Viaggio a Treblinka –

di Carlo Martello
Copertina di Giulia Tudori, per Battaglia Edizioni

Viaggio a Treblinka, di Diana Wichtel, edito in Italia da Battaglia Edizioni, è un libro di non-fiction, l’autrice del resto è una giornalista neozelandese, che come talvolta accade, riesce a superare la pur necessaria operazione di memoria dell’Olocausto per raccontare anche una serie di altre cose, intrecciate tra loro indissolubilmente, come è nella vita delle persone.

Il libro, diviso in parti concettualmente diverse tra loro, quantunque siano collegate, parte dalla necessità davvero vitale di Diana Wichtel di ritrovare la storia di suo padre Benjamin. Di lui si sa solo che è morto, lontano dalla moglie e dai figli, portati in Nuova Zelanda dal Canada, dove vivevano insieme. Basterebbe questo a dare l’idea del casino che c’è da raccontare, davvero impossibile da riassumere o da descrivere. Quello che Diana, figlia di Benjamin, sa è che è nata in Canada, la sua famiglia vive lì. Suo padre è riuscito a saltare dal treno che lo avrebbe portato al campo di sterminio di Treblinka, si è ricostruito una vita, è un uomo traumatizzato, come è inevitabile, ma ha messo su una piccola attività, ha trovato moglie, ha due figlie e un figlio che ama, si veste bene, è inserito nel mondo. Le cose deragliano, Benjamin perde il controllo per un periodo, sua moglie Patricia, di origini neozelandesi, prende i figli e parte. Di Benjamin non si saprà più niente fino al momento in cui Diana, secondogenita, decide che è arrivato il momento di ritrovare suo padre, di cui si sa solo che è morto.
Da questo stato di partenza parte un viaggio fisico e mentale di molti anni, di una fatica realmente inesprimibile in questa che più che una critica è un invito alla lettura, un viaggio tra parenti, informazioni mancanti, informazioni spezzettate, burocrazia, turismo della shoah, traumi irrisolvibili, aiuti inaspettati, colpi di fortuna, infinite disgregazioni, sensi di colpa enormi, inimmaginabili, sopra ogni cosa il tentativo di restituire dignità a una persona amata, che aveva fatto quanto era in suo potere per sopravvivere, Diana Wichtel restituisce soprattutto questo sentimento e anche lei fa tutto quanto è in suo potere per arrivare alla fine.

Ci sono molti episodi commoventi, altri strazianti, tuttavia resi concepibili dalla lingua di Wichtel che non straborda mai, è molto lucida e controllata, da giornalista verrebbe da dire, ma il giornalismo può essere urlato e ricattatorio anche più della narrativa, qui invece di ricattatorio non c’è nulla, c’è solo la storia di una ricerca. La traduzione di Ilaria Mazzaferro riesce a rendere questa forza da elefanti che si muove piano e inesorabile da una frase all’altra. Sulla traduzione un piccolo inciso: cercando ulteriori commenti sul libro, provando a informarmi, ho visto alcune dirette facebook, tra cui questa con l’autrice, Ilaria Mazzaferro, Lorenzo Battaglia e Andrea Donaera, ospiti della libreria La confraternita dell’uva. Tra i vari temi emersi, la conversazione è stata molto interessante, si è detto che Battaglia Edizioni riconosce le royalties ai traduttori e alle traduttrici, non succede sempre, anzi di rado. È giusto riconoscerlo.

Il libro contiene alcune fotografie, è un’operazione sempre delicata usare le fotografie in un libro di non fiction, spezzano il ritmo e portano tutto su un piano spesso troppo diverso. Qui invece la cosa funziona alla perfezione, perché si tratta di restituire anche un’immagine a Benjamin Wichtel oltre che una storia, si tratta di ricostruire la sua persona, di rimontarlo con tutti i pezzi disponibili, la figura non torna intera ma tutti i pezzi disponibili ci sono. Si tratta, in altri termini, di mettere a riposo un fantasma, permettergli di avere una forma. In questo senso la copertina originale, che raffigura proprio un’immagine del padre di Diana Wichtel ha un senso anche di costruzione del libro. Nonostante la copertina di Giulia Tudori sia incredibilmente bella, forse avrei mantenuto la scelta originale. C’è da dire che il mercato italiano è più abituato alle illustrazioni e che i libri con le copertine che usano foto come quella dell’edizione neozelandese rimandano a un tipo di letteratura che qui viene intesa come di seconda categoria. E c’è da dire anche che mentre la foto è molto evocativa, la copertina originale è francamente bruttina.

La copertina originale

Tutto questo divagare per non affrontare la quantità di dolore veramente inconcepibile che questa storia si porta dietro. Chi nella sua esperienza ha potuto ascoltare le storie degli ebrei sopravvissuti o chi proviene da quella storia, sa che le cose non tornano mai uguali. La storia della shoah è tante cose, tra cui quella di una disgregazione profonda, che incide generazioni e generazioni. Da quella disgregazione vengono altre disgregazioni, altre separazioni, tentativi di ricostruzione sempre parziali.
Viaggio a Treblinka è soprattutto la storia, tremenda, commovente e gloriosa, di uno di questi tentativi.


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