Mi stai ascoltando?

di Alice Bassi
Copertina di Simon Luca Katalin

L’abitacolo era un bollore. Le zanzare ronzavano intorno allo specchietto come streghe a un sabba. Ruth tracciò una riga sul secondo nome della lista.

Tutto procedeva bene. Con il primo tentativo aveva dovuto pianificare i dettagli, ma ormai le sembrava di averci preso la mano. Ripensò al souvenir sul retro del furgone. Sorrise.

Abbandonò la nuca sul poggiatesta contemplando l’area di sosta. Poche auto. Un tizio pisciava contro una roccia. Una coppia scattava foto dal belvedere che dava sulla foresta nazionale di San Bernardino. La brezza che montava dallo strapiombo odorava di corteccia.

Chiuse gli occhi. Mezz’ora. Tanto poteva concedersi prima di trovare qualcuno a cui chiedere indicazioni. I cellulari erano comodi, peccato si scaricassero in fretta. Si massaggiò il collo dolorante. Avrebbe ucciso per una notte di sonno.

Un colpo contro il finestrino.

Sussultò. Fuori c’era il pisciatore. Portava una camicia a quadri cincischiata e una t-shirt con la faccia di Trump. Teneva indice e medio divaricati davanti alla bocca nel gesto di fumare.

Lei non si mosse.

L’uomo tirò un altro colpo al vetro. «Oh, sei sorda?»

Fu tentata di scendere e ringhiargli che i repubblicani meritavano di fare la fine del secondo tentativo per aver eletto l’idiota che stava cercando di cancellare l’Obamacare. Ma John le aveva insegnato che tutti ricordano i maleducati, perciò abbassò il finestrino.

«Ehi, amico. Aspetta.»

Lui si fregò le mani con ogni probabilità ancora umide di piscio. Ruth aprì il cruscotto e sfilò un pacchetto di Pall Mall accartocciato. Sfiorò l’impronta delle dita di John. Per un attimo risentì l’aria fresca della campagna toscana, il profumo fiorito del miele sul pane. Poi tutto tornò a fare schifo. Estrasse una sigaretta.

«Tieni. L’accendisigari è rotto.»

L’uomo l’accettò. «Fa niente.» Scartò la sigaretta e sbriciolò il tabacco. Poi si tappò una narice e tirò di fronte a lei con un forte risucchio.

«Dovresti andarci piano. Mio marito è morto per quella roba.»

Lui la fissò. Le rughe dell’uomo parevano croste di pneumatici nel fango, dure e antiche come Cristo. «Amen» disse. Starnutì e si schiarì la gola. «Quindi sei una vedova?»

Lei si sforzò di sorridere.

«E perché hai questa voce di merda?» Fece una risata. «Mi sa che te ne sei fumate più di me.»

«Ho bevuto un fusto di Lysol come fosse soda. Ho una sola corda vocale, ora, sai?»

Lui strabuzzò gli occhi, ammirato. «Porca miseria! Ma è vero?»

«A-ha.» Ruth tirò la cintura e si legò. Girò la chiave. Il motore rombò.

«Ehi, vedova! Già te ne vai?» Si poggiò al telaio del finestrino e incrociò le braccia come fosse al davanzale. «Bello. Uguale a quello di mio cugino. Ci porta i manichini da Target giù in città. Tu cosa ci fai?»

Ruth inspirò a fondo. Perché no, pensò. «Sai se oltre a Target c’è anche un negozio di animali, da queste parti?»

Lui si grattò la barba, raspando con le unghie. «Mmh, sì. Forse. Che ti serve?»

Lei glielo disse.

«E che diavolo ci devi fare?»

«Segreti da vedove.»

L’uomo fischiò. Disse che sì, qualcosa c’era, sicuro. Le spiegò che deviazione prendere, poi insisté per disegnargliela nella polvere sullo specchietto retrovisore. Disse che suo cugino era un tipo fino, che scaricare manichini era solo un hobby per finanziare la sua vera passione, poi si lanciò in una storiella che coinvolgeva lui, due russe e una cagnetta. Lei disse un po’ “sì” e un po’ “a-ha”. Alla fine riuscì a scollarselo e fece retromarcia. Imboccando la statale 18, attivò l’aria condizionata. Niente radio. Voleva fantasticare sul topo che avrebbe comprato. Si augurò avesse un buon sapore.


George Newman salutò la grassona che prendeva gli appuntamenti e si avviò al parcheggio sbottonando il colletto. Non ricordava un’estate così calda. L’asfalto era una pasta molle sotto le suole.

Raggiunse senza fretta l’auto, una Caddy Eldorado del ’74 restaurata. Normalmente avrebbe trangugiato un burger con patatine al McDrive prima di raggiungere i colleghi al club a bere schifosa birra analcolica, ma aveva altri progetti. Uno si chiamava Eva Roger, laureanda a Stanford in neurobiologia. Non era la prima volta che un’allieva del college lo contattava sperando in una buona parola, ma la voce bassa, assurdamente roca al telefono gli aveva ispirato un secondo progetto: invitarla a cena e scoparsela come dessert.

Si legò e accese la radio. Nell’abitacolo rimbombò un assolo di batteria.

«Sì, cazzo! Vai così!»

Newman batté il tempo sul volante. Mike Portnoy gli rispose picchiando sulla sua Tama. S’immise nella statale cantando a squarciagola.


Uno dei contenitori si era aperto. Ruth localizzò il coperchio contro il baule dei travestimenti in fondo al furgone. Doveva essere schizzato via in una sterzata.

Fortuna che è uno di quelli vuoti.

S’incamminò tra quelli rotolati su un fianco. Sudava. La busta del negozio le sbatteva contro lo stinco. Davanti a due recipienti eretti si accucciò. Somigliavano a quelli del latte, col manico a gancio. Sul primo spiccava, in pennarello, la lettera T. Sul secondo c’era scritto BM.

Poggiò la borsa e raccattò dei guanti di gomma abbandonati tra il cordame e la polvere. Li infilò e sbucciò la plastica della busta attorno a ciò che conteneva: una gabbia colma di segatura tranne in un punto, occupato da una mela sbocconcellata.

Batté un dito sulle sbarre. Sbucò un nasino rosa.

«Ben svegliato! Latte o cioccolato?»

Ruth sganciò il coperchio e infilò una mano nella paglia. Quando la ritirò, un topino bianco le pendeva dalle dita in uno stridio di squittii. La morse, ma il dolore, appena accennato sotto la gomma carnosa, era un pensiero lontano. Che Naso Rosa masticasse quanto voleva. Non aveva il diritto di godersi gli ultimi istanti, come tutti?

Ora veniva il difficile. Si passò il topo nella sinistra e tastò dietro il recipiente con la dicitura BM. A tentoni trovò ciò che cercava: una maschera da schermidore. Annodarsela con una mano fu difficile. Si maledisse per aver preso prima il topo.

Voi donne siete in gamba e grandi di cuore, ma in quanto a materia grigia si direbbe l’abbiate presa in saldo coi vostri abitini.

Sorrise. Bel tipo, suo marito. Almeno finché il cancro non gli aveva rosicchiato il cervello di cui andava tanto fiero, prima di macinare il resto. Ciò che aveva risputato era stato un mucchio di ossicini sufficiente appena per un’urna. Solo che lei non aveva potuto permettersela, perché il cancro aveva prosciugato anche il loro conto in banca. Ricordava ancora il tizio dei servizi funebri che le aveva proposto una cornice.

È economica ma discreta, signora. Fisseremo al legno le ceneri e potrà esporvi un quadro. Sarà come averlo sempre in salotto con lei.

Gli occhi di Ruth si riempirono di lacrime.

«Ti amo, John» sussurrò e sollevò il coperchio del contenitore.


Ai Dream Theater seguì una lagna country, poi un pezzo niente male di Ed Sheeran. Sulle note finali di Sing il muso della Cadillac entrò nel vialetto.

Newman recuperò la cartella e scese. Non vide altre auto.

Bene. Tempo in più per studiare come accogliere la dolce Eva.

Entrò in casa. Non era un’arte facile, anche se il camice bianco e la targa con su scritto “Dr. G. NEWMAN, Ph.D., Neurochirurgo” aiutavano. Ogni donna aveva una tempistica precisa per sfilarsi le mutande. Una data di scadenza. Ghignò. Gli piaceva quell’idea, di una donna come di un barattolo di cibo che, prima o poi, si sarebbe guastato. E chi era lui per lasciarlo marcire?

Sprofondò nel divano. Odorava di pelle e, insieme alla scultura futurista sul tavolino, era il pezzo forte del loft acquistato dopo che Newman senior e signora erano finiti sottoterra a distanza di un mese. Per parecchio si era bruciato l’anima dal dolore, insieme a una discreta dose di eroina; poi il primario l’aveva preso da parte. Sei un brav’uomo, George, ma stai lasciando che questa cosa ti distrugga. So cosa fai quando vai in bagno, lo so perché mio fratello ci è morto, per quella merda. Siamo chirurghi. Non possiamo permetterci di tremare mentre operiamo. Ripulisciti, prendi la vita per le chiappe e spingi, ecco il mio consiglio. Fino in fondo.

A Newman era parsa una fantastica idea. Tre mesi più tardi aveva fatto installare un impianto antifumo nello spogliatoio dello studio medico. All’interno aveva ricavato un alloggiamento per una microcamera e, con quella, si era trastullato per un po’. Ma poi, come per l’eroina, aveva iniziato a volerne di più. Bramava sedurre, toccare. Inseminare. Nel giro di pochi giorni ci aveva provato con un’affezionata paziente che aveva da poco festeggiato le nozze d’argento; poi con una ventenne con l’Alzheimer precoce. Entrambe si erano morse il labbro. E lui aveva iniziato a spingere. E spingere.

Solo con una aveva avuto problemi. La ragazza era tornata da lui giorni dopo, implorandolo di conoscere i suoi. Lui l’aveva abbracciata, le aveva parlato all’orecchio e l’aveva scopata di nuovo. Poi aveva fatto una telefonata e, dopo aver scaraventato a terra libri, fogli e il fermacarte che teneva sulla scrivania, aveva accolto i suoceri nello studio. Ho lasciato tutto così, aveva spiegato, per mostrarvi quanto April diventi aggressiva. Non fa che chiedermi farmaci. Non voglio sporgere denuncia, ma va aiutata.

Problema volatilizzato.

«Ah!» esclamò. Ecco come avrebbe accolto Eva: benvenuta nel mio ufficio. Non nella mia casa ma nel mio ufficio, magari accompagnando la battuta con un baciamano. Alle ragazze piaceva quella lagna, le faceva sentire importanti.

Si spostò in bagno, soddisfatto, ed entrò sotto il getto della doccia. Non si accorse del furgone parcheggiato sul retro della casa da più di mezz’ora.


Si stava abbottonando la camicia pulita quando suonarono.

«Salve» disse la donna sulla soglia. «Il dottor Newman?»

Per un attimo non riuscì a rispondere. Se la voce era la stessa che lo aveva incantato al telefono, la faccia non era certo quella di una sotto i vent’anni. O i trenta. Per di più, portava una giacca dal taglio austero e brutte scarpe basse.

«È una domanda difficile?»

Lui si massaggiò le tempie, coprendosi gli occhi. «Mi deve scusare, signora. Giornata pesante.»

«Signorina.»

Scostò le dita e la vide mordersi il labbro, gli occhi verdi che rilucevano per l’alone caldo che proveniva dall’ingresso. In un baleno, i dubbi si dissolsero come bollicine in una flûte. Miss Roger aveva labbra piene, rosa come i capezzoli di una vergine.

Prendi la vita per le chiappe, Newman. E spingi. Ci siamo capiti?

«Signorina» disse, porgendole il braccio. «La accompagno nel mio ufficio.»

La donna rise e Newman la scortò in salotto, sbirciandole il paraurti. Niente male. Forse sarà una studentessa fuori corso, ma il lato B è migliore dell’A. Goditela e gioca le tue carte.

«Le va qualcosa da bere?»

«Acqua, grazie.»

Newman si bloccò. «Non vorrà dirmi che le storie sulle collegiali che si ubriacano nelle confraternite sono inventate.»

Lei rise di nuovo. «Solo acqua, davvero.»

Lui si schiacciò le mani sul petto come fosse stato colpito al cuore, poi si spostò in cucina, un altro regalino che si era concesso dopo la morte dei suoi. Acciaio e marmo italiano, con penisola e sgabelli anni ’50. Sopra pendevano tre globi luminosi.

«Prego» disse, scostando una seduta. «Ha fatto buon viaggio?»

«Oh, sì. Avevo il suo audiolibro a tenermi compagnia.»

«Davvero?» chiese, aprendo il frigo.

«A-ha. Dialogo notturno tra neurochirurghi

«Non per tutti.»

«Ci tengo a prendere il dottorato.»

«Mi ricorda me al college. Certo, dopo i tornei di Beer Pong ero il re dei dormitori, ma ero davvero appassionato di neurochirurgia. E di oncologia, anche. Alla fine ho scelto entrambe le specializzazioni, anche se lavoro soprattutto come oncologo.»

«Una scelta un po’ inutile se ha continuato a fare l’oncologo, dottor Lionel.»

Lui storse la bocca. Afferrò la minerale. «Mi chiamo Newman» rispose, chiudendo il frigo.

Il volto di lei sembrò pietrificarsi come i Moai dell’Isola di Pasqua. Lui decise di ripagarla ignorandola. A certe piaceva da matti. Prese un lime e lo affettò.

«In molti studiano entrambe le materie» riprese. «La maggior parte dei tumori è inoperabile perché la massa è avvinghiata a vasi sanguigni e nervi. Per questo si muore.»

Eva tacque. Lui versò ghiaccio nel bicchiere e conficcò il lime sul bordo.

«Potrebbe essere una buona idea iniziare così con la commissione. Farà bella figura.» Dio, quanto non sopportava quella troia. Le aveva offerto da bere, si stava prestando a tutti i dannati preliminari del mondo. Che altro voleva?

Si girò e la domanda gli morì in gola.

Lo sgabello era vuoto.

Maledetta puttana!, pensò, uscendo dalla cucina. Dopo averlo fatto ammattire con le richieste da verginella, cosa si credeva? Per scusarsi avrebbe dovuto come minimo succhiarglielo, quella schifosa…

«Sta bene, George? Posso chiamarla George?»

Newman spalancò la bocca.

La giacca della Roger era poggiata sul divano. Accanto c’era lei, enormi occhi verdi sopra altre due cose enormi. Lui fissò i seni morbidi strizzati nella camicetta, inebetito.

Lei ridacchiò con quella voce come caramello pepato. «Vieni qui, dai.» Carezzò la seduta del divano. «Il mio drink?»

«Oh.» Dio, quanto erano grosse! «Eccolo. Bello ghiacciato.» Fece per sedersi.

«E il piattino?»

Si bloccò. «Che?»

«Non crederà mangi anche la buccia, dottor Lionel.»

«Se vuole le tolgo il lime.»

«Non è quello che ho chiesto.»

Occhi negli occhi. Quelli di lei erano stregati, da gatta. Newman la vide pescare un pezzetto di ghiaccio e passarselo sulle labbra, succhiandolo e leccandolo. Sentì i pantaloni tirare.

«Senti, lasciamo stare il lime» propose, poggiando il bicchiere sul tavolo. «Diamoci del tu…»

Sentì il sapore della sua lingua prima di rendersi conto che gli si era avventata addosso. Newman strabuzzò gli occhi. Lei gli affondò le dita tra i capelli e lui l’afferrò per i fianchi, piazzandola a cavalcioni sopra di sé. Il pensiero che avesse almeno vent’anni più di lui lo mandò fuori di testa. Iniziò a sfilarsi la cintura, ma, non appena la palpò tra le cosce, il corpo di Eva fu attraversato da una scossa e lui sentì un gusto diverso, di acqua e sale.

Si scostò e vide che stava piangendo.

«Scusa…» mormorò lei, carezzandogli il viso. «Oh, John.» Poi scoppiò in lacrime e lo abbracciò.

Lui si paralizzò, sentendo l’eccitazione colare via come acqua di scolo da una grata. No. Niente più psicolabili dopo la ragazzina che lo aveva preso per il futuro padre dei suoi figli. Fece per spostarsi, ma lei lo strinse più forte, singhiozzando.

«Cristo.» Sospirò, dandole un paio di pacche sulla schiena. «Su, capita, ok? Le chiamo un taxi.»

Lei tossì e si scostò. La vide asciugarsi il mascara colato con la camicetta. Gli occhi erano di un marrone così lucente che pareva li avesse lustrati.

Prima erano verdi.

Si bloccò con la mano verso la tasca dove teneva il cellulare, inchiodato da quell’assurdità. Eva incrociò il suo sguardo. Inclinò la testa di lato, il trucco incrostato sulle occhiaie grinzose.

«Ha visto qualcosa di strano, dottor Lionel?»

Accadde velocemente.

Scattò per spingerla, ma lei fu più veloce. Gli addentò il labbro inferiore e tirò, inarcandosi. Newman barrì. L’urlo tramutò in uno strillo da porco scuoiato quando la carne si tranciò e un fiotto di sangue gli inondò la camicia. Scaraventò Eva di lato e si coprì la bocca. Uno zampillo sgorgò tra le dita, insozzando il divano.

Colse un movimento. Si girò in tempo per vederla sollevare la scultura tra le mani, i denti digrignati e rossi di sangue.

Poi lei abbassò le braccia e una folgore gli spaccò la testa come un’ascia in un cocomero, tramortendolo.


Rinvenne con una sensazione di annegamento.

Newman ruotò la testa, vomitando acqua amara. Cercò di sollevarsi dal parquet, ma un rotolio di oggetti aguzzi gli fracassò il cervello e ricadde, gorgogliando.

«Ben svegliato! Latte o cioccolato?»

Mise a fuoco Eva che poggiava il bicchiere sul divano. Contro, per terra, c’era un grosso recipiente per il latte. Lei lo trascinò accanto alla sua testa. Lo strofinio contro il legno gli fece quasi esplodere il cervello.

Si afferrò il cranio. «Cazzo…» farfugliò.

«Oh!» cinguettò la donna. «Me ne occupo subito.»

Eva sollevò la latta con un grugnito e la schiantò sul suo inguine.

Il dolore fu mostruoso. Newman lanciò un urlo disarticolato mentre lei calava quei dieci chili un’altra volta, spappolandogli qualsiasi cosa avesse mai avuto tra le gambe. Si rannicchiò in posizione fetale, ricoperto da una patina viscida. L’udito azzerato. Solo poche parole emergevano, scoppiando come bolle sul magma del dolore.

«John… uomo migliore… mondo. E tu… Lionel, non l’hai ascoltato. Ma ora lo farai. Mi stai ascoltando?»

Era scosso dai brividi. Il mondo ruotava molle, distorto.

Eva gli sbraitò in faccia: «Mi stai ascoltando?»

Newman percepì la pazzia nel suo tono e si mise a piangere. Non poteva crederci. Era in balia di una psicopatica. Lui, abituato a operare su nervi vitali sottili come capelli. Deglutì, cercando di calmarsi. Non era il momento delle domande. Pensa. Pensa a come uscirne…

Il telefono.

Cercò di sbirciare attorno. Eva aveva indossato dei guanti e stava ruotando il coperchio del recipiente. Sopra lesse: BM. Non voleva scoprire cosa significasse. Fece scivolare la destra verso la tasca dei jeans.

«Eccoti» disse lei con tenerezza.

Si congelò, terrorizzato. Ma Eva sembrava parlare con qualcosa dentro il contenitore. Lo teneva scostato, come se lo temesse. Spinse la mano nella tasca.

Vuota.

«Lo so, non dovevo sbatacchiarti» proseguì Eva. «Ma il dottor Lionel voleva vederti, perciò dovevo svegliarti. Ti va d’incontrarlo?»

Nel contenitore qualcosa sbatté. Newman ebbe la visione ributtante di un’anguilla in un barile. Poi l’aria si gonfiò di un sibilo e in lui ogni briciolo di razionalità si spense. Pedalò coi piedi, dominato dall’impulso di fuggire, ma qualcosa di lungo e squamoso gli stava già risalendo le gambe, il petto. Gridò nell’istante in cui un tubo nero gli ondeggiò sopra.

La piccola testa a forma di bara lo puntò. In un lampo, cento pugnali gli maciullarono la faccia ed Eva batté le mani.


Dopo la morte di John, Ruth era caduta in depressione. Non un malessere passeggero; una voragine, e laggiù, nelle viscere dell’oscurità, ringhiavano mostri che esigevano la sua vita. Aveva provato a dargliela in due occasioni. La prima aveva trangugiato un fusto di Lysol. Le sue urla per le ustioni avevano portato la vicina a chiamare il 911. L’avevano ricoverata, operata e imbottita di benzodiazepine. All’inizio aveva cercato di sputarle e mordere, ma presto aveva capito che, così, non sarebbe mai uscita. Voleva morire, ma non in ospedale. Non per mano dei vermi che avevano ammazzato John.

Così, aveva smesso di urlare. Si era lasciata pettinare, imboccare. Alla lunga, l’infermiere aveva smesso di rigirarle la mano guantata in bocca per verificare che avesse ingoiato le pastiglie. Aveva perfino parlato con lo psichiatra che le avevano assegnato, sperando, in un minuscolo anfratto di sé, che avrebbe chiesto scusa per ciò che il dottor Lionel aveva fatto a John. Ma non era successo.

Perciò, una volta a casa, ci aveva riprovato. Stavolta aveva pianificato tutto: i vicini fuori, le lamette sul bordo della vasca, l’acqua calda. Aveva rifatto il letto, spolverato. L’acquario pesava, ma lei l’aveva comunque svuotato nel gabinetto, osservando i pesci battere le code nel gorgo dello scarico. Infine aveva indossato il vestito verde, il preferito di John, e si era guardata un’ultima volta allo specchio. Lui era lì. Alle sue spalle, solido e caldo come da vivo. Aveva trattenuto il fiato. Sei più di così, le aveva bisbigliato, scostandole i capelli dall’orecchio. La mia forte, bellissima moglie.

D’un tratto, aveva visto il riflesso: non dello spettro occhiaie e capelli di paglia che era diventata, ma di Ruth Lewis, che una volta si era fatta un mese di trekking estremo dalla Sierra Nevada al Messico. La donna che aveva messo un piede davanti all’altro su quel sentiero, gelata nella neve e poi scorticata dal sole del deserto, c’era ancora. Stava a lei ritrovarla e usarla per vendicare John.

Un mese più tardi era pulita. Si era iscritta in palestra e aveva comprato il furgone. La sera guardava un film via l’altro, studiando un piano per farla pagare a Lionel. Non aveva trovato l’idea giusta finché, una sera, aveva visto la scena di una bionda che nascondeva un mamba in una valigia destinata a un ricattatore. Mentre l’attrice si sedeva a leggere gli effetti del veleno allo stronzo agonizzante, Ruth aveva alzato il volume, rapita. Il mamba nero era uno degli animali più velenosi della Terra, aveva appreso. Con un morso poteva iniettare tanto veleno da uccidere un elefante. Ridendo e piangendo, aveva copiato gli appunti mentre John la baciava, carezzandola in quel modo rude e sussurrando quanto mi sei mancata.

Quella notte avevano fatto l’amore. Ruth aveva goduto furiosamente nel grande letto gelido, da cui l’odore di John se n’era andato da tre anni. Ma tre anni o un giorno, che differenza faceva, quando il dottor Lionel dormiva sonni tranquilli?

E ora finalmente era lì, ai suoi piedi. Sentì il petto sfarfallare dalla felicità. Si accucciò su di lui, stringendosi gli stinchi. Insieme a John, sussurrò: «Mi stai ascoltando?»

Lo sentì mugolare. La sua mano si sollevò e ricadde nella pozza di sangue. Sciaff.

«Ti ricordi di noi? Siamo venuti da te in cerca di aiuto. Il tuo studio era pieno di trofei. John adorava il golf.» Gli scostò i capelli madidi dalla fronte. Era crivellata di morsi. «Cosa credevi? Di scoparti la moglie di uno che hai ucciso?»

Lo stronzo gorgogliò qualcosa. Un fiotto bolloso gli eruttò dalle labbra.

«Quanto sei sporco» lo compatì. «Come la macchia sulla tac del cervello di John. Dicesti che non era niente. Pulita come il sederino di un bebè dopo il bagnetto. John rise. Risi anch’io. E sai una cosa?» Si chinò sul suo orecchio. «Mi fai ridere anche ora.»

Sentì il petto di Lionel alzarsi. Dalla gola uscì un rantolo prolungato. Infine il torace si fermò.

Lei chiuse gli occhi. Inspirò a fondo. Poteva sentire le braccia di John intorno alle spalle, il suo petto contro la schiena.

Sei stata bravissima, amore.

«Grazie» sussurrò e inclinò la testa verso di lui.

In un angolo il mamba, arrotolato nelle spire, soffiò.

Grazie anche a te, gli comunicò. Spero che i topi fossero gustosi. Sia il primo che questo qui.

L’abitacolo era un bollore. Le zanzare ronzavano intorno allo specchietto come streghe a un sabba. Ruth tracciò una riga sul terzo nome della lista. Da sotto il pollice spuntavano le ultime lettere del cognome precedente, sbarrate: EL.

Tutto procedeva bene. Con il primo tentativo aveva dovuto pianificare i dettagli, ma ormai le sembrava di averci preso la mano. Ripensò al souvenir sul retro del furgone. Sorrise.

Per un momento si chiese dove si trovasse. Il vialetto in cui aveva parcheggiato era curato, la ghiaia bianca spruzzata dal porpora delle lobelie. Tornò a fissare la lista. Non era importate. Ciò che contava era il nome. Lo stesso, ripetuto una pagina dopo l’altra.

Ted Lionel, l’uomo che Ruth uccideva da tre anni.

Ted Lionel, che nel 2018 la polizia aveva catalogato come scomparso ma che in realtà si trovava nello stomaco dei pesci del fiume Pecos, New Mexico.

Ted Lionel, che in quel momento giaceva con le vene otturate dal veleno nel suo loft.

Ted Lionel, stimato neurooncologo ritrovato il 3 marzo 2017 riverso sul tappeto con la lingua gonfia e nera dopo che, mesi prima, aveva liquidato l’ultimo paziente della giornata con un paio di battute sul golf senza ascoltarlo a dovere.

«Ma stavolta ascolterà» disse Ruth, cerchiando il quarto nome sulla lista. Sì, la prossima volta gli avrebbe ficcato un tubo in gola e gliel’avrebbe fatta ingoiare, la maledetta tac. Con un aiuto dalla tarantola nell’altro recipiente.


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4 Comments

  1. Appena ho iniziato a leggere le prime frasi, mi sono sentita catapultata a bordo di una macchina, in quel luogo pieno di afa e zanzare.
    E ci sono rimasta sino all’ultima riga.
    Complimenti alla scrittrice!

  2. Ancora un pezzo scritto in modo esemplare, crudo, espressivo, a tratti quasi noir….un rimando a Kill Bill.
    Un’ ennesima buona prova Letteraria, complimenti

    1. Fantasia particolareggiata piena zeppa di rimandi a cose e fatti reali caratterizzano i racconti di Alice rendendoli più fruibili e la cui ricerca non scontata lascia capire quanto passione mette nel suo lavoro. Bravissima!

  3. Una storia dove emerge la follia, scritta con capacità e arguzia. Se fosse veritiera, sarebbe iniziato tutto per un’ingiustizia. La scrittrice ha saputo creare anche un ottimo personaggio, perfetto per questo racconto. Complimenti davvero, Alice!

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