Bakunin e la suora

di Francesca Addei
Copertina di Dario Faggella

«Olga, ascoltami per favore, tu sei davvero sicura che sia una buona idea?»

«Per forza, la bambina deve studiare»

Bakunin poggia il cacciavite a terra e si pulisce le mani con lo straccio infilato nella cintura dei pantaloni. Dovrà mandare sua figlia dalle suore. Lui. Bakunin. Come l’anarchico.

«Ma non possiamo mandarla in una scuola normale?» riparte all’attacco sulla scia della moglie che nel frattempo era entrata nella carovana con un plico di fogli sotto al braccio.

Lei, esasperata dalla domanda, alza gli occhi dai numeri e risponde paziente: «A noi non serve una scuola normale, a noi serve un collegio e in fondo lo sai anche tu. Stiamo sempre in giro, cambiamo piazza ogni quindici giorni, Jenny ha bisogno di stabilità e regole»

«E pensi che gliele daranno quelle? La stabilità e le regole?»

«Sicuramente più di noi» ribatte guardandosi intorno.

Il loro mondo di giostrai era un continuo via vai di operai con rispettive famiglie al seguito, tutta gente che viaggiava insieme a loro da anni. Cani, gatti, bambini che erano figli di tutti e di nessuno. Per tutti, due volte al giorno c’era un pasto caldo a tavola.

Jenny sale di corsa i gradini della casa su ruote, col ginocchio perennemente sbucciato e il cane Briciola in braccio.

«Non lo tenere così, ti ho detto mille volte che lo strozzi», l’ammonisce calma la madre.

«Era scappato ancora mamma e Gino ha detto che la prossima volta ce lo ammazza» risponde Jenny fremente.

Gino i cani li accalappia e li porta al canile, non li ammazza mica, pensa Bakunin mentre prende la pasta abrasiva ma si guarda bene dal dirlo. Perché se fosse esistito ancora al mondo qualcosa o qualcuno in grado di spaventare sua figlia, occorreva preservarlo come un bene prezioso.

Quindi, credesse pure che Gino se andava in giro ad ammazzare i cani.

«Va bene, adesso mettilo giù e torna fuori a giocare che poi con Gino ci parlo io» la rassicura la madre che era già tornata con la testa ai suoi conti.

Jenny esce in una bollente Roma di agosto e va dalla sorella che è allo stand dei fucili ad aria compressa.

«Dai Luisa ti do il cambio, tocca a me!»

«No», risponde placida lei, pensando dell’ultima volta che l’ha lasciata da sola coi fucili e Jenny ha puntato alle chiappe di quel ragazzino dell’Eur che non voleva pagare i colpi appena sparati.

«Che noiosa che sei e vai vai…» e smorfiosa aggiunge: «guarda che c’è Pieriiiino laggiù che gironzola tutto solo…»

«Ma fatti i fatti tuoi!» risponde arrossendo la sorella che in un attimo è fuori dal bancone e corre verso il ragazzino che a quattordici anni è già un uomo, che da tre lavora a bottega col padre e tra dieci anni la sposerà.

Ma Jenny è una che si stanca subito. È mattina e non c’è nessun incasso da cui rubare qualche moneta, né ci sono bottiglie già aperte di liquore dolce da cui bere un sorso e quindi se ne va, con Briciola al seguito.

Erano tutti abituati a quello che combinava Jenny, ultima di quattro figlie, il maschio desiderato e che in qualche modo, era arrivato.

Alla Montagnola, dove si fermavano quando le giostre erano fisse a Roma, la conoscevano tutti.

Una secchetta bionda dalla faccia impunita che non stava ferma un attimo.

Spesso una processione di vicini arrivava a lamentarsi con Bakunin e la moglie e la solfa era sempre la stessa: «La dovete manda’ a scuola quella, è una selvaggia, non può anda’ in giro così. Dice un sacco de parolacce, ha menato a mi fia…» e via dicendo.

I genitori facevano spallucce e rassicuravano tutti che l’avrebbero sgridata ma in fondo in fondo erano contenti di quella ragazzina che, erano certi, nella vita non si sarebbe mai fatta mettere i piedi in testa da niente e da nessuno.

Poi una mattina il traffico aumenta di colpo, ecco che settembre era arrivato troppo in fretta.

«Allora, hai capito tutto? Ripeti».

«Io sto lì al collegio fino a venerdì e poi voi dopo pranzo mi venite a prendere», ripete dondolando e guardandosi le scarpe nuove di vernice lucida. Scomode.

«No, non sempre Jenny, solo quando siamo vicino Roma», risponde la madre che non vuole darle false speranze.

«Voi cercate di venire sempre però», li implora lei.

«Ok ci proviamo», prova a chiudere la madre

«Io sto lì, studio e faccio quello che mi dicono le suore», ripete a pappagallo Jenny.

«E se ti torcono un capello lo dici a papà che vengo lì…»

«Bakunin, nessuno le farà niente!» interviene la povera Olga affacciata sull’orlo dell’irritazione.

«E se mi menano vieni papà?», incalza lei con la vocetta flebile.

«Certo amore. Ma non ti mena nessuno, con quello che paghiamo ci devono solo provare».

E così per un mese circa tutto fila più o meno liscio. Ogni venerdì pomeriggio, anche se non si trovavano proprio vicino, i genitori vanno a riprendere la bambina al collegio di Via Merulana. Fanno una sosta a mangiare il gelato da Fassi, il più buono di Roma e poi una, due e a volte anche tre ore di macchina per tornare alla carovana. Un saluto alle sorelle, a Briciola e tutta l’enorme famiglia allargata e itinerante.

«Allora Jenny come va? Si comportano bene le suore? E tu? le fai disperare?»

La verità è che nessuno riusciva a credere che Jenny riuscisse a comportarsi bene in un collegio e fosse in grado di rispettare le regole, eppure sembrava stesse andando proprio così.

Ogni lunedì mattina con 10.000 lire in tasca e la borsa piena di dolci e merendine, Jenny torna puntuale dalle suore.

Fino a quel mercoledì, quando squilla il telefono della carovana: Jenny aveva litigato con le suore ed era scappata. Per fortuna erano a Ostia e quindi con un’ora scarsa di guida e bestemmie Bakunin era lì.

La suora lo accoglie, seria, nel suo studio e quando si accorge del suo volto furente, lo rassicura: «Signor Rossi, per prima cosa, stia tranquillo, abbiamo ritrovato Jenny era andata a portare il latte a dei gattini in cortile»

«Sarà meglio per lei Madre, ora mi chiami mia figlia per favore», dice Bakunin senza nessuna voglia di chiacchierare.

«Non vuole sapere cosa è successo?», chiede stupita la suora

«No, non mi importa. Non siete state in grado di badare alla bambina e per me la questione finisce qui».

«Ma Signor Bakunin, Jenny è ingestibile, non vuole pregare la mattina, non si fa il segno della croce prima di pranzo, è viziata, litiga con tutte le compagne».

Bakunin si guarda intorno, si vede circondato da centinaia di quadri con Cristi e Madonne e vorrebbe bruciarli con lo sguardo.

«Madre, per favore, voglio vedere mia figlia», ribadisce.

«E poi…», continua imperterrita lei, «vi abbiamo detto già varie volte che non era il caso di far venire in aula il barista ogni mattina alle dieci col maritozzo con la panna. Si creano scontenti con le compagne di classe e poi non le fa bene mangiare ogni giorno dolci».

«L’alimentazione di mia figlia non è affare vostro», chiude l’Anarchico.

«Ascolti Signor Rossi, adesso noi troviamo una soluzione perché la bambina deve essere raddrizzata! Nel nome del nostro Signore Onnipotente!» urla la suora in preda a un delirio febbricitante.

Per il pacifico omone questo è troppo e scoppia: «Io mi chiamo Bakunin, come l’anarchico!» tuonando «e non me ne frega niente del vostro Signore, ho detto che voglio vedere Jenny! Subito!»

«Lei non capisce, questo era il posto migliore dove potesse far crescere sua figlia! Sta perdendo l’occasione di rendere sua figlia una brava cristiana!» risponde offesa la Suora.

«Certo, il posto migliore per farla diventare come voi, che vi dividete un marito immaginario!»

«Lei è un irrispettoso blasfemo Signor Ba…ba…»

«BAKUNIN! E non sono irrispettoso io! Sono ANARCHICO!»

A quel punto Jenny, in lacrime e con un gatto rognoso tra le braccia, irrompe nell’ufficio della Madre Superiora «Papà!» urla disperata, «La suora m’ha dato uno schiaffo!»

E da lì è un attimo senza ritorno. Il cielo si fa buio come dentro il legno caldo e scuro di un confessionale e Bakunin, sempre gentile con tutti, allarga il braccio possente per mollare un ceffone alla suora ma poi rallenta. È un brav’uomo che non ha mai alzato le mani su nessuno nè tantomeno su una donna ma ormai è troppo tardi. Non fa in tempo a fermarsi del tutto e la testa della madre superiora viene raggiunta da un piccolo colpo che sembra quasi un buffetto, sufficente però a farle volare via la cuffia e lasciarle scoperti i capelli corti tagliati alla buona.

Il tempo si ferma. Jenny smette di piangere e non prova a nemmeno a trattenere le risa. Bakunin serra le palpebre e grugnendo lascia soffocare in gola un rosario di imprecazioni. Tira un respiro infinito per assicurarsi che la rabbia rimanga lì nel petto, dove l’ha appena ricacciata, almeno per i minuti necessari. Prende per mano la figlia e sulla soglia si rivolge, con nel volto una smorfia confusa tra la collera e la mortificazione, alla suora.
«Madre, ho perso la ragione e per questo le chiedo scusa… Però na cosa prima d’anna’ via je la voglio dì: i figli, se proprio vuole, prima se li fa e poi gli mena-»

Jenny con il gatto sotto il braccio, stretta alla mano del padre si gira e prima di sparire da dietro la porta maestosa, fa partire una linguaccia in direzione della suora, che col volto pietrificato è ancora in piedi al centro della stanza. Col velo in mano.


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