovanni Peparello
Copertina: Un passo avanti – Julio Armenante

Gli alieni hanno invaso la terra in un preciso giorno di un mese preciso – ma non ricordo esattamente la data. In teoria, sebbene lo spazio-tempo non ne serbi memoria, dovrebbe essere tutto già avvenuto: assalto, invasione, crollo della civiltà, disperazione, lenta estinzione. Quando mai dovessi ricominciare a raccontare questa storia, dovrò cambiare tutte le date, spostarle di un anno o due nel futuro. La mia vena profetica sta esaurendosi? È questa la cosa che mi trattiene di più dal recuperare gli appunti: i microassestamenti della realtà rischierebbero di far collassare una struttura già compromessa.

La storia degli alieni cominciò per caso e divenne un progetto assoluto, un progetto assolutorio. All’epoca frequentavo l’università, andavo a lezione e vedevo gente, uscivo, bevevo e continuavo a dare occhiate al Passato e al Futuro imminenti, a interrogare l’Oracolo, a lanciare le ossa del demone sul tavolino, a leggere trippe di topo – ma la grandiosa macchina profetica, entrando in funzione quasi di soppiatto, con lento avviamento e tenui borbottii, cominciò progressivamente a comprimere il mio tempo. Lo macinava. Mi schiacciava sul presente. Smisi di andare a lezione, smisi di uscire. Cosa fai, perché non esci? Mi vergognavo a rispondere di essere stato benedetto con il dono della Profezia. Passò una settimana. Ne passarono due. A quel tempo il demone scimmia che avevo evocato in un pomeriggio di tanti anni fa aveva già smesso da tempo di svolazzarmi intorno. Le ferite delle unghiate con cui si aggrappava alla mia spalla si erano rimarginate. Ma la sua benedizione, il suo contratto siglato con sangue e con spirito, proseguiva i suoi effetti in un perenne lavorìo: sotto la cicatrizzazione della pelle, sotto la carne, sentivo che continuava ancora a rodermi l’osso, lo sentivo come una frizione che gratta. Quell’acido putrido mi faceva brillare il midollo. Quello era il clangore della Profezia: quella era la visione di ciò che sarebbe accaduto al mondo. Passarono tre settimane. Passò un mese.

Quanti progetti ti capiteranno nella vita? Infiniti, direbbe il demone cornuto. Ma io sono solo un essere umano, ovvero una mera funzione del testo – e tu, poi, sei soltanto un essere umano, un essere umano e basta. Quanti progetti avrai per le mani? Uno, ti dico: uno solo se va bene. 

Ma in qualche modo non ebbi fede. Non so perché ma non credei: non credei al fuoco sacro che mi rodeva le ossa. Così mi annoiai e dopo un mese ricominciai a vivere e lasciai spegnere il macchinario. Nel frattempo, senza che potessi gestirlo, il Futuro continuava ad apprestarsi. Si avvicinava, incombeva, avveniva. Ma io raccolsi gli appunti e li chiusi letteralmente in un cassetto.
A quel punto fu come se il dio avesse distolto lo sguardo da me. Mi resi conto troppo tardi della cazzata che avevo fatto. La voce del demone si volatilizzò. Il demone stesso, continuando a sbavare e sbocconcellare topi con alito fetido e fetide ali da vecchio, rimase ancorato al Passato e al Futuro, mentre io rimasi ancorato al presente, come se il presente fosse una landa desertica e il Passato e il Futuro fossero parte di un unico fiume carsico che sgorga e si inabissa al di qua e al di là degli orizzonti.

La prima volta che lo vidi, il demone scimmiesco era nascosto nella cantina del ristorante dove lavoravo. Aveva paura della luce. «Vai in cantina a prendere la cassetta con la lattuga», mi avevano detto di sopra. Io ero sceso e nel buio avevo sentito quella voce inconfondibile: «Ehi», mi disse, «portami un topo». Dove lo trovo un topo? Non ce ne sono abbastanza in cantina? Non avevo acceso la luce e il riverbero della cucina spioveva dall’alto. «Non ci sono topi qui», mi disse il demone scimmia, «è una cantina pulita». A quel punto si scostò dai prosciutti appesi, mostrandosi in piena interezza. Aveva le ali bucherellate e la capoccia bitorzoluta. Due tozzi corni emergevano come bernoccoli dalla fronte scimmiesca. Era lungo più o meno una ventina di centimetri.


Un Natale torno a casa e vado di sotto a cercare dei libri, Il ciclo delle fondazioni di Isaac Asimov e La svastica sul sole di Philip K. Dick. Fortunatamente li abbiamo a casa perché sono di mio fratello, e, siccome di recente ho deciso di farmi una cultura sulla fantascienza, sto facendo incetta di tutto quello che mi capita a tiro. Il Ciclo delle fondazioni in particolare mi serve perché lo cito in una serie di racconti che sto scrivendo, quindi voglio almeno capire di che parla. “Ma come? Citi un libro senza prima averlo letto?” Sta’ zitto, lascia fare ai professionisti e non rompere i coglioni. Comunque, questi libri stanno ammassati nella casa di sotto, quella che era dei miei nonni, tutti ammucchiati in scaffali di metallo tipo ferramenta o bunker antiatomico. L’umidità e la polvere li hanno resi appiccicosi, così – bleah – quando li muovo dagli scaffali uso solo i polpastrelli. Fin qui tutto normale, direi. Nel corridoio trovo La svastica sul sole. Bene, proseguo. Continuando a cercare entro in un’altra stanza, quella che potremmo chiamare “camera degli ospiti”. Accendo la luce e sento che anche l’interruttore è appiccicaticcio. Mmh. Bleah. Non buono. Non buono per niente. Ma andiamo avanti. Insomma, accendo la luce e la lampadina alogena vibra e bizza e mostra una stanza stracolma di cazzate, scatoloni, lenzuola, vestiti, lego, giochi da tavolo, libri. Ecco, in particolare: libri. Così vado verso lo scaffale che è in fondo alla stanza. Mentre mi avvicino, attraverso le pantofole sento scricchiolare il pavimento come se fosse cosparso di briciole. Mmh, mi dico, bleah, questa cosa non va bene per niente – però lì per lì non gli do troppo peso. Trovo finalmente Il Ciclo delle fondazioni. Lo trascino fuori dal suo posticino in punta di polpastrelli: piano… piano… olé, ecco fatto. Il librone nello scaffale lascia una voragine gargantuesca, quasi delle dimensioni di una nicchia. Ahi ahi: brividi. Chissà cosa vi ci si anniderebbe (vi ci si anniderebbe). Dimensioni della nicchia: tipo una ventina di centimetri per lato, dico. Vabbè, comunque, spengo la luce, esco in corridoio, faccio per tornare di sopra e improvvisamente sento un rumore. Mi fermo. È un rumore strano, minimo, quasi inesistente. Non assomiglia allo scricchiolio degli scaffali né al vibrare delle condutture. Non assomiglia nemmeno alla lampadina che bizza. Decido quindi di andare a controllare. Appena mi giro, ma proprio appena lo faccio, ecco che con la coda dell’occhio vedo ‘sto topolino che corre a nascondersi dentro uno scatolone. 

Ma sentiamo cosa ha da dire lo stesso Philip K. Dick, prendendo qualche parola da La svastica sul sole, Fanucci, Roma, 1997 – in particolare dall’introduzione di Carlo Pagetti, che è permalosetto e se non lo cito si arrabbia: «Del resto, scrivendo al collega James Blish nel maggio del 1964, Dick arriva a preconizzare “una vittoria completa per la fantascienza in un decennio o due. Molta narrativa che rientra di solito nel mainstream sarà sf [scientific fiction, N.d.R.] di natura, e lo saranno virtualmente tutti i romanzi sperimentali”». Uau. Ancora, ancora! Prosegue Carletto: «Anche Dick si colloca pienamente nell’area del postmoderno […]. Questo discorso, calato nelle opere mature di sf, non riguarda soltanto il rapporto ambiguo che si istituisce tra la realtà e l’illusione, ma ancora di più la relazione che intercorre tra la realtà (autobiografica, sociale, politica, storica) e quel sistema codificato di menzogne che è una qualunque forma di comunicazione».

Dopo settimane che continuo a dire che abbiamo topi in casa, mia madre finalmente mi chiama per aggiornarmi sulle operazioni di sterminio: «Eravamo indecisi se mettere veleno o trappole, poi abbiamo optato per le trappole – perché con il veleno chissà poi dove vanno a morire dopo averlo mangiato: devi recuperarli tutti», mi dice. «Le trappole sono tipo quelle dei cartoni animati, a molla», prosegue, «ci hanno detto di metterci sopra un pezzo di formaggio o meglio ancora un gheriglio di noce: dice che i topi vanno matti per le noci. Così le abbiamo sistemate e abbiamo iniziato a prenderli un bel po’. Avevo paura che li avremmo dovuti uccidere noi, ma sono dei topini talmente piccoli che il meccanismo della trappola gli schiaccia direttamente la testa». Sono dei sorcetti, dico, dei sorcetti spappolati. Un po’ sono triste per questi topolini, un po’ sono triste di non poterli vedere così maciullati – ecco, però non bisogna angustiarsi troppo, perché i sorci, al pari di ratti, topastri e pantegane, sono delle bestie tra le più pestifere al mondo. «Sì», risponde mia madre tagliando corto, dopodiché mi chiede come sto. 

Così io, che vorrei solo stare sdraiato nel letto in un pomeriggio assolato di maggio, in un giorno preciso del Passato, con questa storia dei topi ho ricominciato a pensare a lui. Dov’è finito, il demone cornuto? Avrà tutti i sorci che gli servono, lì da qualche parte nel Passato? Continuerò a procurarglieli, lì dove mi aspetta nel Futuro? È dura da trascorrere la vita nel presente.

Per rievocarlo dovrò pagare nuovamente la stessa tassa carnale che pagai allora, convocandolo sopra i segnacci della scrittura e andandolo ad aspettare in una cantina o in qualsiasi altro luogo basso, sotterraneo, ove abbondano le forze ctonie e alligna il malessere. Lui chiede carne, ma la carne dei mortali è il tempo. E il tempo mi manca, mi manca la carne: posso occuparmi di pochissime cose articolate, di zero cose ambiziose. Il fatto è che lavoro e studio contemporaneamente. Avete mai provato a lavorare e studiare insieme? È letteralmente impossibile. Il Multiverso è in congiura. Due anni dopo, la Profezia degli alieni continua a rimanere chiusa in un cassetto – non più letteralmente ma metaforicamente, perché l’ho spostata su uno scaffale insieme ad altri appunti. Paradossalmente per evocare il demone cornuto, il divoratore di pianeti, ho bisogno della sua energia malefica che mi stimoli e mi sostenga. Ma io sono solo un essere umano, un profugo, un viandante esiliato in questa sconfinata terra scheletrica – la terra scheletrica che i miei contemporanei chiamano presente.

Per tentare di rievocarlo ho quindi deciso di tenere un diario in cui scrivo ciò che avviene nel presente come se lo raccontassi nel futuro – come se ogni evento che mi capita fosse trascorso da anni, ma non solo: come se ogni più piccola minuzia fosse un segnale o un presagio di ciò che avviene nel futuro. Come se il presente avesse davvero un significato, come se ancora crescesse l’erba, come se valesse la pena raccontarne la storia. Esempio: oggi sono stato da Modo, ho preso una birra e ho parlato con Daniele delle solite cazzate. Ci siamo ubriacati un po’, poi ho salutato gli altri e sono tornato a casa. Fine. Ma nel diario scrivo: giorno X 2020. Ricordo ancora la sera in cui andai da Modo, quel locale ormai storico al centro di Bologna, in piena zona universitaria; allora credevo che fosse una sera come tante, una di quelle sere in cui la noia ti rallenta gesti e pensieri. Eppure all’epoca ancora non sapevo che quello che mi stava dicendo Daniele avrebbe radicalmente cambiato il mio modo di intendere la realtà. Ancora non lo sapevo, ma quella fu la sera in cui cominciai a riconquistare il Futuro, rientrando nelle grazie del dio che avevo smerdato. 


Ancora non lo sapevo, ma quella sera, all’interno del locale, era presente pure ________. Non la conobbi che molto tempo dopo, certo. E sicuramente lei non era tipa da farsi notare, così come non lo sono io – eppure, curiosamente, per motivi diversi e ugualmente imperscrutabili, quando successivamente ne parlammo ci rendemmo conto che entrambi riuscivamo a ricordare con esattezza la sera, la data, il luogo. E che quella sera era successo qualcosa.

Mentre scrivo, il mio coinquilino ascolta musica jazz a tutto volume. Il jazz mi fa vomitare. Un insetto cammina sul muro. Contando che non tolgo da secoli le ragnatele dagli angoli della stanza, i ragni potrebbero almeno fare il loro lavoro, no? E invece no. Ma porca puttana. Domani le spazzo via tutte.

Il Passato stava continuando ad andare avanti senza di me. Il Futuro, nel frattempo, accadeva – stava accadendo negli stessi luoghi dove accadeva l’infinito presente della mia condanna – e a volte scorgevo il baluginio distante del Futuro stesso, come una traccia antica impressa nella terra riarsa, nella stessa desertica distesa nata dopo l’assorbimento delle acque.

Quella sera, molto prima della quarantena1, arrivai fino a Modo, il solito locale bolognese in penombra. C’era la solita calca di gente e da bere la solita birra. Il mio gomito si era ritagliato uno spazio sul bancone vicino a Daniele Pini, che continuava a parlare e a parlare con voce da ubriaco. Non lo riuscivo a seguire bene, distratto dalla confusione. C’era qualcosa che mi spingeva a guardare nel mucchio, a fissare le ragazze una per una – anche se allora non potevo distinguere ________ tra tutte le altre (chissà, forse la vidi? Forse mi vide? Mi mentì in seguito, dicendo di non sapere chi fossi?). Daniele a un certo punto si rese conto che non lo stavo seguendo, così sbottò: «Ma che c’hai?» Mi colpì leggermente il gomito con il gomito, facendo traboccare un po’ della birra sulle dita con cui reggevo il bicchiere. Gli parlai a mezza bocca e glielo dissi. Finalmente gli dissi tutto: gli parlai del demone scimmiesco e della necessità dell’evocazione. E lui se ne uscì così, distrattamente, superficialmente, con l’aria nervosa di chi ha parlato per cinque minuti buoni senza essere stato ascoltato, e sparò all’improvviso l’idea che mi avrebbe cambiato la vita.

A cambiarmi davvero la vita fu però la morte di mio padre. Quello fu semplicemente il luogo del mio presente più lontano dal Passato e dal Futuro. Anche l’incidente, devo dire, venne ingollato e ruttato e spalmato dal rigurgitante presente. Non credevo che sarebbe stato possibile, a quel punto, con quella mancanza di carne e di tempo, con quel cuore ormai così debole, ottenere il Futuro che mi spettava e che ormai si era fatto lontanissimo. Dopo aver lasciato definitivamente l’università, dopo aver sistemato i conti, arrivai finalmente a chiedermi se davvero fossi stato imprigionato in una bolla divina. Oppure l’inganno era stato iniziale? Non c’era mai stata alcuna aura profetica? Sapevo soltanto che il mio arco narrativo era completo – e vedevo già le mie ossa imbiancarsi al sole, agghindate in grisaglie da bancario, le stesse che aveva indossato mio padre, laggiù nell’antica città diroccata, al limite dell’orizzonte conosciuto ma ancora all’interno dell’orizzonte stesso.

La prima volta che lo evocai dovetti pagare uno scotto di sangue e di tempo. «Il tempo è la carne dei mortali», mi sussurrava con l’alito fetido abbrancandomi la carne con gli artigli da pappagallo. E, occhieggiando da sopra la spalla come un’amante, mi guardava scrivere storie lunghissime, mezze d’amore e mezze di tradimento, pagine e pagine, centinaia di pagine una via l’altra – storie lunghissime che non avrebbe mai letto nessuno. Non le avrebbe mai lette nessuno perché facevano schifo.

A quel cazzo di demone bavoso non interessava: lui voleva che io macinassi pagine, che io mi alzassi la mattina e scrivessi come se fosse un lavoro, arrivando a occupare così tanto tempo della mia giornata da occupare intere categorie del mio Passato. Ma per il resto del tempo io volevo essere soltanto un adolescente sdraiato al sole in un pomeriggio di maggio – soltanto questo: ascoltare le rondini là fuori nell’azzurro, le rondini che coi becchi affondavano nella carne celeste, srotolando filari di gale e festoni, di nastri e festoni e stelle filanti.

Daniele mi aspettava per una birra. Se ne stava fuori dal locale, con gli avambracci incrociati sul tavolino, puntando tutto il peso sui gomiti. Sfumacchiava una sizza davanti a una pinta mezza bevuta, l’occhio pigro, lo sguardo a mezz’asta. Arrivai in ritardo come al solito. Lui vedendomi alzò le braccia in segno di esultanza e disse che presentandomi sistematicamente mezz’ora dopo agli appuntamenti non avrei di sicuro potuto aiutare i delfini che si impigliano nelle reti da pesca del Mediterraneo. «Se continui ad arriva’ in ritardo così», mi disse, «come la vogliamo risolvere ‘sta questione meridionale, eh? Come cazzo la risolviamo la crisi climatica?» Snoffai: «Non vedo in che modo potrei combattere la crisi climatica se arrivassi in orario». Lui mi guardò sputando il fumo e alzò gli occhi al cielo come se stesse parlando a un bambino: «Ho capito, ho capito: ma perché non ci provi, eh? Perché non ci provi?» 

Quando mia madre morì mi sentii solo al mondo. Solo come non ero stato mai, nemmeno quando mi abbandonò dalle suore il primo giorno d’asilo e andò a lavorare e sembrava che fosse sparita per sempre. Me lo ricordo quel giorno, ricordo quel suo impermeabile rosso e il suo profumo. Ricordo che mi lasciò andare a giocare con gli altri bambini credendo che se fosse uscita di soppiatto non mi sarei accorto di niente. Non mi sentii così solo nemmeno quando uscì quella sera, lasciandomi a guardia di mio fratello, facendomi promettere che avrei fatto il bravo ometto – e dopo due ore io già non ce la facevo più, nemmeno Francesco ce la faceva più: lui piangeva e chiamava la mamma e anch’io mi resi conto di voler chiamare la mamma. Così andai in bagno e tra tutte le boccette di vetro trovai il suo profumo. Lo spruzzai quasi tutto su una rivista, lo spruzzai più e più volte finché la rivista non ne fu impregnata, zuppa, poi ci appoggiai il naso, lì sopra la lavatrice, in bagno, e inspirai fortissimo e sentii l’odore. Poi portai la rivista a Francesco e gli dissi: «Tieni, questo è l’odore della mamma». Lui dopo un po’ si calmò; non so se capì cosa stavo facendo o se semplicemente rimase ipnotizzato da tutte le mie operazioni. Quando la mamma tornò io mi stavo preparando per andare a letto. Lei andò in bagno per struccarsi e vide la rivista zuppa; uscì fuori: «Giovanni, cosa è successo? Cosa hai fatto?»

Vorrei poterti rispondere ancora. Vorrei che fosse il Passato per risponderti ancora. Vorrei che potessi vedermi anche adesso: adesso che sono diventato famoso e posso dire le parolacce in televisione.

Ecco: appare chiaro che c’è uno scarto tra il presente e il Futuro. C’è una distanza incolmabile alla fine di questo deserto. Se potessi lo chiederei ancora a quel demone buffo: perché non riesco a raggiungere ciò che è stato profetizzato? Davvero tutto questo è servito a qualcosa?

Uno dei primi racconti che scrissi faceva schifo e si intitolava “Nonna” (che titolo dimmerda). Arrivai semifinalista al Campiello Giovani ma faceva proprio schifo. Lo scrissi di sotto, nella camera degli ospiti, quella dove anni dopo pestai cacche di topo senza accorgermi che fossero cacche di topo. I sorci hanno proliferato da quando il demone volante se ne è andato. Eppure… Eppure ancora oggi non riesco a ricordarmi quando se ne è andato, in quale preciso momento del Passato. Se ne è andato; se ne andò; sparì del tutto. Di certo il demone non appartiene al presente, non è mai appartenuto al presente. Nemmeno al presente trascorso, nemmeno al presente di ieri. Finché…

Finché a forza di pensarci ho capito: esiste uno scarto anche tra Passato e presente. Esiste un punto, una voragine insuperabile in cui quello che è stato è finito e tutto questo è incominciato. Come una lunghissima notte, un lunghissimo sonno che mi separa dagli antipodi della mia vita. Ma… Eppure… Cos’è questa cosa che sento? È un insulto? È una maledizione? È il diavolo che m’ha maledetto? È un dio? Oppure… oppure è stato… ommioddio… oppure è stato Lui?

È stato Lui, il Nemico? L’Eterno Nemico dell’Eterna Lotta? Il Gran Puzzo, il Gran Male, il Gran Vermo? Quale forma ha ottenuto per sé in questo Universo? È il Nemico che mi agita il sonno? È il Nemico che mi appanna la mente? È Lui che mi minaccia, che mi trattiene la mano, che separa la mia vita dal mondo?

Nel corso di questo rituale, ho, come si suol dire, vomitato l’anima sulla pagina. Metaforicamente, giacché io non posseggo un’anima.

Allora allontano il lavoro, le giornate lunghe, lo studio, le giornate inconcludenti, e rimando ogni impegno al futuro – non al Futuro ma al futuro, quel lembo di tempo che è ancora nei territori del presente ma è poco più lontano, poco più in là verso l’orizzonte ma non ancora oltre l’orizzonte, dove il Futuro sta svolgendosi senza di me. Così tra mesi e mesi, tra anni, nonostante il ricordo, nonostante la fatica, tutto questo sarà ancora parte del presente.

Mio Dio, ma che maledizione è mai questa?

Davvero ho peccato così tanto?

Supero lo scarto, rivango il Passato, ricordo quando evocai il demone scimmiesco per la prima volta. Eccolo lì, l’Appaltatore del Grandioso, quando ancora non aveva una forma. C’era già quando scrissi della Nonna? C’era già. C’era ancora quando scrissi una storia mezza d’amore e mezza di tradimenti? C’era ancora. Dov’è la terra che lo ha inghiottito? Il presente lo ha scarnificato; di lui ora rimangono solo le ossa: miasmatiche e secche, odoranti di tomba, come ossicini di pollo le getto sul tavolino e leggo il Futuro, rivango il Passato. Dov’è la carne del diavolo? Dov’è il Mostro che la ha divorata?

E se quello che stai vivendo fosse un universo composto dagli scarti di altri universi? E se io stesso fossi l’insieme delle mie sconfitte in altri universi?

Dopo la prima birra io e Daniele ci spostammo dentro il locale ad aspettare gli altri. Nella calca ci piaceva sbottare gente e parlare con ragazze sconosciute. Non ci cacavano, certo, ma il nostro era un approccio tutto sbagliato. Io per esempio mi contraddistinguevo per l’assenza di approccio; Daniele Pini invece – il famigerato Daniele Pini – aveva fatto della gaffe il suo cavallo di battaglia: continuava a ripetere gli stessi errori sfacciati quasi con gusto, con disprezzo supremo per sé e per le donne. Anche quella sera, tutto partì quando ordinammo un’altra birra. Io avevo una voglia matta di parlare del diavolo e dell’arrivo degli dèi, di tutto ciò che riguardava la Profezia, ma a lui sembrava davvero bastare soltanto la birra: chiara, fresca, amarognola, caffettosa, rossa, scura, saporita. Così stavamo appoggiati al bancone, gomito a gomito, quando vedemmo due ragazze passarci davanti mentre portavano i loro Hugo2 al tavolino. Vidi scintillare lo sguardo di Daniele; “Ohi ohi”, pensai. Quello sguardo diceva: due ragazze per due ragazzi, ecco che si combina la storia. Così si rivolse a loro indicandole con la birra e urlando un “OH” belluino. Le tipe si girarono alzando il sopracciglio come nelle serie tv americane quando le adolescenti sono mezze schifate e ostentano un’ironica aria di superiorità (anche perché erano a un metro di distanza e difficilmente avrebbero potuto non notarlo). Lui le squadrò e disse: «Ma davvero vi bevete quella merda?».

In realtà sono uscito con molte Eleonore. Ops, riformulo: volevo dire che in realtà sono uscito con molte ragazze, solo che non volevo usare genericamente il nome comune, così spersonalizzato, né usare i loro nomi reali perché magari scrivendoli mi rendo conto che non sono state poi molte, queste ragazze. E poi magari qualcuna si offende e si sente tirata in causa senza motivo. Allora ho pensato di chiamarle tutte collettivamente Eleonore, così tanto per sfruttare la forza del nome proprio, tanto per farti immaginare un carattere, il carattere che normalmente assoceresti a Eleonora – anche perché Eleonora è un nome che mi piace tantissimo – e so che le Eleonore che conosco mi perdoneranno, anche perché solitamente con loro ho un buon rapporto e sono tutte mie amiche.

In particolare una volta uscii con un’Eleonora che mi piaceva davvero. Volevo portarla a conoscere i miei. Ma seriamente, eh: non come quando, dopo due uscite, già passi il resto della serata indeciso sul nome da dare ai vostri figli. No no: volevo davvero portarla a conoscere i miei, volevo iniziare a condividere gli amici. Volevo presentarla a Daniele. Così consultai l’Oracolo. Tirai sulla scrivania le ossa spolpate della scimmia e guardai nel Futuro. Vidi ahimé che lei non era l’Eleonora giusta. Porca puttana. Dovetti troncare. Me ne pentii. Me ne pento tuttora. Ma poi ripenso al fatto che ________, anni dopo, quando la incontrai, mi salvò la vita davvero. O almeno: mi salvò da quella vita lì e dal modo in cui la stavo vivendo.

Sdraiato sul letto, ho bisogno soltanto di questo sole di maggio. La luce di casa ha un odore di casa e un sapore di casa: è casa essa stessa, e non esiste casa al di fuori di questa luce, con questo preciso colore, con questo preciso grado di calore. So che, finché ci sarà questa luce, ci sarà anche casa mia.

Ma poi penso ai miei. Sono corpi mortali. Anch’essi sono casa. Eppure la luce resiste. La luce non è effimera. «E invece», sento che dice una voce chioccia: e invece la forza della luce che vedi non è la stessa del sole. Un giorno sarà annebbiata dall’inquinamento. Un giorno la corrente del golfo raffredderà e i nostri colori scintillanti diventeranno quelli della brughiera inglese. Un giorno ci sarà un terremoto, si spaccherà in quattro la faglia di Sant’Andrea, cadranno grappoli di bombe atomiche e un’invasione aliena sposterà l’asse terrestre di quel tanto che basta da variare di un grado l’inclinazione con cui i raggi del sole entrano nella nostra atmosfera, e allora la luce assumerà un altro colore, sarà verde, sarà bollita, sarà melassa filancicosa e venefica. Allora la casa si troverà solo nel Passato e nel Futuro che non ho mai avuto. E a quel punto sarò solo al mondo.

Cosa ne è stata della Profezia sugli alieni? Indubbiamente sta avvenendo. Se consulto l’Oracolo, il Futuro me lo vedo accanto: la vita è già un’altra e non è mai stata questa che sto vivendo. Il dio mi ha salvato la vita? Mi ha rinchiuso in un eterno presente, in questo eterno deserto, perché potessi rimanere al sicuro dagli sconquassamenti del Futuro? Altissime torri bianche veleggiano nel cielo come immensi bastioni. Queste sono le mie visioni. Queste lo erano: i bastioni altissimi e irraggiungibili allo sguardo umano. Ma le mie ossa non brillano più.

Mi accorsi troppo tardi che Daniele era già ubriaco. Nella mezz’ora del mio ritardo aveva aspettato bevendo, continuando a bere dopo un intero pomeriggio passato a stonarsi con un altro imprecisato gruppo di amici. Pensava di fare tutta una tirata e ora a malapena si reggeva in piedi. Ma porca puttana. Con i gomiti sul bancone appiccicoso, continuava a parlare e parlare con voce da ubriaco come se qualcuno davvero lo stesse ascoltando. Come se io lo stessi ascoltando. «Sai che l’altra sera ho conosciuto una tipa che leggeva tarocchi? Mi ha spiegato in sostanza che cosa sono, che cosa servono: stammi a sentire, no?» Mi dice: «Allora praticamente i tarocchi non sono nati con questa funzione qua, no?» Dice: «La hanno acquisita nel corso del tempo»3. Dopo cinque minuti di frasi insensate cominciai a cercare rifugio nella calca nel locale. Magari tra la folla c’era qualcuno che avevo già incontrato. Mi sembrò di riconoscere tre tipi che giocavano a Metal Slug lì in fondo al bancone – e stavo quasi per andare a salutarli con una bella pacca sulle spalle quando mi accorsi che in realtà non erano i tipi che credevo, ma gli assomigliavano e basta. Mi salvai da una bella figura di merda. 4«E praticamente lei mi spiega che anche La Morte, cioè la morte cazzo, hai capito no?, anche La Morte non è una carta del tutto negativa, ma che dipende dalle altre carte con cui la incroci, dalla posizione che gli capita… oh, ma?» E in quel momento Daniele si accorse che non lo stavo ascoltando. Si innervosì. Mi diede una gomitata sul gomito, facendomi versare un po’ di birra sulle dita con cui stringevo il bicchiere: «Oh”, mi disse, “ma che c’hai?»

Quando tornai a casa, il Divoratore di Stelle era appeso all’angolo più buio della stanza, dove non riverberava la luce del tramonto.

Quando tornai a casa erano le quattro di notte ed ero triste e ubriaco lercio; se qualcuno me lo avesse chiesto, non avrei saputo spiegare che gusto ci fosse a essere vivo. Mi spogliai e mi misi a letto. Spensi la luce e sperai per un momento che un infarto mi sorprendesse nel sonno. Subito dopo ebbi paura di questo pensiero. Se ci fosse stato un modo, ti giuro, se ci fosse stato un modo avrei chiuso gli occhi e li avrei riaperti nel Passato, in quel tardo pomeriggio di maggio, appena tornato da scuola, appena prima di andare al ristorante, quando negli ultimi sprazzi dorati le rondini volteggiavano garrendo e sfondando coi becchi e scavando coi becchi il torace del cielo. Stavo per prendere sonno, quando mia madre mi urlò qualcosa dalla cucina. Non ricordo più cosa mi disse. Forse la solita cosa con quel tono passivo-aggressivo: “non sapevo che fossi tornato, potevi almeno avvertire, potevi almeno farmelo sapere”. Aveva sentito aprire e chiudere la porta di casa senza che nessuno passasse a salutarla. «Giovanni?», urlò: «Giovanni, sei tu?»
Riaprii gli occhi di scatto e girai lo sguardo per la stanza: la scimmia era ancora lì, appesa al soffitto, dove non riverberava la luce del tramonto.


1 Non so se ve lo ricordate, ma nel 2020 una pandemia d’origine sconosciuta mise fine alla vita come la conosciamo, portando la civiltà al collasso. [torna su]

2 Lo Hugo, secondo l’autorevole Wikipedia, è un cocktail originario dell’Alto Adige, leggermente alcolico, a base di prosecco, sciroppo di fiori di sambuco (o di melissa), selz (o acqua gassata) e foglie di menta. La sua gradazione alcolica si aggira intorno gli 8° ed è noto principalmente per essere un cocktail per mammolette. [torna su]

3 Cioè io ho sempre pensato che i tarocchi fossero una cosa scema mezza new age oppure una cosa che farebbero solo le donne che leggono gli oroscopi però poi questa mi fa: «Guarda che vanno interpretati, eh». E io dico beh certo che vanno interpretati, non è che parlano da soli, no? Lei dice sì ma vanno interpretati perché nessuna carta ha un significato univoco, non è né buona né cattiva. A quel punto, dice, se la persona che li fa ti conosce abbastanza o è almeno capace di indovinare che tipo di persona sei – secondo me esistono queste persone qua, no? Beh insomma se è capace di farlo può leggere o aiutarti a leggere delle cose che sono essenzialmente vere per la tua vita ma che non avresti potuto indovinare o immaginare in altri modi4. [torna su]

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