Quella volta che ero a pezzi e mia madre seppe cosa fare

di Maria La Tela
Copertina di Francesco Pavignano

Mia madre mi tiene in uno scantinato, dice Nessuno deve vedere i tuoi segni. Da sempre le sue parole generano in me decalcomanie inconsce che mi trasformano senza che me ne renda conto; mentre mi parla, cerco di concentrarmi sul verso degli storni che passano sulla nostra casa, vorrei che non toccassero terra, che non smettessero mai di urlare; li supplico di restare lì, dove nessuno può raggiungerli. La voce di mia madre riesce a manifestarsi anche sul mio corpo: in principio è come uno sfioramento, poi la sensazione si fa più insistente fino a diventare formicolio, la parte di pelle interessata si arrossa e l’immagine comincia a farsi nitida attraverso contorni di piccole gocce di sangue; in quel momento il dolore è insopportabile. Ogni volta che vengono fuori i segni, lei mi dice di pentirmi dei miei peccati, io invece ci sputo sopra e asciugo con un fazzoletto. Quando un dolore si dissolve, ci si sente invincibili: appena i segni smettono di pulsare mi convinco che non sia tanto male vivere in uno scantinato con una branda e la tazza del cesso in un angolo. Mia madre scende di sotto ogni giorno, si ferma sul terzo scalino e mi chiede se ho pregato, non rispondo mai, aspetto solo che lasci il vassoio con le solite quantità minime di cibo. Il deperimento del mio corpo mi impedisce di liberarmi, di tentare qualunque resistenza fisica nei suoi confronti e lei, come se mi leggesse nella mente, fa in modo che questa condizione resti permanente costringendomi anche a un giorno di digiuno settimanale in cui lascia sullo scalino solo una bacinella d’acqua.

Anno primo. Giorno duecentonovantasette. Tengo un diario in mente di cui non scrivo una riga. Ho contato i segni, lei li chiama miracoli, diciannove, venti, ventuno; rappresentano simboli sacri o figure penitenti, sono quello che esce dalla sua bocca quando mi parla. Uno di quelli che mi porto sul petto, raffigura due occhi. Ieri ho pianto pensando alla tua colpa dice; come impazzita, copro e scopro le orecchie con le mani per distorcere i suoni, ma quello stesso pomeriggio la pelle dello sterno comincia a lacerarsi e io a contorcermi. Lei scende nel seminterrato, accende la luce e vuole che le mostri il nuovo miracolo. Mettiti sotto il neon, dice dallo scalino. Non ne ho la forza, rispondo; senza spostarmi dalla branda, alzo solo il maglione per mostrarglielo; se non faccio quello che mi chiede, mi nega anche il poco cibo e l’acqua. Tu non puoi accorgertene guardando dall’alto, dice, sono occhi che supplicano, devi pregare di più; spegne la luce e richiude la porta a chiave. Passo un dito sul contorno di quegli occhi, mi vengono in mente gli sguardi dei fedeli sotto le croci, mi costringo ad alzarmi e comincio a sgomberare la parete più nascosta rispetto alle scale.

Anno primo. Giorno trecentosei. In nove giorni ho tracciato sul muro un pezzo della croce che voglio fare; tengo alto il volume della radio e guardo l’orologio per controllare il momento dei pasti in cui lei scende. Faccio fatica a scavare nel muro con i manici delle posate di plastica, ma sono riuscita a procedere abbastanza dritta attaccando pezzi di nastro adesivo lungo il percorso; di questo passo, la croce sarà finita in un mese. Mi sento concentrata, progettare la mia crocifissione è l’unica cosa che mi tiene in vita. Ho trovato una corda, la legherò a una delle travi basse del soffitto, farò un cappio e ci infilerò i polsi, stringendo più forte che potrò; me ne starò lì senza toccare più cibo e quando arriverà la fine, lei dovrà venire giù per forza e chiedere perdono sotto la mia croce.

Anno primo. Giorno trecentodiciassette. I miracoli non mi toccano dall’ultima volta che sono apparsi gli occhi, la ferita si è rimarginata lasciando un disegno rosato sulla pelle, come è accaduto alle altre. È notte fonda, ascolto il vento fissando la lampada che ho accanto al letto; all’inizio, quando ci siamo trasferite, odiavo il silenzio della campagna intorno alla casa, mi dava un senso di solitudine che non riuscivo a mandare via. Poi è arrivato il peccato, mia madre mi ha tolto il cellulare e ha cominciato a parlare di continuo o io ho cominciato ad ascoltare di continuo e la campagna muta si è fatta salvezza. Il giorno che è cominciata la mia fine, mia madre non è stata mai in silenzio; eravamo in macchina di ritorno a casa, ha cominciato dicendo tu, con disgusto, poi ha aggiunto qualche schifo e un bestia e un sacco di volte peccato mortale, mentre nei campi il giallo delle spighe non faceva che parlarmi di vita che comincia e finisce, della vita della creatura che mi portavo dentro, cominciata e finita. Mi guardavo in quella macchina come se fossi stata in uno di quei campi, uno spaventapasseri nella luce del sole, sotto la pioggia, nel silenzio e l’unica cosa che gli si chiede è di stare fermo. Volevo stare ferma, volevo che mia madre, i medici, i compagni di classe, nessuno più si accorgesse di me e del mio stare ferma. Arrivate a casa, abbiamo lasciato la macchina nel viale, Vai di sotto e porta su una cassetta d’acqua ha detto; ho fatto le scale, lei ha chiuso a chiave la porta e mi ha lasciata qui per sempre.

Il mattino in cui si ferma l’orologio, mia madre mi sorprende a ripassare il solco della croce sul muro. Lascia il vassoio del pranzo sulle scale, si sporge con tutto il busto dalla ringhiera e urla Lèvati di lì! Vieni sotto la luce! Con il cuore per aria, vado sotto il neon, lei resta sulle scale con il respiro affannato. Che fai? Hai rovinato il muro e lo farai tornare com’era. Mi sale in gola una risata isterica. Faccio un disegno, se non lo vuoi, dovrai scendere in questo buco di merda a sistemare la parete. Lei torna di sopra e fa andare il suo giradischi fino alle due del mattino. Mi lascia digiuna.

Anno primo. Giorno trecentoventinove. Ho trovato i miei vecchi shangai nelle scatole stipate qui sotto, sono grandi, di buona fattura e mi permettono di procedere velocemente con il lavoro. I segni non sono tornati a tormentarmi, stamattina faccio per scendere dal letto e mi accorgo di non avere la mano destra. Non sento dolore, non c’è sangue; il polso è mozzato e uno strato di pelle liscia lo ricopre del tutto. Penso che sia un sogno, metto i piedi per terra e so di essere sveglia, tocco il moncone con l’altra mano, non sento nulla, non provo neppure ribrezzo; forse il corpo mi sta lasciando, da quando ho cominciato la croce, è diventato solo uno strumento. Mi rimetto al lavoro per completare tutto nel giro di pochi giorni.

Anno primo. Giorno trecentotrentaquattro. Mia madre non mi parla da quando mi ha scoperta a scavare, il suo silenzio coincide con la sparizione della mano. Mi sveglio più volte durante il sonno e cerco subito la mano sinistra, per ora è intatta, ma mi riprometto di scavare anche di notte per la paura di perderla prima di finire. Mi metto a sedere sul letto, mi accorgo che entrambi i piedi sono spariti. Le caviglie mozzate non mi fanno male, così come il polso. È opera sua, ne sono certa. Mi lascio scivolare per terra, carponi su una mano e le ginocchia raggiungo la parete e inizio a scavare con foga il muro per arrivare in fretta alla base della croce dove il disegno si chiuderà una volta per tutte. Gratto e penso che con una sola mano non potrò più legarmi al cappio, ma non importa.

Anno primo. Giorno trecentoquarantadue. Mi allontano dalla parete solo per far rotolare giù dal vassoio qualche pezzo di pane o un biscotto aiutandomi con una scopa; non mi serve più neanche il bagno, ho perso in poco tempo entrambe le gambe, parte del busto fino al torace e stamattina il braccio destro. Mia madre non mi ha vista, ieri era digiuno e quando è scesa oggi, mi sono tirata addosso un lenzuolo e ho finto di dormire per terra. Mi mancano venti centimetri per ultimare il lavoro, mi trascino facendo leva sul braccio che mi resta e riesco a finire durante la notte. Sono sfinita, mi addormento qualche ora, al mio risveglio mi sono rimasti solo gli occhi. Mi dico che almeno si trovano per terra sotto il disegno. Non so più che ore sono, vedo la porta aprirsi, mia madre raccoglie il vassoio di ieri e lo porta di là, torna sulle scale e non si accontenta del neon, con una torcia si sporge dal terzo scalino e inizia a ispezionare ovunque: la luce gira in tondo su tutte le pareti e si ferma sulla croce, poi riprende a vorticare senza trovarmi; per la prima volta dopo quasi un anno, mia madre fa tutta la scala fino a terra, si volta ovunque come impazzita, comincia quel suo respiro rumoroso, tira via il materasso dalla rete per guardare sotto il letto, controlla dietro le scatole di cartone e arriva  davanti alla croce. I miei occhi la guardano dal pavimento, è enorme; se facesse ancora un passo mi schiaccerebbe. Osserva la croce con le braccia lungo i fianchi, la luce della torcia rivolta verso il basso mi prende in pieno. Mi vede. Inorridisce. Raccoglie i miei occhi da terra, sembra capire. Punta la torcia più vicina. Ci fissiamo, Lo sapevo che non pregavi, dice, guarda come ti sei ridotta. Non si mette in ginocchio, non chiede perdono, mi porta alla bocca, mi ingoia. Chiudo gli occhi, Sei uno storno, penso, non può toccarti.


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