Spaghetto – Gli Estrattori

di Piera Biffardi
Copertina di Annibale Mastroluca

L’ho trovato seduto sul bordo del letto. Aveva un’espressione che era un misto di desolazione e smarrimento.
Mi sono accovacciata davanti a lui, stringendogli le mani ossute.
«Che succede? Mi hanno detto che stamattina hai schiaffeggiato l’infermiere».
«Nenne’, ho la testa vuota».
«Stai tranquillo, lo sai che alla fine ti torna tutto in mente, me lo racconti e io scrivo, così non te ne scordi più».
«No, ho proprio la testa vuota. Si sono presi il cervello».
«Hai fatto un brutto sogno? Ora è passato. Devo andare a lavorare. Più tardi ti chiamo e domani torno a trovarti, promesso».
«Vale’, ti giuro sulla tomba di nonna Concetta che ho la testa vuota. È leggerissima. Controlla, per piacere».

Assecondarlo non mi costava nulla. È da molto che siamo soli al mondo, io, lui e Ade, il mio cane. Quando ero piccola, era il nonno a prendersi cura di me e a stare dietro ai miei capricci, dopo i ruoli si sono invertiti. Mi sta bene così, è il ciclo della vita.
Ho iniziato a tastare la fronte, le tempie e dietro le orecchie in cerca di anomalie. Avevo quasi completato il perimetro, e stavo già per tirare un sospiro di sollievo, quando ho sentito, all’altezza della nuca, una piccola sporgenza, simile a un bozzo. Ho grattato piano con l’unghia e un lembo di pelle si è spostato, lasciando scivolare fuori la linguetta di una cerniera. Sono rimasta pietrificata per qualche secondo. Poi mi sono affacciata in corridoio per assicurarmi che non ci fosse nessuno e ho chiuso la porta. Con delicatezza, ho aperto la cerniera, che attraversava tutta la circonferenza del cranio. Dopodiché, ho sfilato via la pelle e me la sono rigirata tra le mani. Assomigliava a quelle calotte usate dagli attori per interpretare personaggi calvi.

«Hai visto!», ha esclamato nonno, trionfante.

Al di sotto della calotta c’era una placca di metallo sferica con il segno di una filettatura. Era liscissima sotto le dita e non riuscivo ad afferrarla. Ho individuato una confezione di guanti monouso sopra l’armadietto. Dopo averli indossati, sono riuscita a fare presa sulla placca e l’ho svitata con cautela. Anche quella me la sono rigirata tra le mani, era leggerissima. Lo strato successivo era costituito da due fascette di metallo: una andava dalla fronte alla nuca e l’altra da un lato all’altro della testa, poco al di sopra delle orecchie. Erano posizionate a incastro  e s’incrociavano al centro, come quei sostegni di cartone che si usano per non schiacciare i vassoi di dolci d’asporto. Proteggevano un materiale spugnoso, simile a gommapiuma.

«Toglilo, togli tutto, voglio sapere cosa ci sta alla fine!»

Ho fatto come diceva, sfilando le fascette e poi uno per uno gli strati di gommapiuma, spargendoli sul letto. Sono arrivata al fondo, l’altra metà della placca metallica, lucidissima. Al suo interno non c’era altro che la mia immagine riflessa deformata, un pesce palla basito.
«Ah, lo sapevo! Così imparate a trattarmi sempre come un vecchio rincoglionito!»
«Nonno, abbassa la voce! Dobbiamo capire che succede. Per quanto ne sappiamo possono essere stati loro a ridurti così».
«Peggio per loro! Mi sento benissimo. È da giorni che non prendo le medicine».
«Come sarebbe che non prendi le medicine!»
«Per caso. Qualche giorno fa l’infermiera era più distratta del solito, la pillola mi è scivolata di mano ed è caduta per terra. Lei era già andata via, nessuno poteva aiutarmi a raccoglierla. Dopo un po’ mi sono accorto che mi sentivo meno annebbiato e allora ho deciso di smettere di prenderle. Guarda, sono tutte nascoste nella federa del cuscino!»
«Shhhh. Stai calmo. Mettiamo tutto a posto, per ora dobbiamo fare finta di niente. Capito?»

Non è stato facile, in primo luogo perché ero stupita, ma soprattutto perché ricomporre il puzzle 3D dei pezzi di gommapiuma era complicato, un po’ come quando si tenta di riporre un sacco a pelo nel suo involucro. I pezzi uscivano da tutte le parti, si espandevano e mi rimbalzavano addosso, ma dopo diversi tentativi sono riuscita a venirne a capo. Nel frattempo, nonno se n’è stato seduto, serafico, senza protestare. Ho riavvitato la calotta e chiuso con cura la cerniera della pelle, assicurandomi di non imprigionare qualche lembo.
«Allora, nonno, se cerco di farti uscire ora, si insospettiscono. Devo andarmene e cercare di capirci qualcosa, poi torno a prenderti. Nel frattempo, devi promettermi di non fare il pazzo. Mi raccomando, non attirare l’attenzione».
Lui ha promesso. Ho gettato un’ultima occhiata alla stanza per assicurarmi che ogni cosa fosse al suo posto. La vecchia poltrona grigia, l’armadietto di latta, il pavimento asettico, il lettino essenziale di ferro battuto, il nonno, seduto in punta come sull’orlo di un precipizio, con le labbra arricciate da bimbo corrucciato. Sono uscita cercando di ostentare indifferenza, nonostante mi sentissi come un t-rex in un negozio di porcellane, traballando sugli stivaletti col tacco che avevo avuto la malaugurata idea di indossare. Ho salutato la receptionist con grande disinvoltura, assicurandole che lui si era calmato.

Sono in macchina da qualche istante, afferro il volante, chiudo per un attimo gli occhi, faccio un respiro profondo fin dentro la pancia, come mi ha insegnato la mia maestra di tai chi. Piego le dita delle mani e poi le stendo, una per volta, contandole con attenzione meticolosa. È un trucco che usavo da bambina per capire se stavo dormendo oppure no quando facevo un brutto sogno. Riesco ad arrivare fino alla fine del conteggio, vuol dire che sono sveglia. Mi assale un dubbio tremendo. Sciolgo i capelli intrecciati e inizio a tastare la cute. Sembra essere tutto a posto, faccio un altro bel respiro. Ora devo fare qualcosa, però. Telefono al lavoro e invento un malessere improvviso e contagioso per assentarmi e prendere tempo. Sì, Jessica richiamerò il cliente Tiziocaio. Ti ho prenotato un appuntamento dall’estetista per domattina alle 9:30. No, non ho ancora risolto il caso del presunto rapimento di Britney né decodificato il messaggio di aiuto che si trova nel suo ultimo post Instagram. Certo, la foto del tabellone di una partita a Scarabeo non può che essere un messaggio in codice per i fan.
Arrivo a casa, mi preparò un tè verde. Ade mi vede pensierosa e mi appoggia il muso sulle gambe. Decido di portarlo a passeggio, in genere mi aiuta a riflettere. Cammino cercando di svuotare la mente. Ade è un meticcio nero, ha la corporatura di un cane da caccia ed è sempre vigile, in questo ci assomigliamo. Quando rientriamo, provo a fare delle ricerche in rete. Gli unici risultati sono video di scene tratte da film di fantascienza di serie B e siti per la vendita di gommapiuma all’ingrosso. Non so come procedere. Odio tutto ciò che interferisce con la mia routine. Amo la routine, mi rassicura. Di sicuro mi verrà una colite nervosa. Forse dovrei avvertire qualcuno di questa situazione? Di amici non ne ho molti, diciamo pure che se penso a una persona che sia amica proprio amica me ne viene in mente solo una: Marzia, che da cinque anni vive a Valencia. Ci sentiamo comunque tutti i giorni e un paio di volte all’anno vado a trovarla o ritorna lei. Ho anche una specie di ragazzo, Paolo. Fa l’istruttore di fitness in palestra. Ci vediamo un paio di sere a settimana, andiamo a mangiare una pizza, passo la notte a casa sua, torno a casa mia. Non parliamo molto, io sono una tipa di poche parole, e forse è proprio questo a piacergli di me. Ma come posso essere sicura che non mi prendano per matta? Alla fine, decido di mandare un messaggio criptico a Marzia: Cetriolo, che è la nostra parola in codice per sottintendere: situazione spinosa, non stare in pensiero se non ci sentiamo per un paio di giorni. È una ragazza in gamba, difficilmente si lascerà fregare il cervello da qualcuno. Quanto a Paolo, stabilisco che è sacrificabile.
È ormai pomeriggio inoltrato.
Afferro il telefono e leggo distrattamente, ma poi subito più attenta, una notizia ANSA: Napoli – casa di riposo Salici Sereni: gli anziani ospiti prendono in ostaggio il personale e si barricano all’interno.
Tipico di nonno. Mentre io mi scervello e rifletto razionalmente sulla situazione, valutando tutte le soluzioni possibili e soppesandone le conseguenze, lui è già passato all’azione. Che giornata!
Decido di mettere in pratica i fondamentali insegnamenti derivanti dalla mia grande esperienza con serie e film dell’orrore: a) Non perdere tempo; b) Non fidarti di nessuno (escluso il nonno, sia chiaro); c) se siete in gruppo non dividetevi (nel mio caso il problema non si pone). Il cane da caccia ultra-intelligente ce l’ho già.
Afferro un borsone e ci butto dentro soldi, un po’ di vestiti, una racchetta, un accendino, un rotolo di spago, cibo per cani, cibo per me, una torcia e una borraccia. Indosso leggins, felpona e vecchie scarpe da ginnastica logore ma comode.
Guido fino alla casa di riposo, ma all’entrata trovo ad attendermi una folla di auto, agenti di polizia e giornalisti appostati. Mi ricordo dell’esistenza di una porta di servizio ormai in disuso. Parcheggio in lontananza per non dare nell’occhio e attraverso a piedi un boschetto poco frequentato adiacente alla struttura. Lascio Ade di guardia e mi avvicino con circospezione alla porta. Purtroppo, è chiusa da un grosso catenaccio. Mi siedo per terra in preda allo sconforto, pronta a un nuovo ciclo di rimuginio.
«Vale! Valeria!»
«Nonno!»
Eccolo lì, al di là della grata di una finestra del piano terra. L’imbarazzante stato di vuoto che sembrava provare qualche ora fa, è sparito. Appare molto divertito dalla situazione e non fa che ridacchiare con aria cospiratoria. Ha le guance dipinte con strisce rosse e nere, come segni di guerra, e indossa un boa di piume viola.
«Nonno! Che avete combinato?»
«Non ti preoccupare, è tutto sotto controllo, ma tu devi scappare. Tieni, qui ho disegnato una mappa per attraversare le fogne». Mi passa un foglietto arrotolato attraverso una delle fessure.
«Le fogne».
«Sì sì, c’è un passaggio nel Cimitero delle Fontanelle. Per accedere, solleva il teschio del Capitano. Spostalo con delicatezza e rivolgigli qualche parola gentile, è un tipo vendicativo. Sottoterra troverai dei membri della Resistenza ad aspettarti. Con loro sarai al sicuro».
«La Resistenza».
«A quanto pare ero uno dei pochi a non averci capito niente. Osvaldo, che fa tanto il bacucco rincoglionito, sapeva tutto da tempo. Erano pronti per il coup da settimane. Ora che abbiamo alcuni di loro in ostaggio, possiamo negoziare».
«Ma loro chi?»
«Gli Estrattori. Una corporazione potentissima. Si infiltrano tra le persone svolgendo mansioni ordinarie. Ti svuotano la testa per rubarti i sogni».
«E che se ne fanno dei sogni?»
«Ora è troppo lungo da spiegare, bambina. Non c’è tempo da perdere. Con i sogni, comunque, ci si può fare un sacco di cose. Butta il cellulare nel primo cassonetto che trovi, così non sarai rintracciabile, e vai».
«Non ti lascio qui».
«Stai tranquilla! Abbiamo una scorta a vita di gelatine alla frutta e champagne analcolico. Ora scusami, ma mi aspettano per un trenino conga nella sala comune. Mi raccomando, vai lì subito e non fermarti a parlare con nessuno finché non arrivi, può darsi che qualche emissario degli Estrattori sia già sulle tue tracce. Ah, dimenticavo, prendi questo anello, te lo manda Osvaldo, ti tornerà utile. Hai un’arma?»
«Uhm, ho una racchetta».
«Meglio di niente, usala di taglio».
«Ti voglio bene».
«Io ti voglio bene, stellina».
Mi sfiora le dita attraverso la grata, sorride, scompare dalla mia visuale.
Resto per un attimo a rigirarmi tra le dita l’anello: al posto di una classica pietra c’è un dado a dodici facce di quelli che si usano per i giochi di ruolo, giallo semitrasparente. È particolare, come Osvaldo del resto. Vive nella casa di riposo da diversi anni, ma nonostante ciò è sempre vestito di tutto punto in stile dandy. Parla lisciandosi i lunghissimi baffi bianchi e ha sempre qualche storia interessante da raccontare.

Mi allontano in fretta. Non ho molta scelta se non fare come mi è stato detto. Decido di abbandonare l’auto e procedere a piedi, è più sicuro. Con il sole ormai calante alle spalle, mi inoltro tra stradine ignote, gradini e ripide salite, in cerca del passaggio che mi condurrà alle fogne e, spero, alla Resistenza. Non c’è molta gente in giro, ma vado in paranoia ogni volta che incrociamo qualcuno, convinta che sia un Estrattore. Spero che la presenza di un grosso cane nero li tenga lontani.
Finalmente arrivo al Cimitero. Per fortuna non c’è sorveglianza. Non appena superato l’ampio ingresso a forma di trapezio, la penombra e l’umidità del luogo mi trasmettono una grande calma, le alte pareti di tufo mi fanno sentire contenuta, protetta. Lo sguardo delle cavità orbitali vuote delle migliaia di teschi impilati mi trasmette sicurezza. Richiamo Ade, entrato al galoppo prima di me. Sbuca da dietro l’angolo con in bocca un osso lungo, forse i resti del braccio di qualcuno. Non me la sento di dargli torto.
Non vengo qui da molto tempo, da quando ero bambina. Il nonno mi aveva raccontato che alcune persone adottano un teschio chiedendogli protezione o un favore in cambio. Effettivamente, osservando con attenzione, si può notare che alcuni teschi ricevono un trattamento migliore di altri. Sono puliti, lucidati addirittura, appoggiati su cuscini o fazzoletti ricamati e circondati da oggetti di ogni tipo: rosari, gioielli, piccole croci, giocattoli, sigarette, candele, monete. Non li ruba nessuno, perché nemmeno i ladri più incalliti hanno il coraggio di incorrere nell’ira di queste anime pezzentelle.
Mi aggiro in cerca del Capitano. Sono svariate le leggende sul suo conto. Pare che abbia bruciato a morte due novelli sposi che avevano osato prendersi gioco di lui. Finalmente lo vedo, è uno dei pochi a essere protetto da una teca di vetro, alla quale sono appesi numerosi rosari. A questo punto, non sono sicura di come procedere. Con esitazione apro lo sportello della teca.
«Salve», dico, senza rivolgermi a qualcuno in particolare, e di certo senza aspettarmi una risposta.
«Oh bella, Vale’».
Ok, un oggetto inanimato mi ha risposto. Ma non è tanto questo a turbarmi. Tutto mi sarei aspettata, tranne che un teschio della Sanità, nel cuore di Napoli, avesse l’accento romanesco. Una luce rossa pulsa al suo interno.
«Che stai a guarda’?»
«No, niente, la trovo bene».
«Tu invece stai da schifo. Se me chiedevi la grazia, t’aiutavo a trova’ un fidanzato mejo».
«Uhm, è che al momento ho altre priorità».
«Seh, mo se dice priorità. I sogni nel cassetto fanno la muffa, cara mia».
«Ok… Non che non mi faccia piacere intrattenermi con lei, è che io…»
«Certo, te c’hai ragione. Sti regazzini di oggi so’ inaffidabili, come quell’artro che qualche decade fa me venne a ‘nfila’ un bastone nell’occhio. Ma te pare?»
«Un comportamento senza dubbio disdicevole. È che io cerco un passaggio per le fogne, dove pare si trovi la Resistenza. Non è che saprebbe dirmi qualcosa a riguardo?»
«E che ne so io. So’ un teschio, mica un veggente».
«Ah. E le dispiace se la sollevo da dove si trova? Provo a capire cosa fare, poi la rimetto a posto».
«Visto ce sei, famme ‘na grattata».
«Con piacere. Spero di farcela».
«Daje».
La luce rossa si spegne, tutto tace. Timidamente gli gratto la cima del capo. Non succede niente. Lo sollevo e lo estraggo dalla sua sede. Al di sotto trovo una piccola leva di legno sulla cui sommità c’è un pomello con una rientranza a forma di pentagono. Provo a tirarla, spingerla e spostarla in tutte le direzioni, ma non si muove di un millimetro. Ade mi osserva con fare perplesso mentre mastica una falange. Mi ricordo dell’anello di Osvaldo. Lo tiro fuori da una taschina del borsone. Infilo la faccia superiore del dado nella rientranza, combacia perfettamente. A quel punto la leva penetra nel terreno e attiva quello che sembra essere, dal suono, un meccanismo a ingranaggi. Poco più in là si apre una botola nel terreno, oltre la quale intravedo i primi gradini di una scala di marmo. Ade mi precede, tuffandosi nell’oscurità. Io penso prima a rimettere a posto il Capitano. Lo ringrazio anche. Poi mi avvio con passo incerto lungo i gradini.
Prima di rovistare nel borsone in cerca della torcia, mi resta una cosa da fare. Mentre la botola si richiude sopra di me, piego e stendo le dita. Sono sempre dieci.


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