Interferenza

di Caterina Iofrida
Copertina di Dario Faggella

Sono solo le 8 del mattino ma la tv è accesa, come ogni giorno. Il volume è alto; del resto non tutti quelli che dovrebbe raggiungere si trovano nella stessa stanza della tv, anzi, a ben guardare, in salotto, non c’è proprio nessuno. Marta è in bagno, sotto la doccia, che s’insapona i capelli; Luisa è in cucina, che armeggia con la moka senza riuscire a trovare la forza sufficiente ad aprirla; Sara sta dormendo e non si accorge di nulla; Lidia se ne sta immobile, sulla porta della sua camera, a chiedersi perché mai le altre debbano sempre accendere la tv come prima azione della giornata. Per compagnia, le aveva detto una volta Marta. A Lidia, più che compagnia, sembra piuttosto rumore di fondo: non aiuta a pensare, anzi, è un disturbo, se si vuol pensare ad altro; pure volendo pensare proprio alla tv, concentrarsi su quel che va in onda, beh, come si fa standosene così, in un’altra stanza, cogliendo parole qua e là, facendo altro? Lidia continua a stare ferma. Sono passati almeno cinque minuti da che si è alzata, ma non riesce a decidersi su che cosa fare prima, se dirigersi verso il bagno o la cucina, scegliere i vestiti, fare lo zaino; ogni volta che prova a focalizzarsi su un’idea arriva quella voce, a interrompere il processo. È una voce di donna, adesso sta dicendo “separata” e poi “mio marito”. Deve essere un qualche reality, pensa Lidia. Ma poi dice altre parole, “agente”, “procuratore distrettuale”. È una serie tv, decide. Forse The Shield. Lidia non se la sente di fare come le altre, di farsi i fatti suoi: bisogna che vada in salotto, invece, a controllare che diavolo sta succedendo tra poliziotti corrotti e politici losangelini. In corridoio non fa caso a Luisa che le rivolge un rapido buongiorno, non le risponde nemmeno. È quasi arrivata in salotto quando le arriva, nitida, la voce di Vic Mackey – sì, insomma, del suo doppiatore. È certamente The Shield, si dice. Entra e la vede: Audrey Hepburn con un violoncello tra le gambe, seduta davanti a uno spartito. Ma non si sente una nota. “Andiamo, Vic!”, dice invece la tv. Deve aver sentito male. Ma no, è proprio la voce di Lem, il detective Curtis Lemansky. Lidia prende il telecomando dal tavolino e cambia canale. Gente a tavola che ha tutta l’aria di non aspettarsi minimamente di aver appena assaggiato un pesto pronto. Di tanto in tanto qualcuno apre bocca e sembra dire qualcosa, ma non si sente parlare nessuno, ­­­­­­­­­si sente invece una musica, che Lidia riconosce immediatamente: è la sigla de La signora in giallo. Okay, qualcosa non torna. Probabilmente quella tv è troppo vecchia. Ma ora non ha voglia di pensarci. Fa per spegnerla ma poi cambia idea e rimette a posto il telecomando sul tavolino. Non solo non ha voglia di pensarci, Lidia ne ha ancora meno di parlare con le altre di quello che è appena successo. Tanto per cominciare, è passata quasi mezz’ora ed è ancora in mutande. Secondariamente, a lei che cosa importa della tv? Che ci pensi Marta, visto che le fa tanta compagnia. Si volta e fa per tornare in corridoio, quando Sara le si para davanti. “Ciao Sara”, le fa, ma quella non risponde. Lidia le passa accanto scansandola, indispettita. “Non saluti più tuo padre?”. Qua Lidia trasalisce e per un istante rimane pietrificata; poi si volta, lentamente. È stata una voce maschile a parlare. Squadra la sua amica come se, osservandola attentamente, potesse venire in qualche modo a capo della situazione. Sara è ferma in piedi davanti a lei e le sue labbra si muovono. Solo che, dalla sua bocca, non esce alcun suono. La guarda negli occhi mentre pronuncia parole silenziose sempre più velocemente. Si sta incazzando? Lidia non ne è sicura, fino a che l’altra non se ne va dalla stanza quasi di corsa, con un moto di sdegno. “Luisa”, chiama Lidia alzando la voce mentre cerca di controllarne il tremito, “Luisa, puoi venire un attimo di qua?”. Non sa bene perché, ma ha paura di lasciare la stanza e anche di restarci da sola. Luisa non le risponde. Da dietro le sue spalle, Lidia sente la risata stridula di Jessica Fletcher e ha un brivido. Decide di farsi coraggio e torna in camera di corsa.

E ora che si fa? Lidia siede sul letto, i muscoli tesi, come se il suo più piccolo gesto potesse innescare una catastrofe. Magari è un po’ troppo stanca e quella roba di là se la è sognata. Okay. Potrebbe rimettersi un po’ a letto e poi alzarsi di nuovo, uscire dalla stanza e trovare tutto normale. Sta per farlo quando il suo telefono squilla, il display dice “Mamma”, per un attimo si chiede se le convenga rispondere in quel preciso momento, non ne è sicura ma fa comunque scorrere il dito sullo schermo, “Pronto?”, sente rispondere la sua stessa voce, “Hello Frank, this is Lois”, quella invece non è la voce di sua madre, e a questo punto a Lidia si gela il sangue nelle vene. Chiude la comunicazione. Improvvisamente sente di soffocare, ha bisogno di uscire. Prende una maglietta a caso da quelle ammonticchiate sulla sedia e se la infila, afferra i jeans che sono sul letto, si alza e, una gamba dopo l’altra, ci entra dentro, chiude la cerniera e il bottone, poi tira fuori uno stivale da sotto al letto, lo posiziona vicino all’altro che è accanto alla scrivania e li indossa, in piedi, traballando. Prende la borsa e due minuti dopo è in corridoio dove per fortuna non c’è nessuno, si fionda verso la porta di casa, la apre, esce e se la sbatte forte alle spalle. È una bella giornata.

Lidia cammina senza la minima idea di dove stia andando. Sul suo stesso marciapiedi vede da lontano venire verso di sé due persone, un uomo e una donna, che stanno chiaramente parlando tra di loro: le si chiude la gola. Ma quando le si avvicinano hanno smesso di parlare e si sorridono, sereni, tanto pacifici che a lei viene di sorridere a sua volta, gettando loro un’occhiata di gratitudine. Si dirige verso il parco. I prati luccicano, sotto il sole alto. È martedì e si vede: qualche anziano passeggia per i viali, un paio azzardano una prudente corsetta, i prati sono vuoti a eccezione di un gruppetto di quattro ragazzine con lo zaino sedute in cerchio che, oggi, devono aver detto ciao ciao alla scuola. Lidia si ricorda di quando lo faceva lei e ha una fitta di nostalgia, del genere che si prova nei riguardi di tempi che non si sono vissuti con gioia, ma in seguito si tende, per qualche motivo, a considerare spensierati. Non si avvicina alle ragazze che chiacchierano fitto e punta invece un platano con nessuno attorno, siede con la schiena appoggiata al tronco, abbraccia le ginocchia e ci poggia il mento. Guarda attorno a sé senza concentrarsi su nulla in particolare, cerca con forza di non pensare, anzi di svuotare completamente la testa. Ma si accorge che non può: non ci saranno voci fuori, ma là dentro sì, “…hai sentito quello che ho detto?”, è una voce femminile pacata, ma irritante, “Di non masticare a bocca aperta, cristosanto, sì, ho sentito”, questa è un’altra voce femminile, che conosce fin troppo bene, o almeno così le sembra; le è familiare, sì, ma al contempo ha qualcosa di diverso dal solito. “Fai sempre così”, è la voce di un uomo.

Lidia non sa da quanto, di preciso, il piccione la stia fissando; ma sa che non ha intenzione di mollare. Neanche lei: di tutte le cose che potrebbe fare adesso, tutte le azioni, i compiti, i doveri contemplati da un martedì mattina, non ricorda granché se non che mollare è fuori discussione. Lidia sostiene lo sguardo del piccione. Passano minuti, ore, ma né lei, né la controparte pennuta, si spostano. Verso le sette di sera “Io mi vado a bere una cosa”, pochi dubbi su da dove provenga la voce, “ma tu mi devi fare una promessa”, “Dì pure”, fa lei, stranamente riposata, “Per stavolta ci ho pensato io, ma tu non permetterlo più”. Lidia si addormenta sotto al platano. Non ricorda più niente, e fa sogni magnifici. Il piccione prende il volo: a un osservatore attento, se ci fosse, non sfuggirebbero due pile stilo intrappolate nel becco.


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1 Comment

  1. Mi è piaciuto parecchio, mi ha giustamente spiazzato,
    cioè spostato da questa piazza dove i piccioni non se ne vanno mai,
    bestemmiano sovente, ridono sguaiatamente e cacano sulla sella della bici di mia figlia che sta lì sotto,
    legata al palo.
    Il disegno è molto bello, però fa troppo onore a quei bastardi dei piccioni.

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