di Valentina Scelsa
Copertina di Fernando Pennaforte
“È stato molto tempo fa,
Bertold Brecht
e ora non so più nulla di lei che una volta era tutto.
Ma tutto passa”.
21 giugno 2021, solstizio d’estate. Il cielo è carico di latte sporco. È circa mezzogiorno, passeggio per Roma, l’aria è afosa e densa. Attraverso ponte Garibaldi, e, già all’altezza dell’isola Tiberina, inizio a fissare la mia ombra. Lo faccio quando sono nervosa, stralunata, la seguo prestando attenzione a come scivola oleosa sull’asfalto. La massa dei ricci crea la forma scura del cappello di un fungo: sono un fungo, un grosso fungo velenoso. Se non fosse per il trotterellio impacciato e familiare dell’ombra slabbrata proveniente da Lungotevere De’ Cenci che sfalda e ingloba la mia, all’incrocio con Largo Arenula, trasformandola in un cerbero inferocito, non solleverei gli occhi: davanti a me adesso c’è un donnone dal viso gonfio, la mascherina calata sul mento, i capelli neri stoppacciosi e sporchi, zone di alopecia mostrano centimetri di carne rosa e oscena, tenera, l’ombretto è una miscela di blu e verde fluorescente stesa con rabbia, l’eyeliner sbavato allunga i grandi occhi grigi in due foglie d’alloro, e le labbra, le sue piccole labbra, vociferano nenie insensate. L’odore è aspro e dolciastro, di sudore non lavato e profumo per poveri e di qualcos’altro che non ha nome. Se non fosse per il suo sguardo, leggermente strabico, strabismo di Venere lo chiamava il pediatra, tirerei dritto, obbedirei al ribrezzo della mente: una disadattata, forse una barbona, una sconosciuta. Mentre il corpo ancora giovane ma flaccido e la sua ombra cattiva mi si parano davanti, quello sguardo vuoto e spaurito mi fruga, si accende:
«Oh Dio! Sei tu!» la donna accenna un sorriso.
«Non ho spicci mi dispiace».
Accelero il passo, mi metto a correre, corro fino al primo vicolo sulla destra e svolto, un sandalo inciampa sui sampietrini, riprendo a correre, non lo so dove mi trovo, sto piangendo. Mi fermo dietro all’angolo di un vicolo, spio che non mi abbia seguita. Non c’è nessuno. Mi fa male la caviglia, respiro, penso, mi pento. Ripercorro di corsa la strada, torno su Largo Arenula, cerco la donna cannone, cerco mia sorella. Sparita. Continuo a cercarla, sono disperata, le devo chiedere se è davvero lei, se è vero che ha ucciso mia madre.
Continuo a camminare confusa, sto soffocando imbrigliata in un dolore antico, giro e giro nel labirinto senza centro di strade del ghetto ebraico, ogni bivio, svolta, il respiro si blocca, il cuore grida di speranza e paura, la bocca dello stomaco brucia e risucchia tutto il mio sangue. Sudo, sudo, ho le vertigini e le gambe non mi sorreggono più, mi appoggio a un muro, non voglio collassare.
Respira, forza! Respiro, piccoli sibili veloci. Inspira sei secondi dilatando i polmoni, trattieni quattro, espira otto, piano. Sì brava, così, va meglio? Sì, meglio. Ho la pelle appiccicosa, serpentelli pruriginosi di sudore rosicchiano la nuca, ma sento la calma invadermi, lenta. Compra una bottiglia d’acqua! Entro in un bar e la compro, mi tremano le mani, il resto di cinque euro tintinna sul pavimento, lo lascio lì e esco al sole ignorando il barista che mi chiede se vada tutto bene.
Ora bevi, poi versa il resto sulla testa. Bevo, non credevo di avere tanta sete, e verso quello che rimane; l’acqua scivola sulla cute sotto il rovo dei capelli in ruscelli di sollievo, risalgo in superficie, scuoto la testa, respiro avida dalla bocca spalancata. La vista non è più offuscata, il senso di vertigine è passato, la mia ombra è sparita. Guardo il telefono, sono le dodici e trenta. Torno lentamente dove Largo Arenula e Lungotevere De’ Cenci si incontrano. Ricordi che vi siete già incontrate a questo incrocio, tanti anni fa? Sì, me lo ricordo: la rivedo corrermi incontro allontanandosi dalla palina gialla della fermata, quattordici anni fa, era inverno. Ragazzina paffuta, felice di quell’incontro fortuito, col cappello di lana grigio da puffo e gli auricolari nelle orecchie:
«Rossella!» grida con gioia venendo verso di me con slancio e un sorriso grande, ci abbracciamo, ci sentiamo dopo ci diciamo, l’autobus che aspettava sta arrivando. Sale trotterellando e mi fa ciao ciao con la mano dal finestrino. Vivevo ancora a Roma, era il 2006, avevo venticinque anni e lei quindici.
In quel periodo dividevo da otto anni un appartamento a Monteverde con altre ragazze, lei viveva con mia madre, erano sempre senza una lira, alle prese con lavoretti malpagati da colf e babysitter.
Quell’anno sei partita per Milano, no? Sì, è vero, avevo trovato lavoro come tecnico in una società di informatica. Mi serviva uno stipendio decente, dovevo mantenere lei e mia madre dopo l’operazione, il tumore nel cervello aveva la forma della bomba atomica di Hiroshima. Ho guardato inebetita la lastra che mi mostrava un dottore allampanato e stanco. Coma profondo, impossibile la sopravvivenza. Invece è sopravvissuta, dieci anni di corpo paralizzato dal mento in giù, pannoloni, operazioni, una placca di titanio come calotta cranica, e capiva tutto, tutto. E quell’occhio, l’occhio destro di Dalì sporgente, fuori asse rispetto al sinistro, che accusava, accusava, accusava. Non parlava più però gridava, ancora le sento quelle grida di dolore e rabbia senza dio.
Tua sorella non ha voluto che si trasferissero con te a Milano, voleva stare con tua madre nella casa che aveva ereditato da tua nonna a Morlupo. Ricordi che aveva iniziato a darle morbosi baci sulla bocca? E che una volta, quando c’eri anche tu, tua madre l’ha morsa affondando bene i denti e lei ha iniziato a sanguinare dal labbro inferiore e a piangere; tua madre aveva quell’espressione del ti sta bene, ti odio, non ti sopporto più. Sì che me lo ricordo, mi ha fatto pena. Avevi assunto la badante ucraina per aiutarle, Angela. Tredici sepsi, tredici ricoveri d’urgenza negli ultimi quattro anni. La davano sempre per spacciata ma non moriva mai, non moriva mai. E che ha fatto lei quando è morta? Basta ti prego. Perché, perché non sei andata al funerale di tua madre, eh? Perché non me l’ha detto. Quando chiamavo diceva che andava tutto bene, che non aveva tempo per stare al telefono. Non mi ha detto che era stata ricoverata, che era morta, che era stata seppellita. Tutto in tre giorni. Lei voleva essere cremata. Come l’hai saputo? Mi è arrivato un massaggio di condoglianze sul telefono, anche se lei aveva detto a tutti che non volevo sentire nessuno. Chi ti ha detto la verità? Angela, è stata Angela. Mi ha detto che le faceva la doccia e senza asciugarla la piazzava con la carrozzina sotto il getto freddo dell’aria condizionata per ore, aspettando la febbre alta. La trovava spesso così, bagnata sotto l’aria condizionata che urlava, quando tornava a casa dalla spesa o da altre commissioni. Non me l’ha detto prima perché aveva paura di perdere il lavoro, aveva quattro bambini da crescere al suo paese, ma mamma ha iniziato a tormentarla in sogno dopo la morte e lei si è voluta sgravare la coscienza. Ti ha raccontato anche che al funerale tua sorella faceva finta di svenire, che sulla corona di fiori, rose rosse e nebbiolina, c’era una fascia viola con su scritto la figlia Carolina, come se tu non esistessi. Si, me lo ricordo, voleva essere figlia unica a quel funerale, che a quello di papà si era sentita invisibile, mi ha rinfacciato che tutti venivano solo da me per le condoglianze, che a lui importava solo di me.
Ti ricordi quella notte? Ero andata a casa di papà con un coltello affilato e avevo trovato in strada un’ambulanza e un piccolo assemblamento, tre o quattro camici bianchi. Anche se il viso del corpo sulla barella era coperto dalla plastica nera del sacco lo sapevo che era lui. Ho visto l’ambulanza uscire dalla traversa e procedere lenta su via del Corso, luci e sirene spente. Quando mia madre distrutta mi ha telefonato, si amavano sai? Nonostante la violenza e il divorzio lei non ha mai smesso di amarlo, mi ha detto che l’anatomopatologo pensava a un suicidio, bottiglie di alcool e boccette di benzodiazepine, scatole di psicofarmaci, erano sparsi ovunque sul materasso lercio insieme al suo corpo prono, peloso e morto. Mi è sembrato quasi un miracolo, la prova di un senso di colpa. Non mi sono stupita però quando invece l’autopsia ha rivelato un infarto. Ce l’ho ancora quell’autopsia, non so perché la conservo, riporta in grammi il peso di tutte le sue viscere, il suo cuore era di 600 grammi, il fegato pesava quasi due chili. È morto quattro anni prima di mamma, prima di riuscire a fare a Carolina quello che aveva fatto a me. Carolina, com’era dolce da piccola, me la ricordo col solo pannolino addosso, gattonare per la casa coi suoi rotoletti di ciccia, i ricci e gli occhioni grigi dalle ciglia folte, il sorriso sdentato col pendolino, così lo chiamavamo il piccolo triangolo di carne rosa a forma di beccuccio al centro del labbro superiore, a elemosinare un po’ d’attenzione da chiunque; mamma sdraiata sul letto affogata di vino e depressione, lei che prima era astemia e che ormai non dipingeva più, che era sempre stanca, stanca, in attesa di qualcosa o di qualcuno. Sembrava sempre felice di vedermi e di stare con me Carolina, disegnava sempre solo me nei suoi disegni, noi due per mano, io altissima con la corona in testa e mille stelle gialle sghembe come aureola sulla testa rossa, lei più piccola e senza aureola; c’era sempre il sole sui suoi disegni e dietro il foglio scritte in stampatello: voglio tanto bene alla mia sorella, Carolina e Rossella per sempre insieme. E quando l’angioletto ha spezzato il collo a Pippo, il canarino, te lo ricordi invece? Ma aveva quattro anni, ha detto che non è stata lei, piangeva! Lei ha sempre saputo piangere a comando, lo sai, sarebbe stata una grande attrice se solo non fosse stata così poco espressiva. Era sola nella stanza con la gabbietta, chi altro vuoi che sia stato? Ed è stato solo l’inizio, lo sai. Di chi è la colpa? Sua, è colpa sua! Dicono che non sia importante sapere chi ha iniziato una guerra, ma non è vero. Sapere di chi è la colpa è l’unica cosa che conta. La bambina dimenticata da tua madre all’asilo, timida al punto di sembrare ritardata, balbuziente, che ti aspetta seduta sul bordo di un’aiuola sconsolata, con i suoi occhioni e le guance paffute, che ti sorride come se vedesse il sole, che corre verso di te, Ro, Ro, Ro, Rossella! per abbracciarti come se fossi la salvezza, beh quella bambina non c’è più! E dov’è finita, lo sai tu? L’ho abbandonata, lo capisci? Se l’è cercata, lei aveva te, tu chi avevi? Ricorda come ti odiava, come ti gridava che dovevi morire senza un motivo, così, perché qualcuno le aveva fatto qualcosa e se la prendeva con te. Ma le davano della ritardata a scuola! Solo perché aveva i suoi tempi e stava sempre zitta, la prendevano in giro per il grasso e la puzza di sudore e il balbettare. Non ha mai avuto un amico. A me hanno sempre detto quanto sono bella e intelligente, a lei lo dicevo solo io. E di questo di chi è la colpa? Forse di mia madre, che prima non la voleva e poi le si è incollata come una piovra, che la ingozzava di schifezze, le faceva lei i compiti di scuola e le diceva che il mondo è cattivo, che non ci si deve fidare di nessuno, nessuno, neanche di me. Eppure tu l’amavi tua madre. Sì l’amavo, ma la odiavo anche. Se solo lei non fosse stata così remissiva, forse… Adesso basta, dai. Su, torniamo a casa. Attraverso la strada, mi siedo sul parapetto del Lungotevere con le gambe verso il fiume, sotto ai platani che nascondono con la vigorosa chioma la sofferenza, le loro radici non hanno più spazio ho letto l’altro giorno sul giornale, alcuni di loro si spezzano all’improvviso con uno schiocco abbattendosi sulla strada, insospettabili suicidi. Non voglio tornare subito a casa però. Mi accendo una Pall Mall blu, le fumava mia madre e questa mattina mi è venuta voglia di comprarne un pacchetto, aspiro, è amara; fumo e guardo il fiume, la sua melma che scorre, la piccola cascata subito dopo l’arco del ponte, la schiuma bianca spumosa e le onde che vorticano in piccoli cerchi concentrici mi fanno pensare al mare quando è arrabbiato. Inizia a piovere, monete d’acqua gelatinosa mi bombardano, sono fradicia in un secondo, rimango dove sono, dura solo un minuto. Sto fissando i vortici nell’acqua quando un corpo nero squarcia velocissimo il fiume, ciocche di capelli strisciano nella melma come alghe putrefatte: Carolinaaa! grido senza suono, come negli incubi. È solo un sacco di immondizia Rossella, calmati! No non è vero, quella è Carolina penso, sto di nuovo piangendo. Carolina è morta Rossella. Due anni fa. Come puoi scordartelo sempre? Torniamo a casa ti prego. Tiro su col naso e ricordo: è vero, ha ragione la voce, ha sempre ragione lei. Seguo con gli occhi il fumo della sigaretta, spirali strette, di serpente, succhio il tiro finale e lancio la sigaretta di sotto. Faccio per scendere dal parapetto e do un ultimo sguardo al fiume che scorre, mi blocco: sull’argine opposto c’è la donna cannone.
Mi sta fissando.