Ragni di Marte

di Vargas
Copertina di Eris Edizioni

Non ricordo precisamente dove, facile che fosse un post virale su Tumblr, lessi che da un certo punto di vista, in quanto animali, siamo come piloti di un Mazinga di carne dalla funzionalità alquanto raffazzonata. Può capitare che i nostri arti si addormentino, che una mano intorpidita ci tocchi come fosse quella di un altro, che gli occhi riscontrino movimento dove in realtà ci sono solo un paio di pallini ben piazzati.

I cinque sensi, in particolare, vivono di approssimazione. Ciò che definiamo reale è a malapena un fatto statistico, che ha spinto masnade di filosofi a dichiarare per disperazione che potrebbe non esserci nemmeno un reale, che potrebbe essere qualcosa di completamente diverso da ciò che immaginiamo, che potremmo trovarci tutti in una partita particolarmente maldestra di The Sims e altre manifestazioni di coltissima insofferenza.

Ragni di Marte è un romanzo di Guillem López, edito da Eris Edizioni, tradotto da Francesca Bianchi e illustrato da Sonny Partipilo che si pone il problema di spingere all’estremo il dilemma della percezione, legato anche a quello della malattia mentale.

Il fulcro della narrazione è Hanne, un’olandese trapiantata in una Valencia futuribile, che a seguito della morte del figlio inizia a soffrire di complessi episodi psicotici che la scardinano dal consesso del reale, costringendola a una spossante marcia tra versioni alternative della propria vita.

La causa del fenomeno è lasciata nel caliginoso regno del dubbio: potrebbe soffrire di un inedito tumore cerebrale puntiforme o essere infestata dalle uova di una razza di ragni alieni interdimensionali che si nutre della vita di Hanne, della sua storia, in attesa della schiusa.  

Che il motivo della malattia sua l’uno o l’altro, che Hanne sia pazza o infetta, che ciò che leggiamo siano allucinazioni o uno scenario da confine della realtà poco importa, perché la strada scelta da López per aggirarsi nella storia è quella della completa immersione. In un capitolo Hanne piange la morte di suo figlio Joan insieme al compagno Arnau, in quello successivo Joan è adulto, un informatico a capo di una startup milionaria, in un altro ancora Arnau abbandona Hanne per trasferirsi negli USA e un Joan di otto anni è costretto a testimoniare il decadimento psicofisico di una madre che lo terrorizza e lo tiene in ostaggio.

In tutti gli scenari però incombe l’immagine di dissoluzione di un baratro circolare e perfetto, che inghiotte la realtà, ne disgrega forma e coerenza, assorbe la luce come un buco nero, in cui Hanne precipita tra una realtà e un’altra mentre il resto del mondo viene divorato dalle sagome sciamanti e cosmiche dei ragni.

La voce del romanzo è quella di chi si sveglia annebbiato e dolorante in un mondo tinto dalla bile amara di un inspiegabile doposbornia, la realtà di un anchilosato after da cocaina. Hanne è costretta a mettere continuamente in dubbio sé stessa. I ragni sono reali? O sono il ricordo subconscio di un romanzo letto gioventù? Hanne è pazza come sua madre, o c’entrano davvero gli alieni? Se le realtà sono infinite qual è l’Hanne primaria, la nostra àncora da cui partire per giocare a scovare le differenze?

Se questo non bastasse, l’approccio letterario di López (teoricamente RdM è categorizzato come romanzo di fantascienza) relega il discorso del genere al posto che gli spetta: il dimenticatoio.

Sì, è vero, la Valencia di cui leggiamo è nel futuro, forse nemmeno sulla Terra, ma non è questo il centro della narrazione. È come se López in quel futuro ci vivesse già e ambientasse semplicemente la storia “quando” vive. I ragni titolari potrebbero essere veri alieni, come i rantoli di un cervello malato. Lo stesso vale per il buco nero che perseguita Hanne e chi la circonda.

La purezza dell’esperienza ci pone dunque di fronte a un bivio in cui qualsiasi definizione non può che essere arbitraria: sto leggendo un romanzo di fantascienza o no? Hanne è pazza o no? Senza appigli per scegliere non ci resta che smetterla con le baggianate e perderci spaesati nel senso della storia: l’esperienza allucinante di camminare su un suolo soffice, l’inevitabilità di essere ingoiati, la lotta stremante di aggrapparsi a ogni briciolo di dato inconfutabile.

La follia, il multiverso, sono scritti per essere esperiti e non raccontati.

Uno degli aspetti più affascinanti è proprio Hanne, la protagonista del romanzo. Chi non è vissuto sotto una pietra negli ultimi anni potrebbe essersi accorto che non è proprio il momento storico più tranquillo perché un autore si prenda la briga di imbracciare il punto di vista di una donna. La donna in questione soffre anche di una gravissima patologia mentale (o presunta tale), il che raddoppia il problema.

Questa difficoltà, ovviamente, non viene dal fatto che, come bercia qualcuno, “non si può più dire niente”, ma per una certa pochezza informativa sul tema.

L’Hanne di López invece non è la pietosa vittima di una malattia soverchiante. L’istinto che più la guida è di lucida rabbia. Non il delirio di una pazza, ma la furia di qualcuno a cui è stata strappata la più basilare percezione di ciò che ci circonda, la violenza definitiva. Non è definita dal suo delirio, ma dalla guerra di strenua resistenza ad esso, un’immagine che nella rappresentazione della malattia mentale tendo a riscontrare sempre troppo di rado.

Due parole vanno infine spese per le illustrazioni di Partipilo, collage ipersaturati di brandelli urbani, occhi strabuzzati, lune a picco su specchi d’acqua neri e vuoti: l’iperstimolazione di un cervello intossicato che non riesce più a ordinare l’assalto di impulsi esterni ed è quindi costretto a procedere per suggestioni acide e impressioniste.

Lo so che di norma trovo sempre qualcosa di cui lamentarmi, ma questa volta no.

È bello. È terribile. È doloroso.

Fatevi una violenza e leggetelo anche voi.


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