di Giorgia Giuliano
Copertina – Cristiano Baricelli
Non avevo mai visto tirare una donna dalla testa per aprirle la pancia. La matrioska più piccola non ha tagli, le altre muovono le labbra, ridono con la pancia spaccata dai cesari di legna, dove tutti sono dottori. Chi ha un cuore, non ha il cuore di capire che una ferita non è una fessura, che le dita non devono giocare d’azzardo, scommettere su cosa c’è dentro. Eva dice che, fino a quando restiamo vuote, non dobbiamo dispiacerci. Io sono nata dal vuoto, ma nascere non è un risultato, è un dubbio che evolve in frode. Serve un tentativo illogico di riparazione, la nascita ha un esordio decrescente, il suo contatto con il mondo è da leggere al contrario, ci colloca in un punto e ci dice che bisogna crescere, sommare gli anni man mano che qualcosa si perde. La vita perde potenza di calcolo, i calcoli sono parafrasi, il futuro che avevo previsto non mi risulta. Questo mi provoca uno sbalzo termico, io così non cresco. Sono l’ultima matrioska, nessuno mi può aprire, sono la più piccola, la più egoista, dentro non ho posto. Copia minuscola della prima che non sa di quanto sia buia una pancia, di quanto sia stretta. Nessuno ci ha mai detto cosa siamo tra di noi, sappiamo solo cosa siamo per gli altri. Cercano me, noi in tutto siamo cinque, una accanto all’altra, statuine senza braccia, sguardi dipinti che non possiamo abbassare. Lui ci ha viste. Si alza di scatto dalla sedia e la sedia cade sul pavimento, aspetta le percosse. È uno scheletro mangiato dai tarli. Si avvicina, ci tocca, vorremmo entrare una dentro l’altra come bambine che sanno finalmente riordinare una stanza.
Mi ha scelta anche questa volta. Sono tenace di un dolore che è fatto di carne, che sfida la carne, carne che ci mette poco ad andare a male. Infuoco la sua guancia pelosa, divoro il suo bosco, dentro di me scorre un brodo ghiacciato. I rimasugli di verdure sono carcasse dentro la mia bocca, ingoio ventricoli sminuzzati come gambi di sedano e carote, l’uomo è invisibile, sfoglio di cipolla cotta. Gli chiedo cento euro e lui si sente sottomesso, io strapagata. Crede sia gratuito fittare un corpo, albergare sapendo di andarsene da un momento all’altro, non sa che a pagare veramente non è l’ospite, ma la proprietaria dell’albergo.
«Pare che si è innamorato di te, ti sceglie sempre».
«Si vede che so lavorare».
«Quanto ti dà?».
Da tre mesi, sempre cento euro. E oggi che è tornato mi ha chiesto poi me li restituisci? Da me vuole un favore, non cerca veramente i soldi. Risponde ai miei comandi, lo fa per farmi capire che può darmi tutto. Voglio fare zapping sulle sue parole e su quelle di Eva che riesce a distinguere gli uomini buoni dai clienti, quest’uomo innamorato di un guscio di legno che ha ancora così poca esperienza. Eva lo fa perché non ha niente da fare, io per pagarmi gli studi. Ho dato due esami, uno ce l’ho stretto tra le gambe, non è teorico né pratico, è tacito. Tacito, l’oratore, amava brevità ed ellissi, ed io come lui. Ha scritto l’Agricola autobiografia del suocero.Io anche sono una figura agricola, una matrioska contadina, semino piacere e raccolgo denaro, coltivo la mia cultura, uso un fertilizzante insano. Una volta mi sono data uno schiaffo, la mattina del trenta in Latino. Sono entrata in bagno, ho aperto il rubinetto, e con la mano bagnata mi sono arrossata la guancia. Volevo una punizione fresca, nella vita vorrei essere sveglia come lo sono quando parlo a un esame. Adesso sulla guancia faccio carezze, non mi maltratto più. È quell’uomo che si maltratta, che cerca in tutti i modi di aprirmi. Mi forza e mi spinge, sembra stia sfidando un altro uomo, accetto la sfida, m’indurisco, gli ricordo che non ho ferite da riaprire e che, su di me, sia difficile crearne. Ha la stessa lingua triste di Catullo, discendo da Clodia, ho le idee chiare, lo farò soffrire. Si aggrappa alla mia pelle come fossi lenzuolo di seta, fibra scivolosa, traditrice. M’immobilizza in una trappola morbida, ha vinto, vorrei che Eva ci vedesse, preferisco ci veda anziché ammetterle che è come dice. Lui mi lascia centododici euro e cinquanta, non capisco perché i dodici e cinquanta.
Secondo te, è la mancia?, ma Eva mi dice subito di andare in farmacia, anzi ci va lei al mio posto, e a me sembra come quando non mi vendevano le sigarette.
«Vado a prendere la bocca della verità».
«Va bene, così vediamo se mi mangia», ed esce abbottonandosi il cappotto fino alla gola, non l’avevo mai vista coprirsi e invece Eva conosce il pudore. Lei, prima matrioska, ci ha fatto scuola dicendoci che siamo contenitori, che dobbiamo essere capienti, specialmente io, l’egoista. Cinque russe che riscaldano un appartamento, i clienti da distrarre sennò congelano. Ci pregano di farlo e le loro preghiere puzzano di alcol, vodka. Sono già caldi, vogliono surriscaldarsi, ci sanno potenti, ma in pubblico non lo dichiarano. Traditori, matrioskine anche loro, maschi di matrioska. Grandi in società e schegge quando godono, davanti a noi sono piccoli bambini che giocano.
I cinquanta centesimi sono tornati indietro, li ho trovati nel sacchetto insieme allo scontrino e a un test di gravidanza. «Che non devi fare adesso», dice Eva La Farmacista, l’esperta a cui non voglio più dare ragione. Lui non si è fatto più vedere e il mio corpicino, intanto, si allaga. C’è una fontanella di paese, un rivoletto perso nella mia pancia adesso steppa larga come San Pietroburgo, divisa in sanpietrini, dove le strade sembrano pelle di serpente, luminose e lucide, però corrucciate. Continuo a rimanere asciutta, continua a non venire, non ricordo più se il mio sangue è prugna o ciliegia, rubino o ruggine. L’uomo neanche si è fatto più vedere, se dico che è una coincidenza offendo la sua strategia, iniziata quando si è schiacciato su di me come fosse la sua ultima occasione con annessa garanzia, ed io sto pagando di nuovo. Eva mi ha dato un bicchiere vuoto, ci ho guardato dentro, specchiarsi è brutto. Allora gliel’ho allungato, hai dimenticato di riempirlo, e lei mi ha risposto domani.
Così oggi mi ha svegliata all’alba, mi ha chiesto ti scappa?, e io agitata ho iniziato a guardarmi intorno, convinta ci fosse un fuggitivo, un furetto tra le coperte. Fare pipì in un bicchiere e farsela addosso è la stessa cosa. Calore. Eva era dietro la porta che continuava a dirmi che le prime gocce sono le più importanti quando ormai ero arrivata alle ultime, che di solito tampono con la carta, come questa volta. Poi è entrata strappandomi il bicchiere da sotto le gambe, sembrava stesse ritirando una bevanda al distributore, ci ha infilato quella lingua di plastica e siamo rimaste zitte, aspettando di sapere di chi fosse, come se stessimo correndo lo stesso rischio. Mi sono domandata sino a che punto potesse essere inoffensivo fare ironia su un bambino inventato, che poteva esserci come non esserci. E quanto, allo stesso tempo, fosse divertente che fossi curiosa. Inizio e fine, Eva ed io, prima matrioska e ultima, responsabili in tutti e due i casi, in tutte e due le linee. Sono incinta.
Il risultato è positivo, oggettivato, positivo vuol dire buono, buono significa buona notizia, ma a me non mi ha fatta contenta. La lingua di plastica vuole imboccarmi gioia, la scatola edulcorare la maternità, promettermi una gravidanza rosa confetto.
«Adesso capisci cosa vuole lui da te»
«Mi ha lasciato un biglietto»
Toglile fiori e faccia dipinta, e la matrioska diventa un sarcofago. Scelgo subito di diventare una bara, di donare questo privilegio a una vita che non ha ancora il suo corpo, ci sono corpi morti ancora in fila per un posto. Non dico niente a Eva la Facchina, non lascerò mi porti armi, per altro, già difficili da ottenere.
Mi hanno assistita due donne. È stato come quando una lucciola entra in casa. Fa una luce bellissima, m’incanta, ma se voglio dormire è fastidiosa. La lucciola non riesce a uscire, non capisce cos’è una finestra, non posso spegnerla come una lampadina, devo ucciderla. Nessuno vuole, eppure le due donne me lo lasciano fare. Una mi porge l’acqua e l’altra un grumo di polvere da sparo. Lo ingoio e l’accredito dell’uomo sparisce. In assenza di gravità, di volontà, la vita cade anche senza corpo. Eva mi ha detto che, quando non vorrò che accada, accadrà spontaneamente. Ho perso anche la mia amica stregona.
Oggi sono pronta per l’esame di Linguistica, morfologicamente concentrata, è passato del tempo, ho trovato la mia sintassi. In aula tutte si abbracciano la pancia e si dondolano l’ansia, pare un contrappasso, l’inferno ha spalti di legno e corpi vivi. L’occhio del demonio è una cattedra antica, mi avvicino, è il mio turno, non ho paura, sono acqua.
«Dove mi vuoi?». Faccio io la prima domanda, il professore indica il posto di fronte. L’esame è il mio, ma lui si sente l’esaminato, è la prima volta che parliamo tanto, che le sue mani non mi toccano, che non mi sceglie.
«Serve una penna?» e gli porgo il test di gravidanza, ci sono ancora due linee d’inchiostro. Capisce che il suo biglietto, ormai, l’ho strappato via dalla pancia. Glielo avrei fatto mangiare. Fosse stato un foglio, e non un figlio, glielo avrei accartocciato in bocca. Scrive il voto sul libretto, sta firmando un assegno, non cento euro, ma centomila euro per i danni che mi ha fatto. Detesta la mia faccia e, soltanto alla fine dell’esame ridiventa professore, gioca la sua ultima carta.
«Se rifiuti anche questa volta, ti boccio».