di Laura Scaramozzino
Copertina di Alpraz
Some escape–
L’acqua nella vasca mi sfiora il mento. La schiuma si sta ritirando. Mi sollevo e mi sporgo in avanti in un lieve sciaguattare. Osservo il mio addome bianco come le seppie nel mare.
Some door to open.
Dal bordo della vasca afferro la lametta rosa del discount e penso che con quella non ci posso fare un cazzo. Nessun taglio verticale, nessuna lacerazione che brucia e stordisce. Sogno un abbandono nel calore del sangue, l’acquerello rosso che mi sommerge mentre perdo i sensi.
This path seems–
Prima, dovrei togliermi questa canzone dalla testa, ma non posso, perché questa è la canzone che mi corrisponde. Ti ricordi? Una volta te ne parlai a cena. Abbiamo tutti una canzone che ci corrisponde, non per forza la nostra preferita, ma quella che condivide un nostro modo di sentire. La mia è come un lago in un parco, dove non fa mai troppo freddo né troppo caldo.
The blackest but I–
Rimetto a posto la lametta e mi alzo. Caccio via con la mano i riverberi della chitarra dalla memoria. Esco dalla vasca e mi guardo allo specchio. Mia madre mi ha lasciato una ruga in mezzo alla fronte. E altre cose che non contano più niente.
Cerco di prepararmi in fretta, di non immaginarla mentre cade dalla scala e si rompe l’osso del collo sulle mattonelle spruzzate di bianco. Non vedo mia madre da anni e ora lei è morta, chiusa nella bara. Il mento a scucchia, che da piccola succhiavo come una caldarrosta, avrà qualcosa di solenne. Forse.
Indosso il vestito nero delle grandi occasioni. Il nero va bene per tutto. Adesso si usa anche per i matrimoni. Di questo tu rideresti, perché ami le battute facili. Non fa niente, tanto tu non mi accompagnerai. Te ne sei andato da un paio di mesi, portandoti dietro qualche asciugamano e i miei silenzi cupi. Non sapevi nulla della pancia che tirava e della nausea che mi muoveva le pareti intorno.
Con la scusa del tempo, esco sul balcone. Mi stringo nelle braccia e percepisco il freddo sui capelli umidi.
Guess it’s the soonest–
Se mi buttassi di sotto e mi concentrassi sull’aria che percuote e sulla musica che persiste, l’impatto non lo avvertirei. Forse.
Mia madre ha minacciato di farlo spesso, quando vivevo con lei. Sarebbe stato meglio. Invece di buttare via se stessa, ha cominciato a gettare le mie cose nella spazzatura. Una dietro l’altra. Tutto spariva nel buco nero di un sacco, senza che io me ne accorgessi. M adesso anche lei è caduta, ha battuto la testa senza averne l’intenzione e ora marcirà nella terra insieme alle monografie su Casorati e alle mie scarpe di vernice. Rosse come unghie laccate.
Lo so, devo sbrigarmi o arriverò tardi. Mia zia mi ha implorato di essere puntuale, di lasciarmi tutto alle spalle. Ancora non lo sa che l’ho già fatto. Che non sono più andata a trovarla per non ricaderci, per non continuare a perdonarla. L’odio è più facile a distanza di sicurezza.
In strada, faccio mente locale. Devo prendere la metropolitana. Mi piace camminare e guardare le vetrine dei bar con la condensa sulle vetrine.
La chiesa di fronte a casa sua è un triangolo di mattoni squadrati. Neppure mi ricordo com’è fatta dentro. Forse non ci sono mai entrata.
But ther in–
Se mia madre potesse vedere e sentire, caccerebbe tutti i presenti alla cerimonia. Guarderebbe il prete come fosse un pazzo, un corvo, la voce inutile di un ciarlatano di paese. Manderebbe via anche me, del resto, mi accuserebbe di averla sempre voluta morta, e in parte è così. Se si può voler morta solo la parte guasta.
L’idea della voce untuosa del parroco, e delle mani strette sulle ginocchia scure, mi dà il voltastomaco. Come quando ero incinta. Se mia madre avesse saputo che aspettavo un bambino mi avrebbe guardata come fossi la troia peggiore della terra. Se lo avessi saputo tu, saresti rimasto. Avresti capito. Forse.
The clrearing I–
Di fronte alle scale che portano sottoterra, mi blocco. Scruto la semioscurità che emerge dal fondo. Folate di vento mi raffreddano il collo. Non posso, non posso farlo. Ognuno per la sua strada, ognuno la propria vita. O morte.
Tornando indietro, ripenso a quando è morto il bambino. L’ho espulso fuori i una successione di grumi rossastri sempre più grandi. Prima sono arrivate le contrazioni, poi quella sorta di mestruazione inarrestabile e immensa. La ginecologa, al telefono, mi ha detto di restare a casa. Che avrebbe potuto succedere. Che era nell’ordine delle cose. Che sarebbe passato. Che avrei potuto riprovarci, Che, che, che.
Know you’ll–
Quando arrivo di fronte al portone, ti vedo. Con un cardigan stretto sul petto e gli occhi troppo azzurri nell’aria nebbiosa.
«Ciao».
Hai l’aria stanca.
«Ciao».
«Come stai? Scusa, non dovevo piombarti qui senza preavviso, ma hai il cellulare spento».
Mi stringo nelle spalle. Vorrei dirti del funerale mancato, ma ci sarebbero troppe cose da spiegare. Ti avvicini cauto e sorridi con gli angoli degli occhi.
«Non ho le chiavi e speravo fossi in casa, a quest’ora. Ti chiedo ancora scusa, ma ho bisogno di un documento che ho lasciato da te».
Apro il portone o ti invito a entrare con un cenno. Saliamo le scale in silenzio. Le tue Converse consumate gemono nella penombra.
Una volta in casa, sembri riluttante. Ti guardi attorno e contrai la mascella in un gesto di teatrale imbarazzo.
Sul tavolino di vetro della sala ci sono un mucchio di documenti sparsi. Non li sistemo da una vita. Li indico con un’alzata del mento e tu ti avvicini come se camminassi sulle uova.
Come immaginavo, mentre smisti le carte, trovi una vecchia ecografia accartocciata. Mi diverte vedere lo stupore schiuderti le labbra. Forse ho fatto in modo che succedesse. Sapevo che saresti tornato. Forse.
Chesignificaquesto, lo dici così, tutto attaccato, come se le pause tra una parola e l’altra fossero una gran perdita di tempo.
Non ti rispondo subito, non ci sarebbe neppure bisogno che io parli. Sai anche tu perché non te l’ho detto. Eravamo in crisi, piangevo in tutte quelle occasioni in cui di solito nessuno piange. Mentre facevo il bagno nel mare come mercurio alle cinque del pomeriggio. O quando, con la forchetta, dividevo la fetta di torta al limone. Non erano gli ormoni. Non eri tu, ma la convinzione che la torta, il mare e la distanza da mia madre fossero un sadico gioco di prestigio. La luce prima dell’abisso.
Provo a dirtelo con queste parole e con la mia faccia. Metterei su anche Katy Song degli Red House Painters, ma per te la musica è solo musica. Una fuga dalla realtà come un’altra.
Hai gli occhi lucidi, provi a dire qualcosa, ma la voce adesso non c’è. Neppure per un paio di parole attaccate. Così ti avvicini e sciogli la stretta sul cardigan aperto. Mi abbracci. Il tuo cuore batte sempre troppo forte. Per anni ho avuto paura ti si fermasse mentre dormivi.
Cominci a baciarmi. Sai di tabacco, più di quando stavamo insieme, con una nota acida sulla lingua scura.
Sei tu a portarmi in camera e io ti seguo con la stessa angoscia di sempre. Come stessi per mangiare una fetta di torta o per fare un lungo bagno in mare.
A quest’ora mia madre sarà al cimitero. Nessuno la vedrà mai più. Gli addetti alle pompe funebri, vestiti come agenti immobiliari imberbi, spingeranno la bara nel loculo e manterranno un’aria impassibile per tutto il tempo.
Mia zia piangerà e proverà a chiamarmi ogni cinque minuti, ma ho il telefono spento da stamattina.
Tu, intanto, mi aiuti a togliere il vestito nero e mi spingi sul letto come non avevi mai fatto. Hai una fretta che non mi ricordavo. Il tuo corpo freddo spinge sul mio. Chiudo gli occhi per non vedere l’abito gettato sul fondo del letto. Seguo i tuoi movimenti ed è tutto così facile. Basta non aprire gli occhi. Non pensare alla luce, ai giochi di prestigio e alla fossa in cui tutto marcisce.
È semplice. Come seguire la musica e riconoscere la canzone che ci corrisponde.
Ci mettiamo tanto tempo. Ho l’impressione che stia durando quanto due funerali uno dietro l’altro. Non fermarti, non fermiamoci, ti dico. Andiamo avanti tutta la mattina.
Quando alla fine esausti ci addormentiamo, sono quasi certa sia arrivata la sera.
Non so se ho sognato qualcosa o qualcuno. Forse mia madre, bionda come la modella in una pubblicità della camomilla. Giovane, eterna. Come Sharon Tate a vent’anni.
Mi sveglio con l’emicrania. Allungo un braccio e tocco il cuscino accanto al mio. Tu non ci sei. Forse ti sei solo alzato e sei andato in bagno. Forse. Ma non ho voglia di tendere l’orecchio e di scoprirlo. Mi avvolgo nelle coperte e lascio che il buio m’inghiotta. Un’oscurità trafitta da una musica lontana. Remota.
Without you is all my life amounts to–
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?
Sicuramente non si dimentica un racconto del genere. Seguo da un po’ Laura Scaramozzino. Appartiene alla categoria di coloro che hanno veramente qualcosa da dire.
Rara avis
Bellissimo. Economico. Non una parola più del necessario.
Visionario e realistico allo stesso tempo.