Monopattini

di Adriano Pugno
Copertina: Scappato di casa – Cristiano Baricelli.

Hanno raggiunto il massimo della velocità, ma continuano a spingere sull’acceleratore. È l’estate dei sedici anni, e i due amici tagliano la cappa di un caldo feroce con i due monopattini appena rubati. Corrono su Lungo Dora evitando donne arabe con le borse della spesa della In’s, giovani vecchi con la sigaretta elettronica e il catarro, due bambini con i capelli rossi che giocano a tirarsi l’acqua di una fontanella. A fianco l’orizzonte è coperto dai manifesti elettorali, con le frasi brevi e gli scarabocchi, ma dietro scorre il fiume e loro, credo, sono quel fiume.

Paolo sta davanti, tiene la musica alta sul telefono e canta sopra le barre che preferisce come se stesse schiumando rabbia. Ha una camicia blu con il collo alla coreana, le maniche arrotolate che scoprono le braccia sottili, le mani sporche. Lo zainetto Quechua, la tasca davanti mezza aperta, gli si affloscia sulle spalle, gliele riga di un sudore che la velocità non riesce a rinfrescare. Lo prenderebbe volentieri a calci. Federico lo segue, le dita un po’ grasse stringono il manubrio del monopattino fino a congestionarsi di rosso. Non vuole perdere Paolo, non può. Ogni tanto gli dice “hey”, gli indica qualcosa per terra, una lucertola morta o una tipa col toppino leggero che corre. Paolo non gli risponde, quasi mai. “Che coglione”, al massimo gli dice così, coprendo il tempo della barra con una mezza risata. Federico si morde le labbra, pensa continuamente di dire cose che non vanno, di essere lui, lui ad avere qualcosa che non va, una tara che si porta dentro. Le labbra piene di morsi, continuamente spellate.

Paolo si ferma, scende dal monopattino che sta ancora andando avanti, lo blocca con la forza dei talloni. Federico si ferma poco prima, aspetta di inchiodare per scendere dal monopattino e portarlo a mano. Paolo sta attraversando la strada, si infila sulle strisce pedonali senza aspettare che le macchine si fermino, come ha sempre fatto da quando Federico ha cominciato a seguirlo come un’ombra tranquilla. Le macchine frenano al suo passaggio anche quando sembra troppo tardi, e questa pretesa un po’ ridicola sembra quasi la legge. Si sta infilando tra i tavolini del dehors del solito locale, senza aspettare Federico che lo rincorre inciampando sulla pedana del monopattino.

Degli studenti universitari sui vent’anni si stringono in un tavolino da quattro, gli spritz già vuoti e le cannucce masticate. Ridono mentre girano un video su qualcosa dall’altra parte della piazza. Precisamente c’è un vecchio tocco in mutande accerchiato dai vigili. Non vogliono toccarlo, e tra un po’ lo colpiranno con un manganello. Quello che fa il video ride insieme agli altri. Sul tavolo c’è un borsello in bilico, tutto nero con un simbolo maori bianco nel mezzo, proprio dalla parte di Federico. Lo copre con una mano e se lo mette in tasca, era facile persino per lui, pensa già che con questo potrà fare un qualche effetto su Paolo, essere come Paolo, che si è fermato davanti alla porta e sta dicendo “sbrigati, cazzo”, che Federico gli deve tenere il monopattino per farlo entrare e ordinare uno spritz.

“Hey!” si sente da dietro. Sono i ragazzi del tavolino, gli stanno venendo addosso. Federico mette una mano sulla schiena di Paolo, vorrebbe proteggerlo, ma c’è lo zaino a separarli. Infila il portafogli nella tasca di Paolo, è una cosa che viene senza pensare, non è la paura ma l’istinto che gli dice che quella è la cosa da fare, adesso. Quelli tanto fissano Paolo, la faccia delinquente che è la sua più vecchia carta d’identità. “Ora ce lo beviamo, questo” dice quello dietro, che sempre dietro rimane. Federico si è spostato di fianco, lontanissimo, appoggiato sulla porta del locale.

Gli universitari sono addosso a Paolo, lo spingono. Li ha visti arrivare pensando fosse il film di un altro, lui non c’entra niente, ma dirlo è come una vergogna.

«Pezzo di merda, che cazzo hai fatto. Ti rovino» gli fa quello con la camicia a quadretti, spingendolo contro la porta.

«Che cazzo vuoi» dice Paolo, la voce stridula che Federico non gli ha mai sentito, e lo odierà per questo, per essersi sentito da meno.

«Prendetegli lo zaino a questa merda», ordina quello con la camicia a righe, che è quello che comanda o quello a cui hanno rubato il portafogli, forse entrambe. Paolo prova a tirare dei calci sugli stinchi, i jeans si strappano e mostrano la pelle senza peli, monda. Ma gli universitari gli stanno addosso, lo strattonano e lo prendono a pugni sulle costole, gli tengono le mani, gli prendono lo zaino come fosse niente.

Dentro, piegato, il portafoglio nero.

Arriva un cazzotto, forte, sulla guancia di Paolo. Sputa un grumo di sangue e saliva, c’è una ragazza che urla e che grida qualcosa. Paolo non si scagiona, se sta provando qualcosa non la affida alle parole. Dalla gola esce qualcosa di roco, un respiro furioso che accompagna le braccia che mulinano attorno al suo viso, ultima difesa per non soccombere alle botte, gli sputi, le accuse.

Federico si appoggia, i monopattini come due stampelle. Paolo non è mai stato più bello, e una smorfia copre qualcosa sul viso di Federico che assomiglia all’estasi.

Due fischi secchi anticipano i vigili, stanno arrivando a capire e fermare qualsiasi cosa stia succedendo lì, in quel buco di culo dove la sfiga li ha fatti passare, col caldo e la gente peggiore che potevano incontrare al posto della solita Enjoy in divieto di sosta. Si fermeranno fin quando non arriveranno i carabinieri, che porteranno Paolo in caserma e umilieranno il suo ovvio silenzio scambiandolo per la solita mancanza di disciplina di questi delinquenti tutti uguali. Federico li seguirà, tagliando per i marciapiedi ed evitando le arabe, i bambini ed i giovani vecchi. Rimarrà a cinquanta metri dalla caserma, maledicendo se stesso per non aver ancora imparato a fumare, perché Paolo non lo ha mai ritenuto degno di passargli una sigaretta e insegnargli come si fa. Rimarrà lì senza rispondere alle telefonate della madre, saltando la cena e tutto quello che ne segue, ma neanche stavolta, all’uscita di Paolo, avrà il coraggio di dirgli che lui è là, e gli vuole bene.

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