Inadeguata

di Thomas Lehn
Copertina di Maria Rosa Comparato

Si sentiva come un’orchidea morta ancora appesa allo stelo. Voleva semplicemente cadere, ma rimaneva attaccata lì, a mostrare la sua secchezza, incapace di muoversi. Col sangue che le rimbombava nelle tempie, Agnese sentì l’impulso rabbioso di recarsi al porto. Troppo a lungo se n’era tenuta lontana, trasferendosi col figlio nell’entroterra, dove il mare era diventato il ricordo di un rumore non più distinguibile dallo scroscio nel lavandino della cucina. Lasciò la carne sul tavolo, con le labbra serrate come un’ostrica, prese la sua borsa e uscì.

Era il compleanno di suo figlio, e lui le aveva fatto fare una figuraccia. Agnese gli aveva semplicemente chiesto: cosa vuoi come regalo? E lui, con quella sua aria mite e buona che nel tempo aveva cominciato a infastidirla, le aveva risposto: voglio che fai qualcosa per me. Che razza di risposta era mai quella! Come se metterlo al mondo e accudirlo per quasi vent’anni e proteggerlo dalla morte del padre e indicargli cosa si fa e cosa no per vivere a modo non fosse abbastanza. Probabilmente no, se suo figlio era finito a lavorare da una fioraia. Lavoro rispettabilissimo, per carità, ma gli uomini devono faticare, non decorare. Forse un poco c’entrava lei: le piacevano le piante ben radicate nella terra, aveva dominato ogni singola erbaccia nel suo giardino, e annaffiava le sue aiuole rigogliose con l’invidia dei vicini. Il figlio in quel giardino non poteva giocare, perché i bambini, si sa, sono maldestri o incuranti, e rovinano tutto. Ma Agnese gli aveva permesso di stare con lei, di guardarla aggiustare le siepi, osservarla mentre si prendeva cura di tutte le sfumature di verde delle foglie, e di fiori stagionali che lei pazientemente attendeva sbocciassero. E il figlio con lei. Forse era stato quello, avrebbe dovuto incitarlo ad andare a giocare con gli altri bambini, e invece aveva preferito tenerlo con sé, silenzioso, al suo fianco. A riempire un vuoto.

Le avevano portato via suo marito – qualcuno, lassù, Dio probabilmente, nella sua lungimirante saggezza, nella sua bontà inspiegabile, nel suo silenzio assoluto. Nessun silenzio invece con suo marito, un gran chiacchierone, aveva viaggiato tanto e aveva un bagaglio di storie che sfoggiava con eleganza, come un signore. Era un marinaio quando si erano conosciuti, ed era diventato capitano quando si erano sposati. Un capitano che per lei aveva rinunciato alle grandi navi da crociera per limitarsi ai traghetti locali. Ma lui non lo vedeva come un limite, perché i suoi orizzonti, diceva, si espandevano nei grandi occhi blu di lei. Agnese amava quel complimento, e arrossiva un poco ogni volta che il marito lo ripeteva – forse perché sapeva che si trattava di una bugia poetica, e si sentiva adolescente a crederci; forse perché sentiva un po’ il peso della responsabilità racchiuso nei propri occhi, soprattutto quando per caso notava lo sguardo del marito correre sulla linea del mare, mentre il suo corpo rimaneva fermo al porto. Nello stesso porto in cui si erano baciati, e in cui lui si era inginocchiato in una notte di luna limpida – un signore d’altri tempi, si ripeteva.

Quando arrivarono i gemelli, Agnese ebbe l’impressione che il marito si fosse affezionato unicamente alla bambina. Non sapeva spiegarsi per quale motivo, e a volte non ne era neanche certa, perché lui in fondo sembrava dispensare la stessa attenzione a entrambi. Ma non più a lei. Agnese aveva cominciato in qualche modo a sentirsi messa in disparte, la torta era ora divisa in quattro e lei avvertiva un languore nello stomaco, il vuoto di una perdita che non corrispondeva all’assenza dei gemelli nel suo grembo dopo la nascita – quella era piuttosto una liberazione. Il vuoto era più ingombrante, e allo stesso tempo evasivo, come gli occhi di suo marito che troppo poco sostavano su di lei per tornare a incontrare quelli della figlia. Li osservava dalla finestra manovrare insieme una barca a vela, mentre il figlio le rimaneva attaccato alla gamba. Avvertiva una certa irritazione, come un te allo zenzero troppo forte, e allora guardava giù, provava a dedicarsi al secondo gemello, venuto dopo, senza un urlo, quasi sapesse che a questo mondo nessuno lo avrebbe sentito, nessuno gli avrebbe badato. Aveva gli occhi azzurri, come lei, e i riccioli biondi, come la nonna. Si sforzava di trovarvi i lineamenti del padre, fieri e scuri, a tradire un’origine meridionale e una vita in nave; ma era come se quelli si fossero persi in una spuma bianca di poppa, lasciando le sbavature a dar forma al viso del figlio. Bello come il sole, tutti dicevano, e per Agnese altrettanto inguardabile. Un figlio buono e sempre sorridente, che le stava attaccato come se il cordone ombelicale le si fosse impigliato in una gamba, mentre la sorella correva via e affrontava il mondo, fiera dei suoi capelli ondulati e bruni – stessa consistenza di quelli del padre, stessa lucentezza e colore, stesso modo di curvarsi alla nuca. Agnese quasi li invidiava. Lei che in famiglia era l’unica coi capelli lisci, cui la permanente a stento dava un tono. Ma non erano i capelli della figlia che invidiava, quanto piuttosto lo spazio ravvicinato tra lei e il padre, quello spazio che un tempo era stato suo solamente, e poi si era dilatato per farvi entrare due nuove creature. Agnese si sentiva lontana dal marito, benché attraccata e sicura di avere un posto fermo al porto. Ma quando lui era accidentalmente caduto al molo, battendo la testa e sparendo sul fondo dell’acqua, lei si era sentita prosciugare dalla solitudine, come se il porto avesse tirato su gli ormeggi e fosse andato a navigare i mari. Senza di lei. E a lei era rimasta solo la salsedine di una pelle asciutta. Una pelle bianca che stonava con violenza su quel volto, che poteva strapparsi e rimanere strappato, senza la possibilità di tornare a posto. E qual era ora il suo di posto? Moglie vedova e sola, madre di due orfani gemelli e altrettanto soli.

La gemella non aveva perso una lacrima, come se gli occhi fossero rimasti asciutti da tutto il vento delle giornate trascorse in barca col padre, e tre anni dopo, raggiunta la maggiore età, aveva preso il primo grecale per andarsene. Il figlio invece non voleva smettere di piangere, Agnese era inorridita da quella scena, quello specchio deformante in cui non trovava niente del proprio contegno nero; ma al tempo stesso, in fondo al cuore, si sentiva sollevata che il figlio si prendesse a cura di mostrare a tutti la disperazione di quella perdita. In un delirio quasi pagano si scoprì a sperare che le lacrime salate del figlio richiamassero l’istinto marino del marito e lo risvegliassero dal suo sonno eterno. L’eternità di quella speranza non durò a lungo, la bara venne data alle acque. Agnese avrebbe voluto opporvisi, non voleva cedere quel corpo a un’amante, era lei la moglie; ma non osò, rimase rigida e nera a osservare la sua felicità che naufragava via.

Poi un giorno il figlio smise di piangere. Il mare non è un pianto ma un abbraccio, le disse, forte come quello di papà. Quello stesso giorno Agnese si mise a cercare una casa dove le onde non potessero arrivare, e appena trovatala si trasferirono. Suo figlio aveva ripreso a sorridere, eppure c’era qualcosa di distorto in quelle labbra, quasi inquietante in quella linea socchiusa. Agnese non aveva mai più visto suo figlio piangere, ma nemmeno arrabbiarsi, gridare, avere scatti d’ira, noia o esasperazione. Era come se ogni sentimento umano fosse stato cancellato dal suo volto, su cui risiedeva costantemente il sorriso di una serenità che per lei era improbabile. Nel tempo vi si era aggiunta la costante di una bontà che Agnese trovava ancora più improponibile, e che si ripiegava nelle sacche dell’altruismo, del bambino down cui lui dava ripetizioni scolastiche, della non violenza ossessiva, del cibo vegetariano che poi era diventato vegano, fino al lavoro dalla fioraia il cui annuncio costrinse Agnese a cercare il sostegno della poltrona del salotto. Non era il fatto che il figlio lavorasse per l’amica di infanzia di Agnese, o la penosa rendita, o la mancanza di sviluppo professionale. Non era nemmeno il fastidio delle voci che già inciampavano negli scalini del paese. E non era neanche l’oltraggio alla vita mai ferma e forse inquieta del padre. Era piuttosto la nausea della propria immagine che si era adagiata sul figlio senza che lei volesse. Quel figlio che seguiva le orme che avrebbero potuto essere le sue; quel gemello secondogenito che non aveva saputo tenere per sé gli stessi geni della sorella, i geni forti e irrequieti paterni; quel bimbo cresciuto buono come lei non era e come il padre avrebbe voluto, ma che del padre ricordava solo la possibile piegatura di un’onda e non la realtà irrevocabile dell’ancora. Agnese non sopportava che il figlio fosse rimasto lì, con lei, senza lasciarle lo spazio di un dolore in cui voleva essere sola. Il caldo di lacrime impazienti di urlare la propria disperazione avrebbe dovuto essere suo soltanto. Vedere invece il figlio piangere la morte del padre aveva ucciso in lei la possibilità stessa del pianto.

E cosa vuoi che ti faccia? aveva chiesto Agnese all’irritante proposta del figlio. Lui aveva alzato le spalle e sorriso, come a dirle che doveva ingegnarsi lei. Ma lei era stanca, come i capelli grigi sempre più numerosi dimostravano, e non aveva la forza di stare a ingegnarsi. Così il figlio aveva proposto una torta, alle fragole, di cui era ghiotto. Agnese ci pensò un attimo – pensò a tutti gli ingredienti che avrebbe dovuto comprare, e prima cercare in libri di ricette che non sapeva più dove fossero, al tempo che avrebbe dovuto spendere in cucina, alla fatica di dover raccogliere la farina sparsa ovunque – e decise che era troppo per lei, alla sua età, e disse di no. Preferiva comprargli qualcosa, aggiunse. Il figlio era rimasto calmo, quasi sorridente, aveva detto che andava bene, le aveva ricordato che il giorno del suo compleanno sarebbero venuti a pranzo due suoi amici e la fioraia. Agnese pensò che non vedeva la sua amica d’infanzia da tempo, visto che aveva scrupolosamente evitato di entrare nel negozio dove lavorava il figlio, e immaginò che avrebbe dovuto spendere il pomeriggio a rievocare vecchi ricordi i cui dettagli erano polverosi e inutili. Ma poi ricordò che la fioraia avrebbe dovuto tornare al negozio subito dopo pranzo, e si rallegrò.

Quella mattina di fine giugno Agnese era uscita di casa subito dopo il figlio per andare a comprargli il regalo. Si avviò senza seguire i propri passi, o dar loro un senso. Quando vide il proprio riflesso nella vetrina del negozio di giocattoli arrossì e girò l’angolo. Passò oltre la libreria, perché negli ultimi anni natale e compleanno erano stati la stessa variante di un libro di botanica. Sbadigliò, come se avesse pensato troppo a lungo e inutilmente, e si diresse senza speranza verso il supermercato. Davanti al bancone dei prodotti freschi notò una torta farcita alle fragole, ma sarebbe stato banale regalargli un dolce che lui voleva ma che lei non aveva preparato. Oltrepassò il banco dei formaggi senza troppo interesse e trascurò quello del pesce, che da quando il marito era morto era diventato solo puzzolente. Si fermò invece al banco delle carni e adocchiò della porchetta che si ripiegava in fronzoli fumanti. Le sembrava fosse passata un’eternità dall’ultima volta che l’aveva mangiata e non sapeva spiegarsi per quale motivo. Quando il macellaio la degnò di uno sguardo, gli chiese una porzione abbondante che bastasse per cinque, e che magari avanzasse anche per la sua cena solitaria. La sua mano assaggiò con delizia il peso e il calore di quel pacchetto, e Agnese lo portò quasi con orgoglio alla cassa, pregustandone il sapore e sicura di compiacere il figlio con una sorpresa alla quale aveva pensato lei senza le sue istruzioni. Il figlio fu indubbiamente sorpreso, e le fece presente, con un sorriso pacato, che lui era vegano da due anni e vegetariano da quindici. Agnese impallidì, e questa volta non aveva nulla cui appoggiarsi perché entrambe le mani reggevano il vassoio con la porchetta.


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