Testo: Ugo Polli
Immagine: Il profeta del blu – Julio Armenante
La prima volta che camminai sulle acque avevo dodici anni.
Fu l’uomo vestito di nero a insegnarmi il trucco.
In quel tempo ero un ragazzino irrequieto, non riuscivo a rimanere fermo un attimo. So per certo che lo psicologo infantile aveva detto a mia madre che non avevo ancora superato il trauma della separazione dei miei genitori. Quando lei me lo riferì, sbronza e impasticcata come al solito, risi di gusto. Non avevo superato il trauma? Figurarsi, a me non mancava nulla: quasi non lo ricordavo nemmeno, mio padre. Ogni volta che ripensavo a lui l’unica immagine che mi tornava alla mente, ora che ci penso probabilmente falsa, era quella di un uomo che rincasava a notte fonda con due enormi sacchi pieni di denaro sulle spalle. Secondo Jarvis, il nostro domestico dell’epoca, un fatto del genere non era mai accaduto e, con ogni probabilità, dovevo averlo sognato. Eppure lo ricordo come se fosse avvenuto ieri.
Come avrete intuito non ero esattamente quello che si definisce un ragazzino bisognoso. A forza di rientrare a tarda notte con sacchi di denaro sulla schiena, mio padre aveva accumulato un’ingente fortuna: la casa coniugale, un elegante appartamento con vista su Central Park, era rimasta a mia madre dopo la separazione, insieme a un cospicuo assegno mensile per il nostro mantenimento.
Quando incontrai per la prima volta l’uomo vestito di nero, quindi, secondo me non me la passavo affatto male. Soprattutto d’estate. Central Park era il mio giardino di casa: mi mettevo addosso quattro stracci, un paio di scarpe da ginnastica malandate e scendevo a giocare con i miei amichetti, che ignoravano chi fossi e mi trattavano come uno di loro. Jarvis provò a seguirmi a distanza, le prime volte: poi provò a informare mia madre che all’epoca era a Istanbul con l’amante; infine desistette.
Passai vicino all’uomo vestito di nero quasi senza notarlo. Tornavo a casa in bicicletta lungo i viali, il sole tramontava dietro i grattacieli e i colori dell’estate newyorkese si attenuavano, pronti a esplodere nuovamente il giorno successivo. L’uomo vestito di nero stava seduto su una panchina e, mentre passavo, lasciò cadere una palla da baseball nella direzione della mia ruota anteriore. Mi fermai, scesi e la raccolsi. Era una palla molto antica: sopra c’era una firma, probabilmente di un giocatore. Appoggiai la bicicletta a terra e mi avvicinai all’uomo vestito di nero. Il suo viso, seminascosto da un cappellaccio, era… come posso dire… indistinto. Aveva lineamenti che non erano lineamenti, un naso che non era un naso. Guardandolo di sfuggita si ricavava l’impressione di un volto definito: osservandolo attentamente, invece, i lineamenti mutavano, come se fossero liquidi. Forse nessuno lo osserva mai attentamente, pensai.
La sua voce, quando parlò, era identica al suo aspetto.
Era nera e indistinta e mutevole. Variava dai toni bassi agli alti, cambiava timbro, mutava anche nell’ambito della stessa frase, senza motivo, si arrotolava su sé stessa e tornava indietro.
«Questa notte, a mezzanotte, ci vedremo qui. Ti insegnerò un trucco che nessuno conosce. Ti piacerà molto e te ne insegnerò molti altri». L’uomo vestito di nero era fatto così, come avrei scoperto in seguito: non faceva mai proposte o ipotesi, parlava semplicemente di cose che sarebbero accadute nel futuro, come se fossero già accadute.
Ora, io non sono un fesso e non lo ero neppure a dodici anni. Sapevo benissimo quello che si diceva capitasse ai ragazzini che si facevano adescare nei parchi da uomini vestiti di nero o non vestiti affatto. Ricordo che presi la mia decisione senza dubitare, neppure per un istante. La sera stessa, a mezzanotte in punto, elusa la sorveglianza di Jarvis, ero seduto sulla panchina e attendevo l’uomo vestito di nero. Che di lì a poco si materializzò, come se in quel momento esatto fosse stato generato dalla notte.
Non è facile per niente imparare a camminare sulle acque. Devi dimenticare tutto quello che sai, poi impararlo di nuovo e poi dimenticarlo ancora. Al terzo passaggio, quando hai dimenticato tutto per la seconda volta, inizi ad avere le idee più chiare, anche se un maestro che parla esclusivamente al futuro non aiuta di certo. «Tu non leviterai», diceva l’uomo vestito di nero. «Non potrai levarti in volo dove ti pare. L’acqua è essenziale. L’acqua ti sostiene e tu sostieni l’acqua». Aveva ragione, ovviamente, come scoprii quando, dopo appena un mese di tentativi, riuscii a camminare nella vasca da bagno.
Piena.
È tutta questione di volontà. TU NON VUOI AFFONDARE. E non affondi, se riesci a volere in modo sufficientemente focalizzato. Certo, non è che si impari a volere in quel modo nell’arco di qualche seduta: è normale, nella vita di tutti i giorni, credere di volere fortemente qualcosa. In realtà la si desidera un po’, di solito, magari la si auspica: ma non la si vuole. Non con l’intensità necessaria per averla davvero.
Per più di quindici anni l’uomo vestito di nero mi ha insegnato molte cose meravigliose. Ormai sono al suo livello, conosco tutti i suoi trucchi e anche quelli che, beh, come dire, non sono proprio trucchi.
Ieri l’uomo vestito di nero mi ha preso da parte. «Non ho più nulla da insegnarti», ha detto. «La prossima volta che ci incontreremo sarà a parti invertite». Poi è scomparso, usando la trasmutazione eterogenea che anche io, ormai, padroneggio.
Ci ho messo un po’ a capire che cosa intendeva dire: ma adesso ho capito, e mi sto preparando.
Ho indossato il vestito nero e il cappellaccio, ho preso la palla da baseball e sto volendo che il mio volto e la mia voce mutino continuamente. Questa sera sarò seduto su una panchina a Central Park per incontrare il me stesso di quindici anni fa e insegnargli i miei trucchi.
La prima volta che viaggiai nel tempo avevo venticinque anni.
Fu l’uomo vestito di nero a insegnarmi il trucco.