Come voleva lei

di Giulio Iovine
Copertina di Francesco Pavignano

When once we are buried you think we are gone
But behold me immortal!

J. A., When Winchester races (15 luglio 1817)

Tom mi aveva chiesto di scendere in città, nel suo ufficio, e fare un lavoro per lui. Una di quelle cose che so fare solo io (occhiolino). Siccome non avevo voglia di farlo, ma nemmeno di dirgli di no, provai a rendergli le cose più complicate, pretendendo – se voleva il lavoro fatto bene – che si presentasse lui a casa mia, sulla maledetta cima di una collina ventosa, alle cinque del mattino di una brulla giornata di novembre. Me lo vidi parcheggiare in giardino alle quattro e cinquantacinque, e seppi di essere perduto.

Aveva con sé un contenitore di circa un metro per due, sigillato.

«Sei mattiniero, eh».

«Eh».

«Permesso…?»

«Vivo solo, entra pure».

«Non c’erano i gatti?»

«Sì, ma a quest’ora dormono».

Poggiò il contenitore sul tavolo del salotto. Ci sedemmo davanti ad un tè. Tom digitò il codice, il contenitore si aprì, e io ci guardai dentro. In un angolo c’era un plico di fogli di carta legati assieme con dello spago, e scritti molto fitti, a penna e inchiostro. Il resto del contenitore era occupato da un sacco di tela trasparente, con dentro un mucchio di ossa umane disarticolate.

«Le ossa vengono da Winchester», mi spiegò «e il manoscritto dal King’s College a Cambridge. Mi chiedevano se volevi anche una ciocca di capelli della morta, pare che abbiano qualche zozzeria del genere in un museo in Hampshire. Ho spiegato loro che non sei uno stregone».

«Grazie».

«Dunque, direi che hai tutto quello che ti serve».

«Direi anch’io: ma per fare cosa?»

Mi porse il manoscritto, che sciolsi dal suo spago e sfogliai con delicatezza, come si conviene a un originale. A prima vista pareva un testo in prosa, in lingua inglese, scritto in una corsiva usuale molto ordinata con l’asse visibilmente a destra. Mi cascarono gli occhi sull’inizio, che non mi diceva nulla (in fatto di libri, preferisco i sudamericani agli inglesi):

A Gentleman and Lady travelling from Tunbridge towards that part of the Sussex coast which lies between Hastings and Eastbourne being induced by Business to quit the high Road, and attempt a very rough Lane

Le pagine, di piccole dimensioni, erano state sfruttate in tutto il loro spazio. Non c’erano margini, le righe erano strette, le aggiunte tra le righe scritte in piccolo, le cancellature frequenti. Non avevo a che fare con uno sprecone. Mancava anche un titolo complessivo, ma erano stati notati i numeri dei capitoli – ne contai dodici. Continuando a sfogliare, mi accorsi che l’ultimo si interrompeva bruscamente a metà di una scena, dopo la frase:

Poor Mr Hollis! – It was impossible not to feel him hardly used; to be obliged to stand back in his own House and see the best place by the fire constantly occupied by Sir H. D.

March 18.

«Un incompiuto, commentai ad alta voce».

Tom cominciò a disporre le ossa sul tavolo, su un tappetino di seta. C’era il torace al gran completo con le spalle e le braccia, una tibia, un femore, il bacino, mezza colonna vertebrale e – completamente intatto – il cranio.

«Sì. Purtroppo l’autrice è morta prima di potere finire questo romanzo, Sanditon. Ma siamo convinti che al momento della morte avesse già in mente come farlo finire e buona parte delle scene principali. Se riusciamo ad acchiappare anche solo la trama, sarà un colpo gobbo».

«Queste sono le sue ossa, presumo».

«Quello che ne resta».

«Quando e di cosa è morta?»

«18 luglio 1817. Non si sa di cosa esattamente. Si pensava al morbo di Addison, ma è più probabile che fosse un linfoma o qualcosa del genere».

«E siamo sicuri che avesse già in mente come farlo finire? Il romanzo, dico».

«Noi riteniamo di sì. Tieni conto che si è trattato di una malattia debilitante, molto lunga e dolorosa: tra i primi sintomi e l’agonia è passato almeno un anno e mezzo. Il romanzo precedente a Sanditon era stato terminato nell’agosto del 1816. Questo qui lo iniziò a fine gennaio e lo interruppe a metà marzo, probabilmente perché stava troppo male; tre mesi dopo era morta. Insomma, capisci che ha avuto tutto il tempo sufficiente per pensarci. Non le è caduta la stanca mano sull’eterne pagine».

«Ti prego», io e la poesia non siamo buoni amici. Specie quella vecchia.

«Scusa. Insomma: puoi farlo?»

«Ci posso senz’altro provare».

«Ne ero sicuro».

«Ti interessano anche altri dettagli, oltre a tutto quello che trovo su Sanditon

«L’unica cosa che interessa a me, e ai gentiluomini che rappresento, è il libro».

«Niente altarini, niente impurità, pettegolezzi. Niente ultimi pensieri».

«Niente. Solo il libro».

Dai che in fondo ti sta simpatico, pensai. E senza aggiungere altro, cominciai a fissare le ossa che avevo sotto il naso.

Se conoscete il principio con cui funzionano i microscopi, o i telescopi, saprete che è tutta una questione di lenti. Non si modifica il mondo che osserviamo (a meno che non siate devoti alla teoria quantistica); lo si rende solo meglio osservabile di quello che sarebbe con i nostri occhi umani. Magari all’inizio non vedete nulla, perché è tutto sfocato e ci vuole tempo per capire come orientare le lenti. Ma alla fine, riuscirete a metterlo a fuoco.

I miei occhi sanno fare una cosa molto simile, ma non solo sullo spazio. Anche sul tempo.

A poco a poco cominciai a vedere qualcosa ricoprire quelle povere ossa. Tessuto muscolare, perlopiù – fibre ormai atrofizzate, di chi viene mangiato da mesi da un cancro. Poi fu la volta dei nervi, di cui distinguevo sempre più ramificazioni. Poi i tessuti, le ghiandole – la pelle livida e gialla di una moribonda. Portai lentamente i miei occhi dalle ossa delle braccia allo sterno, alla clavicola, alla mandibola, dentro le narici, sempre più vicino, sempre più indietro nel tempo, quando quella calotta cranica ospitava un cervello.

Ed eccolo! Maestoso nel suo antro buio, percorso da correnti elettriche, da tempeste di ormoni e neurotrasmettitori – il cervello di una scrittrice come era a poche ore dal coma e dalla morte. Avevo messo a fuoco, finalmente.

Mi pareva chiaro che il danno era fisico più che neurologico. La sofferenza, il dolore avevano torturato quel cervello per mesi, ma il grosso dei suoi contenuti – e del suo potenziale – era ancora tutto lì. Vagai con lo sguardo verso il sistema limbico, verso l’ippocampo, insomma dove stavano i suoi ricordi. E di nuovo sprofondai con lo sguardo in quell’immaginifico, quel colossale cervello, tale e quale a com’era in quel giorno di duecento anni fa in cui si era spento per sempre. Ecco finalmente i neuroni, incastrati l’uno con l’altro in una foresta di filamenti, nel lampeggiare degli impulsi elettrici. Tutte le informazioni che mi servivano erano lì.

Senza pensarci e senza distogliere lo sguardo, dissi:

«Tom: carta e penna, per favore».

«Trovato qualcosa?»

«Sono su una buona pista».

Sempre più vicino, le orbite degli elettroni, l’oceano confuso delle particelle. Vedevo davanti a me, in forma organica, i ricordi di una vita intera. Non si trattava che di tradurre quelle informazioni in linguaggio. Ed ecco un altro trucco che mi riesce molto bene. Cominciai ad annotarmi tutto quello che aveva a che fare con l’ultimo romanzo. C’erano molte frasi vagabonde, molte battute ad effetto che avrebbe voluto mettere in bocca ai personaggi, molti dettagli della trama su cui era indecisa. Presi nota, confusamente – non vedevo dove scrivevo, Tom mi cambiava i fogli quando li finivo. Sì, sì, sì – c’era molto materiale, aveva pensato a lungo a questo romanzo. Lady Denham sarebbe morta alla fine – di questo era sicura. Non sapeva di cosa, però – forse un febbrone dopo aver insistito a bere latte di asina, o a fare un bagno in mare a dicembre a settant’anni. I soldi andavano tutti a Clara, doveva essere un colpo di scena – ma ormai Clara aveva mandato a quel paese Sir Edward Denham, evidentemente troppo cretino persino per il suo amore, e avrebbe sposato – chi? Un nuovo personaggio di cui non riuscivo ad afferrare il nome. Charlotte Heywood ovviamente sposava Sydney Parker. Ma solo dopo aver appurato che non aveva fatto la corte all’ereditiera mulatta, Miss Lambe. Diana Parker sarebbe morta a metà della trama (pure? Ammazza che ecatombe ‘sto romanzo). Ah no, avevo capito male – credendo Clara povera, Edward Denham avrebbe fatto la corte a Miss Lambe, che però lo mandava a fanculo, lui tornava da Clara ora che la sapeva ricca ma lo mandava a fanculo pure lei, veniva arrestato per debiti, sua sorella stava di merda. Quanta amarezza.

E fu lì che ebbi una fitta tremenda di mal di testa.

«Ahia, esclamai».

«Che c’è?»

«Niente. Una fitta alla testa».

«Ti passo un brufen?»

«È nel cassett-ah

Altra fitta. Chiusi gli occhi.

Quando li riaprii, curiosamente, avevo davanti a me le povere vecchie ossa. Niente più cervello, carne, muscoli, tessuti, niente. Volevo aprir bocca, ma non mi riuscì. Senza muovermi mi guardai intorno. Non so perché ma avevo la netta sensazione che casa mia non fosse abbastanza pulita.

«Va tutto bene, Franco?»

Di nuovo la fitta alla testa.

«Non capisco, con i soldi che ho, perché non tengo meglio il mobilio».

Silenzio.

«…in che senso, Franco?»

«È davvero poco delicato da parte mia, ma non riesco a trattenermi dal dire che non vedo il punto di avere una casa tutta per me, senza sorelle né madri né cognate tra i piedi, e tenerla così sciatta».

«Non ti seguo».

Irrilevante, pensai: mi seguo io. Ero improvvisamente conscio di avere addosso un paio di pantaloni, il che mi lasciava molto a disagio. Non mi dava meno fastidio il dettaglio di avere, sopra, solo una maglia e una canottiera, senza corsetto: praticamente nudo. Quando feci caso, come se li sentissi per la prima volta, che avevo dentro le mutande degli stranissimi ed esotici genitali maschili, mi parve di svenire per la vergogna. Ma che imbarazzo, pensai, ad avere questa cosa appesa tutto il tempo sotto la pancia. Come fanno a camminarci…?

«Franco, stai bene?»

«Carta e penna, prego».

«Certo, eccole qui».

Non c’era tempo. Come avevo finito, quel pomeriggio…? Afferrai il manoscritto.

«Piano con quella roba. È fragile».

Sì, sì, certo. La visita a casa di Lady Denham. Charlotte e Mrs Parker sono nella sala, aspettano che arrivi la vecchia strega. Hanno visto Edward Denham e Clara Brereton dirsi le cose carine sul ciglio della collina erbosa. Mamma mia come sono diventata audace dopo i quaranta. Prendo i fogli di carta che mi ha passato Tom – afferro la penna – e comincio a scrivere, calcando su un foglio liscio e robusto quello strano oggetto che non devo mettere nel calamaio.

… the best place by the fire constantly occupied by Sir H. D. – The very same Impression of strong Misuse towards Lady Denham’s first Husband, could not abandon Charlotte when the Lady herself entered the Room, with a thunderous Ejaculation in favour of her poor dear Sir Harry and his beloved Portrait whose Cost alone –

«Franco, tutto bene?»

«Abbastanza bene, oso dire».

«Ehi, ma che è tutta questa roba che stai scrivendo?»

Non risposi. Tom guardò più da vicino.

«Ma è fantastico. Stai continuando il romanzo. Hai scovato delle parti inedite. Non vuoi magari che ti passi il tuo portatile? Ci metteresti di meno».

«Non so cosa sia un portatile».

«Non sai cos’è il tuo portatile?»

La domanda era irrilevante. Non risposi. Sentivo solo lo scorrere silenzioso di quella strana penna su quello strano foglio. Certo scrivere così era davvero facile, non mi dovevo fermare ogni cinque secondi per intingere. Ero libera di mettere una parola dietro l’altra, una frase dietro l’altra. Il primo ripensamento lo ebbi alla fine della seconda pagina. Via, correggere. Non c’è tempo, non c’è tempo.

«Franco, a chi ti stai riferendo?»

Tom si era alzato dal tavolo e si era seduto sulla poltrona del salotto, dall’altra parte della stanza. Mi fissava nervoso.

«Il titolo non è Sanditon», risposi dopo cinque minuti: «È The brothers. Sì, c’è la stazione balneare, ma qui quello che m’interessa sono i Parker. Chiaro? La loro famiglia».

Tom non rispose.

«Franco, come fai a non sapere come si usa il tuo computer…?»

«Parola mia, siete un uomo di qualità più solide che pronte», esclamai senza smettere di scrivere.

Si alzò e mi venne vicino.

«Franco, lei è morta. È morta duecento anni fa. E i morti sono morti. Tu vedi nel tempo, non parli con i morti, perché i morti – per definizione – non tornano. Vero?»

Continuai a scrivere.

«Franco, ti prego, dimmi che non sto parlando con Jane Austen».

Lo mandai via con un gesto seccato della mano. Un gentiluomo rispettabile, senza dubbio – ma se non riusciva da solo a capire in che condizione mi trovavo, non meritava il complimento di una risposta razionale.

È più o meno in quel momento che ho smesso di ricordare alcunché. Cosa sia successo dopo, mi è stato raccontato. Pare che io sia rimasto seduto a quel tavolo un mese, senza quasi mangiare né bere, e senza smettere per un attimo di scrivere. Tom, preoccupatissimo, ogni tanto mi metteva vicino un bicchiere di latte, un piatto con pane e salame, una ciotola con qualche fetta di mela, insomma quello che avevo in frigo. Mi ha raccontato che chiedevo insistentemente del tè, che non ho in casa perché non lo bevo mai, e gli è toccato andare in macchina fino al paese vicino per procurarmelo. Mi alzavo soltanto per andare in bagno, ogni volta di corsa e con impaccio, come se non sapessi cosa aspettarmi dal mio corpo o come usare gli oggetti che trovavo nella stanza. Non rispondevo a nessuna domanda e parlavo solo se non potevo farne a meno. Insomma, alla fine del mese, dopo avere terminato The brothers e averlo riletto, corretto e provvisto di una sigla finale (finis), Tom mi ha raccontato che ho lasciato cadere la penna, vomitato a proiettile – per fortuna, non addosso a lui – e sono caduto a terra in coma.

Mi sono svegliato alcune settimane dopo in ospedale, malconcio e stremato. Durante la convalescenza, che è stata lunga e piena di cibi liquidi, ho dovuto chiedere esplicitamente che nessuno mi venisse a disturbare, neanche Tom. Sono abituato a stare da solo, tanto più quando devo riflettere su esperienze – diciamo, inedite. Continuo tuttora a sentire nella mia testa il suono e il colore di emozioni che non mi appartengono – quelle povere ossa impotenti – la furia gelida di chi muore a quarantun anni con tante storie ancora da raccontare, e la migliore rimasta interrotta dopo soli dodici capitoli – e improvvisamente qualcuno che sbircia la tua agonia – l’impennarsi della speranza – la fame di eternità.

Ho aperto la mia email quando sono tornato a casa, ieri sera. Tom mi ha scritto che hanno pubblicato The brothers, l’ultimo romanzo di Jane Austen completato dall’autrice in persona. Verrò pagato il doppio di quanto pattuito e ho tutta la gratitudine sua e dei gentiluomini che rappresenta. Fanno piani per ripetere il giochetto con altri autori – naturalmente, aggiunge Tom, se me la sento. Il giorno in cui The brothers è arrivato nelle librerie centinaia di migliaia di lettori sono usciti per strada nudi, cosparsi di olii e lubrificanti, ubriachi o drogati, e tra urla canti e fornicazione hanno messo su un rave party di un mese. Mi hanno detto che solo se sei un lettore di zia Jane puoi capire questa sensazione. Tanto contento per loro, eh – non ho nulla contro l’entusiasmo, semplicemente non mi riesce di condividerlo a pieno perché – come già detto – in fatto di narrativa preferisco di gran lunga i sudamericani agli inglesi. Tant’è che dopo aver risposto alla mail mi sono messo a letto a leggere La neve dell’ammiraglio di Mutis, e buonanotte al secchio.

E tuttavia, invece di dormire, eccomi al buio sotto le coperte, con gli occhi spalancati.

Oh, la volontà di ferro di quella stronza. Soffriva orribilmente da mesi, ma che dico, da anni. Scivolava ormai verso il coma e la morte, e la fine del dolore. Sembrava così mite, così rassegnata a tagliare i ponti con la vita. Ma nel momento esatto in cui si è accorta che la stavo osservando, ecco che mi stupra il cervello, prende possesso delle mie facoltà mentali e fisiche, e non c’è stato verso di togliersela dalle palle finché non ha ottenuto esattamente quello che voleva, esattamente come lo voleva.


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