di Vargas
Copertina di Pidgin Edizioni
Mattia Grigolo, chi ci segue se ne sarà accorto, ci ha scritto un bel po’ di roba, qui in rivista.
Bei racconti, roba che quando arriva nella casella di posta tiriamo un sospiro di sollievo perché siamo certi che per il mese, almeno un testo lo prendiamo.
All’ultimo Salone del Libro lo abbiamo anche beccato, con Martello. Sarà stata l’una di notte e dopo qualche chiacchiera di rito, noi, che prima che simpatici guasconi siamo sempre professionisti, gli abbiamo detto: «Ué Mattia, quand’è che ci mandi qualcos’altro? Magari un bel fogliettòn, che ultimamente languono» e lui, con la tipica verve di chi sta a Berlino e quindi non possiamo andarlo a cercare a casa: «Eh sì, sapete, mo’ c’ho delle cose per le mani, sto pensando a una roba da mandarvi, l’ho scritta apposta per voi, così tanto che l’ho mandata già a qualcun altro per vedere se me la prendono. Vi faccio sapere».
È passato del tempo da quell’invivibile notte di birrini sovrapprezzati, temperature subsahariane e kebab all’alba, ma alla fine Mattia un fogliettòn lo ha scritto come promesso e siccome a noi è super affezionato, ma affezionato che non vi dico…
Lo ha mandato a Pidgin.
Questa ce la segnamo.
La Raggia è una novelette di Mattia Grigolo per Pidgin Edizioni.
Parlarne risulta abbastanza complicato, perché è uno di quei lavori che racconta una storia nei fatti infinitamente semplice, appoggiando gran parte dei meccanismi narrativi su una struttura inusuale.
Ci troviamo per le mani tre diari autografi, che per ragioni oscure non solo decidiamo di leggere in ordine sparso, ma anche al contrario. Alcuni dei volumi hanno pagine mancanti, che lo pseudo-autore ha strappato per paura che qualcuno le leggesse: le ritroveremo in fondo al volume prima di una lettera che dovrebbe riprendere le fila dell’intera narrazione.
L’effetto è quello di ricostruire a ritroso una storia nella sua inevitabilità, in un mondo fermo dove la Storia non può che ripetersi perché nessuno parla e di conseguenza nessuno può imparare.
Lo pseudo-autore dei diari è un ventenne appena alfabetizzato, probabilmente affetto da PTSD, che vive in una baracca nel bosco, poco lontano da un paesino di profonda provincia, in compagnia di un padre alcolizzato, violento e cacciatore di frodo. Se il profilo non vi è nuovo è perché coi dovuti aggiustamenti (e una consapevolezza profondamente diversa) è lo stesso della prima parte de La Dorsale: l’età del ferro di Gaia Maria Belli.
Ovviamente, i paragoni tra i due lavori terminano qui, ma è interessante notare come questo tipo di figura stia facendo il proprio ingresso nell’immaginario comune.
Lo pseudo-autore, che ha da poco lasciato la scuola per ragioni di profonda disistima verso l’ambiente che lo circonda (sono tutti semianalfabeti e anche gli insegnanti gli danno l’idea di essere impostori), decide di iniziare a scrivere una serie di pensieri sparsi per alleggerirsi da un’oppressione interiore che tende a evolvere in violenti scoppi d’ira: l’eponima raggia (rabbia).
Dire di più, temo rovinerebbe la lettura.
La prosa è all’insegna della mimesi, il tentativo di esprimersi in italiano standard da parte di qualcuno che l’italiano standard deve averlo sentito di sfuggita un paio di volte in vita sua. Il testo riporta persino cancellature dello pseudo-autore che ogni tanto si accorge (o si convince) di aver scritto qualcosa in dialetto, o ripetuto troppe volte una parola. In casi estremi, troviamo intere pagine di diario completamente barrate.
Un testo di questo genere soffre particolarmente la lettura su supporto digitale. L’istinto è quello di tornare indietro per meglio tener traccia dello scorrere del tempo, o rileggere vecchie pagine per ricontestualizzarne le informazioni. Non è da escludere che un formato più vicino a quello di Niente di umano di Moscabianca avrebbe giovato al testo in termini di immedesimazione.
Vorremmo aggiungere altro, ma siamo ancora piuttosto piccati con Mattia.
Chissà se ha un cavallo preferito.
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