di Carlo Martello
Copertina di Chiara Casetta
In questo ultimo periodo mi è capitato di ripensare alla mia identità, succede quando si attraversa un cambiamento, piccolo o più ingombrante da gestire, quando qualcun* ci fa riflettere sul nostro carattere, quando ci si innamora, quando ci si lascia. Succede, non è così strano, anzi, è piuttosto frequente per tutt*. A volte non c’è neppure una ragione per farlo, si riflette su sé stess* per confermare delle percezioni o per cambiarle o per il gusto di farlo.
Perché capita così spesso se siamo inequivocabilmente noi, sempre lo stesso io, che d’accordo, può cambiare ma in fondo di quanto? Beh, perché non siamo sempre lo stesso io, è per questo che ci si interroga di continuo, per verificare il cambiamento o la stasi.
Posso cambiare all’interno della stessa giornata, e milioni di volte nel corso della vita. Di solito, siccome sono un uomo bianco eterosessuale, questa cosa non interessa a nessun*: il mio campo d’azione è più largo di altri. Io lo trovo stretto, e in effetti lo è, ma più capiente e permette più azioni di altri, questo è altrettanto vero. Posso fare meno cose di un uomo bianco eterosessuale ricco, meno cose di una donna eterosessuale ricca, ma più di una donna eterosessuale benestante, molte più di una donna nera disabile, di un uomo bisessuale, di una persona grassa, e via e via.
Quello che scelgo di fare del mio tempo libero, delle mie relazioni, in parte del mio corpo, non interessa nessun* e nessun* me ne viene a chiedere conto. Altre categorie di persone devono continuamente spiegare cosa stanno facendo e perché, in altri termini devono spiegare il fatto che esistono, la loro presenza nel mondo. Le categorie sono ampie, ma soprattutto cambiano perché sono costrutti culturali, e sono intrecciate tra loro, per cui le classi sociali intervengono a determinare la fortuna o la sfortuna di un omosessuale, per esempio. Allo stesso modo, una donna ricca di famiglia potrebbe avere più o meno successo per via della propria sessualità. Gli esempi sono migliaia.
La legge Zan non avrebbe cambiato la percezione comune rispetto alle categorie culturali che ci definiscono e determinano una buona parte delle nostre esistenze, avrebbe contribuito, come stanno dicendo molte e molti, a generare un primo piano simbolico a livello dello Stato.
Il punto è cogliere la fluidità delle esistenze umane, la natura culturale delle norme che abbiamo a regolare le nostre vite. Il punto è stabilire che sono non solo possibili, ma auspicabili, per il benessere di tutt*, altre forme di relazione, altre forme di sessualità, altre forme di organizzazione del lavoro, altre forme di organizzazione della famiglia. Il punto è accettare – e non reprimere, come sostanzialmente lo Stato in questa occasione, sul piano simbolico, ha deciso di fare – che queste alternative esistono già, sono praticate da alcune minoranze.
Quello che si chiedeva allo Stato era di rendersi disponibile a costruire un pezzo di sentimento comune, soprattutto a supporto di quel miscuglio di categorie – che siamo quasi tutt* – che deve continuamente difendersi dalla violenza fisica, verbale, morale, e dall’umiliazione perenne di dover giustificare la propria esistenza.
Se rifletto sulla mia identità, oggi mi sento padre; mio figlio, in questo periodo, è il centro della mia organizzazione. Eppure ricordo bene che sono stato ragazzo, sono stato donna, sono stato dominante e sottomesso. Cosa sarò tra sei settimane? E perché non più cose insieme? Che famiglia avrò? Perché lo Stato mi deve ostacolare nella ricerca del mio equilibrio? Perché devo lavorare inutilmente?
A queste domande, che non sono solo mie, lo Stato ha scelto di rispondere pressappoco così: “ci serve che lavori e che non rompi il cazzo, ci servono i tuoi soldi, pure se non ne hai, te li facciamo tirare fuori, non ti preoccupare. E la famiglia è una, indivisibile, maschio e femmina, perché così è più facile da organizzare per noi che dobbiamo gestire il vostro lavoro. Comanda il maschio perché è così e basta. Se proprio vuole comandare una femmina, può fare il maschio. A posto. Arrivederci. A lavorare adesso”.
Si capisce che non è una questione di principio, non si tratta di scoprire il sesso degli angeli, sono questioni molto pratiche. Sono pure un sacco di soldi. Ecco di cosa si parla. Ecco cosa lo Stato non ha voluto appoggiare simbolicamente.