di Benedetta Iezzi
Copertina di Francesco Pavignano
Ellie Carter a tredici anni decise: sarebbe stata la prima della famiglia a finire gli studi. Nella cittadina arroccata sulla scogliera dove si erano trasferiti quando la madre era in attesa del secondo figlio (a cui se ne sarebbero aggiunti altri quattro, compresa Ellie), la scuola superiore non c’era e per raggiungere quella più vicina bisognava prendere il treno ogni mattino due ore prima dell’inizio delle lezioni. Era bastato questo a far presto desistere i suoi fratelli dal frequentarla. I maschi avevano seguito tutti l’esempio di Frank, il maggiore, aiutando il padre in officina. La figlia femmina più grande della famiglia Carter, Dorothy, era stata l’unica a iniziare la scuola superiore e l’aveva proseguita con risultati altalenanti fino al terzo anno quando l’aveva mollata per sposarsi con il suo professore di matematica, un vedovo di quarantotto anni che, c’è da dire, non si era mai sforzato di far prendere a Dorothy un singolo voto decente nella sua materia. Quando Ellie prese la sua decisione, Dorothy era sposata da appena sei mesi e aveva avuto da qualche settimana due gemelli. Ellie era, a quel tempo, la più giovane della famiglia, sua sorella Charlie sarebbe nata soltanto due anni più tardi, e si ritrovava sola in una casa con dei fratelli troppo impegnati e ormai adulti per dar retta alle sue inquietudini. Certo, Dorothy non le aveva mai dato troppo retta ma era anche la sua unica sorella; con lei si era scambiata vestiti, giocattoli, pettini e fermagli, racconti a tarda notte e Ellie aveva sempre ascoltato le confessioni della sorella maggiore, sforzandosi in ogni modo di essere amata da lei. I gemelli di Dorothy erano maschi, dormivano dentro una culla con la tendina di pizzo, tenevano le palpebre serrate come due gattini ciechi.
«Tornerai a scuola appena saranno più grandi?» le domandò Ellie.
Dorothy rise. «E per farci che?» domandò spostando lo sguardo sui bambini.
«Ma ti piaceva andarci, no?»
Dorothy venne distratta dal pianto di uno dei gemelli. Il neonato spalancò la bocca, prima senza emettere alcun suono, poi sollevò le braccia con le mani chiuse a pugno per strillare a pieni polmoni. Il suo pianto svegliò anche l’altro che immediatamente lo imitò. Dorothy, con l’aria sfinita e soddisfatta insieme, tirò su entrambi i bambini e se li avvicinò al petto. «Ormai riconosco il pianto…» mormorò tra sé «…quando fanno così non hanno fame, vogliono solo un po’ d’attenzione» e così si alzò dalla sedia a dondolo per cullarli camminando in cerchio nella stanza.
«Dicevi di voler fare la maestra», rincarò Ellie, frastornata dal modo in cui Dorothy continuava a girare per la stanza senza fermarsi.
«Non è che sei gelosa, Eleonore? Vedrai che arriverà anche per te», rispose Dorothy. Ellie avrebbe voluto dirle che sì, era gelosa. Perché quand’era bambina avrebbe tanto voluto essere stretta al petto di Dorothy a quel modo, avrebbe voluto che sua sorella avesse con lei quella stessa pazienza di camminare in cerchio per la stanza senza stancarsi, solo per farla smettere di piangere. Avrebbe voluto essere uno dei suoi bambini per starsene rannicchiata contro il suo calore, sentire di poter essere amata da lei.
A diciotto anni Ellie Carter fu la prima della famiglia a iscriversi in università. Scelse letteratura inglese con il desiderio di proseguire fino al dottorato e magari chissà, diventare professoressa in qualche piccola università di provincia come quella che frequentava. I sogni di Ellie non si arrischiavano mai oltre quello che conosceva. Per questo, pensando al suo futuro non immaginava grandi università di città lontane, con tanti studenti e un nome altisonante. Restava sul piccolo, su ciò che lei stessa si era potuta permettere dopo le estati passate a fare la cameriera o la bambinaia o aiutando i figli dei vicini con i compiti, senza mai comprare una camicetta nuova nonostante quella che indossava si fosse scucita, senza mai uscire con le amiche per un brownie con la pallina di gelato alla vaniglia di fianco, senza altro desiderio se non quello di pagarsi da sola l’università. La famiglia era in costante fermento per qualche novità: il matrimonio di James, la nuova automobile di Buddy, la nascita del secondo genito di Frank, il primo giorno d’asilo di Charlie o le sempre più frequenti villeggiature di Dorothy nella casa paterna. In sostanza i genitori di Ellie avevano troppe spese per mantenere anche le sue ambizioni. L’aveva accettato presto e questo le era servito per non perdere tempo prezioso. Nonostante gli sforzi e le rinunce, sarebbe stato impossibile iscriversi in un grande ateneo. Ellie aveva presto accettato anche questo. Aveva lasciato la cittadina sulla scogliera per trasferirsi in un minuscolo dormitorio di un’altrettanta minuscola università di provincia, senza rammarico o pentimento. Il primo anno trascorse ricco d’entusiasmo, nonostante le difficoltà da superare, i pochi risparmi a disposizione, il cappotto troppo vecchio che non la teneva al caldo e la difficoltà degli esami. Aveva persino degli amici, un lusso che non si concedeva fin dall’infanzia. C’erano un paio di ragazze con cui usciva nel fine settimana per raggiungere la città e andare al cinema, c’erano persino dei ragazzi con cui giocava a tennis e con cui studiava nei pomeriggi lenti e pigri della sessione d’esami. Tutto sembrava perfetto, costruito su misura per lei. Alcuni ragazzi l’avevano invitata a uscire, erano i primi a farla sentire carina, piacevole, degna di attirare qualche sguardo e di essere corteggiata, ma lei li aveva rifiutati. Soltanto una volta, in primavera, Ellie si era lasciata convincere da un ragazzone alto e biondo con un grande naso greco, Berry, che l’aveva invitata al cinema e poi l’aveva portata in un diner con le sedie imbottite in cui Ellie aveva ordinato un frullato alla fragola con panna e lui un hamburger con contorno di patatine fritte e salse. Si erano visti in tutto cinque volte. Al termine della seconda uscita, Berry l’aveva spinta contro la parete del dormitorio e facendo pressione con il suo corpo massiccio contro di lei l’aveva indotta a baciarlo. Ellie si era approcciata a quel tipo di frequentazione con distacco, come se Berry e i suoi baci, o le sue mani che vagavano sui suoi fianchi e scendevano sulle cosce, non la riguardassero fino in fondo.
Quando Ellie tornò a casa per le vacanze estive con Berry era già finita e da lui ricevette soltanto un paio di cartoline in cui l’accusava di essere una ragazza senza cuore per averlo illuso e lasciato senza spiegazioni. Dedicò le vacanze alla piccola Charlie. La sua sorellina era l’unica in famiglia ad avere dei bei capelli ricci, di un castano intenso, e Ellie giocava a intrecciare i suoi boccoli con le dita, mentre la bambina si addormentava contro il suo petto. Aveva quasi quattro anni, Charlie, ma non si decideva a parlare. Tutti in famiglia sembravano convinti che prima o poi l’avrebbe fatto all’improvviso, diventando una chiacchierona com’era stato Frank a quell’età o come Dorothy che da bambina continuava a parlare finché non si addormentava per la stanchezza. Ma Ellie non poteva fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe accaduto a tutti loro se Charlie avesse deciso di non parlare mai. Talvolta la interrogava sulla questione e la piccola la fissava con le labbra dischiuse, come a darle la speranza che prima o poi qualche parola sarebbe venuta fuori. Una sera Ellie era seduta sugli scalini del portico, guardava Charlie giocare con i figli dei suoi fratelli, tutti alla fine ne avevano avuto almeno uno e crescevano con il tipico atteggiamento orgoglioso dei Carter, coraggiosi e forsennati com’erano stati i fratelli maggiori di Ellie a quell’età. Uno dei gemelli di Dorothy alzò in aria la pompa dell’acqua e minacciò di annaffiare i più piccoli se non gli avessero obbedito. Si levavano grida e strepiti e risa, l’unica voce mancante era quella di Charlie che li fissava attonita e confusa come se quel rumore le provocasse disagio anziché gioia. A luglio, Ellie portò la piccola al mare. Con i soldi dei lavoretti invernali le comprò un costume da bagno, un cappellino di paglia con il fiocco a pois e paletta, secchiello e formine per la sabbia. Charlie era estremamente indipendente, sotto diversi aspetti non sembrava nemmeno una bambina. Se ne stava in un angolo, abituata a non dover disturbare, intrattenendosi tutta sola con i pochi giochi rimediati. Ellie si chiese se, in fondo, tutti loro, genitori compresi, non chiedessero di continuo a Charlie di crescere in fretta. In quella casa di bambini ne erano passati fin troppi e la pazienza di dar retta a pianti, capricci e domande si era esaurita più o meno alla nascita di James. Ellie si riconosceva nella solitudine di Charlie. Iniziava persino a notare che, in effetti, nessuno si sforzasse di parlare troppo con la piccola. Non aveva mai visto sua madre insegnarle i nomi degli utensili da cucina o indicarle a parole oggetti, sentimenti, gesti quotidiani. Allo stesso modo, suo padre non l’aveva mai presa sulle ginocchia per indicarle il paesaggio fuori dalla finestra, con gli alberi, le piante aromatiche, i fiori. Tutti quei gesti erano stati ripetuti con maggiore stanchezza per ognuno dei loro figli, fino a diventare annacquati e veloci con Ellie. Charlie stava costruendo un castello di sabbia: un cilindro poco compatto, dalla superficie segnata da crepe; il suo viso era tutto concentrato, una ruga da adulta le tagliò in due lo spazio tra le sopracciglia diventate bionde sotto la luce del sole, mentre afferrava una conchiglia per incastonarla sulla facciata del castello.
«Non mi importa se per ora non vuoi parlare, Charlie», le disse Ellie sfilandole il cappellino di paglia per accarezzare i capelli ricci, morbidi come quelli di nylon delle bambole nuove «Forse, per ora, non hai nulla da dire. Ti aspetterò».
La bambina non sollevò lo sguardo, come se non l’avesse nemmeno sentita.
Tornare in università in autunno fu felice e al tempo stesso malinconico per la lontananza di Charlie. Ellie era fiera dell’abbronzatura che le colorava la pelle di una docile tinta color miele e delle striature chiare nei capelli baciati dal sole. I compagni di corso e le sue amiche non facevano che ripeterle quanto brillasse, illuminata com’era dall’estate. Sembra che te ne porti un pezzettino dietro, commentò una ragazza bassina dall’aria assonnata che sceglieva sempre, in qualche modo, proprio le parole che avresti voluto sentirti dire. Ellie era fiera della nuova bellezza che si sentiva addosso. Baciò qualche ragazzo alle feste di compleanno degli amici ma nulla dei ragazzi sembrava interessarle davvero.
Le lezioni erano iniziate da appena tre settimane quando in una caffetteria con i divanetti di pelle marrone e i tavolini alti di ferro, vide David. Beveva distratto una tazza di tè guardando fuori dalla finestra. Ellie aveva condiviso con lui un paio di corsi del primo anno. Non aveva un’opinione decisa su quel ragazzo. A restarle impresso era stato un unico episodio che lo riguardava: per il corso di scrittura giornalistica il professore aveva formato dei gruppi da sei. Gli studenti dovevano realizzare insieme un’idea di testata e presentarla alla classe. Ellie e David erano capitati nella stessa redazione. C’erano stati, in totale, tre incontri appena. Ellie e David si erano scoperti i più taciturni del gruppo, mentre gli altri ragazzi non facevano che discutere e parlarsi addosso, loro intervenivano soltanto per suggerimenti e domande. Un paio di volte le era capitato di trovare David che la fissava in silenzio. Al di là degli incontri con la redazione, in cui si erano scambiati brevi pareri sul progetto, non poteva di dire di aver avuto con lui una vera e propria conversazione. Almeno fino all’ultimo incontro. Di solito, quando il gruppo finiva il lavoro del giorno, si spostavano in un altro locale per bere qualcosa insieme ma David non si univa mai a loro. Così, Ellie era entrata in confidenza con gli altri, facendosi un’idea di che tipi fossero, mentre di David non riusciva a pensare niente. Sorprendentemente, per l’ultima riunione prima della presentazione del progetto, David propose di vedersi da lui. Era l’unico studente tra le conoscenze di Ellie a non avere una camera nel dormitorio o a non dividere con altri studenti un appartamento ai confini del campus. David abitava in una villetta bassa a trenta minuti a piedi dall’università; l’abitazione si presentava squadrata e severa, con uno striminzito giardino di fronte, con piante rinsecchite e spinose e un portico di legno che scricchiolava sotto il peso delle persone.
«Sembra uscita fuori da un film dell’orrore», commentò una delle ragazze della redazione causando le risa del resto del gruppo.
Lui abitava con la seconda moglie di suo padre, una donna massiccia, silenziosa, che si confondeva con il divano a tre posti del salotto e che si voltò distratta soltanto quando i colleghi di David entrarono nel corridoio chiedendo “Permesso”. Quel pomeriggio si esercitarono sulla presentazione: David aveva la parte iniziale del discorso, poiché parlava in modo pacato e preciso era adatto a elencare gli aspetti tecnici del progetto; a Ellie avevano assegnato una parte minore, che lei definiva trascurabile, del discorso. Ma si convinceva che, in fondo, non le importasse poi tanto. David tirò fuori dalla credenza biscotti e salatini, chiese diverse volte ai suoi ospiti se gradivano un tè caldo o una limonata o un caffè espresso.
«Ma ce l’hai qualcosa di vero da bere?» chiese un ragazzone alto con il solo intento di suscitare la risata degli altri.
«Li ho visti i liquori nella credenza», sentenziò la ragazza che poco prima aveva definito la casa di David un posto da film dell’orrore.
«Quelli non sono da bere… sono la collezione di mio padre», si difese lui ma questa giustificazione agli occhi degli altri parve ancor più ridicola.
Sulla strada di ritorno David rimase l’argomento principale «Ma avete visto che tappezzeria orribile?» diceva una «Non mi capitava un pomeriggio così dalle scuole medie», rideva un altro. Per quanto Ellie si sforzasse di pensare allo stesso modo di David, continuava a ripetersi nella mente il disegno di lui appeso con una calamita al frigorifero, un disegno infantile che ritraeva lui stesso assieme al padre e alla seconda moglie. Ellie aveva immediatamente notato che in quel disegno, come in quelli di sua sorella Charlie, nessuno sorrideva, nemmeno David. E quell’immagine, chissà perché, le tornò in mente mentre lo guardava starsene tutto solo al tavolino della caffetteria. Le parve che quel dettaglio le avesse svelato il dolore di David, una parte di lui che non era autorizzata a scoprire. Si avvicinò a lui e lo salutò. Non sapeva se David l’avrebbe riconosciuta, non si parlavano da mesi, da quando dopo la presentazione lui le si era avvicinato e le aveva detto: «Lo sapevo che il finale avresti dovuto dirlo tu». Ellie ne era stata riconoscente e al tempo stesso stupita perché non credeva che gli altri, le persone che si trovavano con lei in una stanza o con cui condivideva esami e presentazioni, si accorgessero per davvero della sua presenza. Così, Ellie Carter si avvicinò al tavolo di David e lo salutò. Lui sollevò lo sguardo e le sorrise. Questo le bastò per innamorarsi di lui.
Un pomeriggio, Ellie e David passeggiarono nel campus di ritorno dal cinema. L’erba, illuminata dalla luce dei lampioni della sera tarda, era verde brillante, ancora fresca e bagnata. Ellie soprese David sdraiandosi nel prato.
«Che fai?» rise lui porgendole una mano per aiutarla a tirarsi su.
«Faccio un bagno nella rugiada come le fate», scherzò lei. Le piaceva quando lui la guardava con un sorriso stupefatto e intenerito, le piaceva riuscire a trascinarlo in giochi improvvisati e senza senso.
«Vieni qui, ti sporcherai di fango», lui le strinse la mano.
«Impossibile».
Ellie lo tirò con forza e David perse l’equilibrio, cadendo in ginocchio al suo fianco. La porzione di pantaloni di velluto all’altezza delle ginocchia si bagnò, Ellie per un momento trattenne il respiro aspettandosi che lui si arrabbiasse e che le dicesse sei proprio una scema, una stupida bambina scema, guarda cos’hai combinato. Ma David non lo fece. Disse soltanto: «A che gioco stai giocando, Eleonore?» e lei realizzò di averlo abbastanza vicino da poterlo baciare sulle labbra. Uscivano assieme da due settimane. Erano stati al cinema (numerose volte), al mercatino dell’usato del sabato mattina, avevano fatto lunghe passeggiate vicino al fiume, erano stati in biblioteca e in aula studio. Si erano presi per mano, si erano persino abbracciati una sera quando lui l’aveva riaccompagnata al dormitorio e all’improvviso salutarsi con uno sfiorarsi impacciato di guance non era più sembrato sufficiente. Eppure, David non aveva mai tentato di baciarla. Ellie l’aveva aspettato. Alcune volte si era chiesta persino se per caso non avesse frainteso l’interesse di lui nei suoi confronti, perché gli altri maschi non avevano mai aspettato troppo prima di baciarla o di toccarle le gambe o il seno. David la fissava con uno sguardo stupito, si lasciava andare in confessioni su quanto adorasse la risata di Ellie (che secondo lui aveva il suono di tante piccole campanelle che oscillavano insieme) o su quanto fossero morbide le sue mani o su quanto fosse piacevole il tempo passato insieme («Quando sono con te non penso proprio a niente. e non ho ansia di nulla. È così strano per me. Da non crederci, davvero. Hai un grosso potere su di me, Ellie, dico sul serio».) senza decidersi a dividere la distanza tra i loro corpi. Ellie però voleva baciarlo. Non solo essere baciata da lui. Voleva prendergli le labbra e voleva poter dire che David era suo, suo soltanto. Perché a ogni uscita, a ogni milkshake con panna condiviso, a ogni confezione di pop corn mangiata insieme con i dorsi delle loro mani che si sfioravano, Ellie capiva di amarlo. Lo amava in un modo stupido, leggerissimo, senza vergogna. Così fu lei a prendere coraggio e sporgersi verso di lui per rubargli le labbra. Scoprì di amare il sapore della bocca di David, il modo in cui muoveva le labbra piano e affondava la lingua nella sua bocca senza l’intendo di dominarla. «Credevo che non l’avremmo mai fatto di questo passo», confessò David, il suo alito caldo sfiorò il mento di Ellie prima di baciarla ancora.
Con l’inverno il campus si cosparse di neve. David e Ellie se ne stavano sdraiati sulla brandina a molle della camera di lei, abbracciandosi senza vestiti sotto la coperta ruvida di lana. Fuori dalla finestra con le tende bianche sfilacciate il mondo sembrava scorrere più lento del solito. Loro parlottavano assonnati dopo aver fatto l’amore. Il momento preferito di Ellie era quando cadevano uno sull’altra senza fiato e si tenevano stretti in silenzio. Allora, lei poteva immaginare la mente di David, credere che lui pensasse a lei soltanto tutto il tempo. Di solito, era proprio David a parlare per primo. Lei dimenticava in fretta che cosa si fossero detti in quei momenti, le restava impressa soltanto la pace che provava ad avere il corpo di lui tanto vicino. Le piaceva sentire il battito del cuore di lui posando l’orecchio contro il suo petto. Chiudeva gli occhi, lasciandosi cullare dalla voce di David, l’ascoltava partire proprio da dentro, come se si originasse dritta dal cuore e quel battito costante non fosse altro che un codice morse, più chiaro e solenne delle parole stesse. «Mi ami?», chiedeva lei timida quando David affondava le dita nei suoi capelli. «Più di chiunque altro», assicurava lui. Allora Ellie indugiava perché avrebbe voluto continuare: “Mi ami anche più dei miei genitori?”, “Anche più dei miei fratelli?”, “Anche più di Dorothy?”, “Anche più di Charlie che non ha nessun’altro che me?”. Ma si fermava per pudore, senza domandare. Quando David scopriva la sua malinconia iniziava a fantasticare con lei. Il futuro che David immaginava aveva Ellie come unica costante. David elencava i posti dove gli sarebbe piaciuto andare, la casa che avrebbe voluto costruire (sebbene cambiasse spesso idea sui particolari) ma nessuna di quelle immagini lo vedeva come unico protagonista. Mentre l’immaginazione di Ellie era accorta e misurata, quella i David era piena di ottimismo. Era come se lui riuscisse a vedere al di là della nebbia che le oscurava da sempre la vista. In pochi momenti, solo quando era particolarmente malinconica o disperata, Ellie si chiedeva se l’ottimismo di David nei confronti del destino e della vita stessa non derivassero dal suo essere maschio. Presto, oltre dei pregi di David, Ellie si innamorò dei suoi difetti. Si trovò presto a realizzare che David fosse indifeso. Talvolta litigavano per la sua gentilezza o per la sua arrendevolezza. «Ti metteranno tutti i piedi in testa», gli diceva lei. Era il suo modo per allenarlo alla vita, come avevano fatto con lei. Una volta, Buddy le aveva rubato una delle bambole di pezza e si era messo a correre per il giardino con il povero ostaggio indifeso tra le dita. Ellie l’aveva inseguito disperata, inciampando nei suoi sandali troppo grandi, cadendo nella polvere, rialzandosi, piagnucolando di riaverla indietro. A quel divertimento si era aggiunto anche James che aveva lanciato la bambola sul ramo di un albero.
«Vattela a riprendere, scimmietta», l’avevano sbeffeggiata.
Ellie si era aggrappata alla corteccia dell’albero con le unghie, si era sollevata un poco ma le gambe le tremavano per la disperazione e non era riuscita a raggiungere la bambola. Dopo quell’episodio, Ellie aveva capito che ogni situazione prevedeva un vincitore e un perdente e che lei era destinata a essere la perdente in confronto ai suoi fratelli. Dopo uno dei litigi con David, le capitò di tirare fuori l’episodio. Per fare pace, David la portò vicino al fiume ghiacciato. C’era neve ovunque, non si distinguevano le colline dai cespugli, entrambi tremavano per il gelo tenendosi abbracciati e Ellie raccontò: «Qualche giorno dopo, Frank mi restituì la bambola. Il vestitino si era bucato e i capelli erano pieni di foglie e rametti. Arrabbiata, l’ho chiusa in un cassetto. Per anni me la sono dimenticata. Poi, quest’estate, ho visto la mia sorellina Charlie che ci giocava». Ellie s’interruppe perché non aveva il coraggio di ammettere di aver pensato una considerazione tanto infantile. Si era chiesta con malinconia se la bambola avesse avuto paura lasciata lì tutta sola sull’albero per giorni interi e se era stata triste, chiusa al buio di un cassetto per tanti anni. Ma soprattutto, aveva sperato che la bambola credesse di essere tornata dalla sua proprietaria che l’aveva tanto amata, confondendo la piccola Charlie con Ellie.
Il sabato sera, dopo il lavoro, Ellie entrava in casa di David intrufolandosi dalla porta sul retro. Lui la prendeva per mano e salivano senza far rumore le scale, scivolando nel buio del corridoio. La maggior parte delle volte, la matrigna di David era seduta davanti al televisore del salotto a fissare senza espressione un programma dopo l’altro, senza mai cambiare canale neanche durante la pausa pubblicitaria. Raggiungevano la camera da letto, David chiudeva la porta a chiave e si tuffavano tra le coperte del suo letto spazioso, dalle lenzuola a quadri e i cuscini morbidi. A Ellie piaceva svegliarsi mentre David ancora dormiva, sedersi sul tappeto e sfogliare i volumi della sua libreria. Si addossavano saggi di filosofia, romanzi, grandi albi di fotografia in bianco e nero. Di nascosto, tracciava con la matita dediche per lui. Le piaceva l’idea che un giorno, distrattamente, si sarebbe accorto delle confessioni d’amore che lei aveva lasciato sui suoi libri. L’arroganza del primo amore non le permetteva di capire quanto potesse essere crudele legarsi a ogni ricordo del secondo anno di università.
Arrivarono le feste di Natale. Ellie tornò a casa dei suoi per due settimane. Appena arrivata, scoprì che Dorothy era tornata stabilmente a casa dei genitori. Con lei si era portata i gemelli e una sola valigia. Il resto dei suoi effetti personali, scoprirono, suo marito li aveva già venduti da un po’. I gioielli erano svaniti con i loro cofanetti di velluto, gli abiti preziosi mancarono tutti assieme e poi iniziarono a sparire persino le cornici d’argento con all’interno le fotografie del matrimonio o dei bambini appena nati. Soltanto a quel punto, Dorothy aveva deciso d’indagare. Quando l’aveva fatto, però, era ormai troppo tardi. Suo marito aveva venduto tutti quegli oggetti per sparire chissà dove con una studentessa. Ellie trovò sua sorella dimagrita, spettrale. Scoprì che altri piccoli incidenti familiari si erano sommati nei mesi. Non volle indagare troppo. Si concentrò su Charlie e sui gemelli. I bambini erano confusi dal cambiamento repentino di residenza, dalla scomparsa del padre e dalla malinconica assenza di Dorothy. Così, Ellie si prese carico dei tre bambini. Li portò a pattinare, ai mercatini, a spedire la letterina per Babbo Natale. Ognuna di quelle azioni era velata di tristezza, se ne rendeva conto, ma non c’era nient’altro che potesse fare. Dopo quattro giorni, ricevette una lettera da David in cui lui le diceva quanto gli mancasse. Ellie la rilesse molte volte prima di addormentarsi, pensando a David come a una persona appartenente a un’altra dimensione. Non poteva credere di avere davvero qualcuno che l’aspettava. Il pensiero di lui, della sua attesa, l’aiutò a superare le vacanze. Era l’ultimo dell’anno quando scoprì Dorothy nella vasca da bagno con i polsi tagliati. Ellie non poteva urlare, i bambini al piano di sotto non dovevano accorgersi di quello che stava succedendo. La tirò su, sussurrandole di resistere, assicurandole che l’avrebbero salvata. Ma Dorothy piangeva, chiedeva a Ellie di lasciarla andare se proprio le voleva bene. Ellie si infuriò, come si arrabbiava da piccola quando Dorothy non le dava ascolto o le diceva che era una piccola scema. Ellie iniziò piangere, scema, scema, scema sussurrava, devi vivere. La salvarono. Ai bambini, però, fu impossibile nascondere l’arrivo dell’ambulanza e persino la vasca da bagno smaltata di bianco sporca di sangue. Il nuovo anno iniziava con bagliori funesti. I fuochi d’artificio in quella notte insonne sembravano ruggiti di fantasmi. David era lontanissimo e irraggiungibile. Talvolta, per sentire la sua voce Ellie sgattaiolava al piano di sotto a notte fonda e componeva al telefono il numero fisso di lui. Potevano parlare poco. Spesso, Ellie restava in silenzio mentre David le giurava di aspettarla. E questa era l’unica rassicurazione che l’aiutava. Passarono due mesi ma Ellie non riusciva a tornare al campus. David aveva provato a tenerla aggiornata sui corsi ma si era rivelato più difficile del previsto. Le priorità di Ellie erano Charlie, che continuava a rifiutarsi di parlare, e i gemelli, che si sentivano estranei dappertutto e avevano iniziato a comunicare tra loro con una lingua macabra e segreta. Ellie preparò numerose volte la valigia per l’università ma si trovò sempre a disfarla. Ogni volta che accennava alla necessità di ripartire, persino Charlie le si aggrappava addosso stringendola tanto forte da farle male. Così la partenza continuava a essere rimandata. Iniziarono ad arrivare sempre più lettere di David, firmate con i nomi delle amiche di Ellie per non destare sospetti. Nelle buste delle lettere nascondeva piccoli regali: caramelle, fermagli, taccuini con le copertine a fiori. Ellie rileggeva quelle lettere molte volte. Più il tempo passava più le sembrava di aver immaginato David e tutto quello che c’era stato tra loro.
La sera del compleanno di Ellie, riuscì a restare al telefono più a lungo. La casa era silenziosa, i mobili del salotto sembravano grossi animali addormentati. Ellie era in piedi, la schiena contro la parete e la cornetta contro l’orecchio quando David le disse che voleva stare con lei per tutta la vita. Ellie si lasciò cullare da quell’immagine che lui costruiva: si sarebbero sposati in autunno, avrebbero trovato una piccola casa a poco prezzo, magari lui si sarebbe trovato un lavoretto e avrebbero terminato così l’ultimo anno di università; poi sarebbe arrivato un bambino, David se lo immaginava con la risata di Ellie e con le sue mani piccole, magari di lui avrebbe ripreso le sopracciglia o il naso, non gli importava poi molto; Ellie avrebbe insegnato, magari in una scuola superiore in modo da poter stare più vicina a casa, e lui si sarebbe trovato un lavoro qualunque, avrebbero comprato una casa più grande, più bella, dove crescere altri bambini, dove invecchiare insieme e magari prendersi un cane affettuoso e intelligente, avrebbero avuto abbastanza soldi per viaggiare, ne era sicuro, avrebbero avuto una vita perfetta perché, diceva, avevano un debito di felicità con la vita stessa e stando insieme lo avrebbero ripagato con gli interessi. Ne era così certo che persino Ellie iniziò a crederci. Quando David parlava a quel modo, sembrava tutto raggiungibile. La felicità, la realizzazione personale, la serenità, sembravano conquiste da tutti, già pronte lì per loro. David si lasciò trasportare dal suo stesso discorso. Perché aspettare l’autunno? Perché non sposarsi con l’arrivo della primavera? In fondo, non avevano bisogno di niente. Non gli importava nulla della cerimonia e in ogni caso aveva qualche risparmio da parte. E poi, con i soldi dei regali avrebbero fatto la luna di miele lontano, magari in Europa, magari in una cittadina dove non era mai stato nessuno dei loro conoscenti. Con ogni probabilità avrebbero dovuto rinunciare a Parigi o a Roma o Londra. Ma sarebbero stati sereni in qualunque posto, disse proprio così. Ellie rise con le lacrime agli occhi perché più David parlava, aggiungendo progetti e particolari, più lei si rendeva conto che David non stava giocando. Non era più una fantasia e nemmeno uno scherzo. Era quello che desiderava, era quello in cui credeva per davvero. Mentre per lei poteva essere soltanto un bel gioco, una fantasia con cui addormentarsi la sera. Di progetti non poteva averne. Non voleva averne, si corresse. Perché aveva paura. Perché era stanca. Forse per David era tutto meraviglioso e fatto su misura per lui. Per Ellie no. Quella notte si addormentò chiedendosi se fosse possibile, in qualche modo, credere a David.
Erano passati tre mesi da quando Ellie era tornata a casa. Dorothy era ancora in convalescenza, i bambini avevano bisogno di lei. Ellie lo sapeva. Le arrivò una lettera dall’università, non aveva ancora pagato la retta del terzo anno e volevano assegnare la sua stanza nel dormitorio a un’altra studentessa. Ellie si rese conto, prima con rabbia, poi con sgomento e infine con rassegnazione, di non poter continuare l’università. L’avrebbe accettato, si convinse, come aveva accettato la povertà, la tristezza o la solitudine. Se ne sarebbe fatta una ragione. Dorothy, Charlie, i gemelli, avevano bisogno di lei. Lo sconforto lasciò spazio al senso di responsabilità. Decise che sarebbe tornata un’ultima volta al campus per recuperare le sue cose, per salutare le persone che aveva conosciuto e (questo sarebbe stato il passo più difficile) congedarsi da David.
Il viaggio in treno fu il più triste che avesse mai affrontato. Ripercorse nella mente quei due anni che le erano parsi velocissimi, terribilmente fugaci e non del tutto suoi. Le era sembrato di vivere l’esistenza di un’altra Ellie. Quando entrò nella stanzetta spoglia del suo dormitorio, si congedò da ognuno di quei miseri oggetti. Accarezzò la superficie della scrivania, si sdraiò nella brandina, guardò fuori dalla finestra il campus in cui iniziava a fiorire la primavera. Pensò al suo recente passato come a un sogno nitido che non avrebbe dimenticato ma che con il tempo sarebbe diventato sempre più distante da lei. Immaginò che anni dopo si sarebbe chiesta se avesse vissuto lì dentro per davvero e si sarebbe convinta che no, non era possibile. Quella sera stessa, si intrufolò in casa di David attraverso la porta posteriore, si mosse lenta nel buio e stava per superare la matrigna di David, seduta davanti al televisore, quando questa sussurrò «Era da un po’ che non ti si vedeva». Ellie rimase pietrificata udendo quella voce: «Buonasera, signora», salutò. Scivolò nel buio salendo le scale fino alla porta di David. La spalancò senza bussare e lo trovò seduto sul letto con i libri dell’esame di estetica sulle ginocchia. Si baciarono con le guance bagnate di lacrime e mentre facevano l’amore continuavano a stringersi e toccarsi nel modo più pudico che avessero mai sperimentato. Ellie posò l’orecchio contro il petto di David e lo sentì sussurrare «Mi dispiace tanto, Ellie. Mi dispiace davvero tanto». Con la guancia contro il corpo di lui, Ellie provò a trovare una consolazione per il suo dolore. Pensò a tutte le donne che conosceva. Lei non era di certo diversa da loro. E realizzò non c’era proprio nessuna che avesse quella vita splendente che David le prometteva. Di certo non sua madre né Dorothy né tantomeno la matrigna di David. All’improvviso provò uno strano senso di sollievo o, almeno, credette di provarlo. Se avesse creduto alle promesse di David quale delle tre sarebbe diventata? E lui, invece, sarebbe stato come suo padre o come i suoi fratelli o come il marito di Dorothy? Ma poi capì che quella consolazione non l’aiutava affatto perché lei aveva davvero desiderato essere felice con lui. Ci aveva sperato, anche se per tanto tempo si era proibita di farlo. Ellie scoppiò a piangere e David le baciò la punta dell’orecchio «Adesso dormiamo», le assicurò e spense la luce della lampada sul comodino.
Galleggiarono per qualche ora tra il sonno e la veglia. Quando Ellie si immergeva nel sonno ne veniva risputata fuori, tremante e senza fiato.
«David…» lo chiamò, la voce le tremava per lo sfinimento «…che fine ha fatto tuo padre? Non me l’hai mai detto». La sua voce le parve riecheggiò nella stanza buia. Dal piano inferiore proveniva il chiacchiericcio del televisore.
«Ha avuto un incidente quattro anni fa…», rispose lui «… aspettiamo che si risvegli».
Era la prima volta che Ellie lo sentiva parlare al plurale. Soltanto allora si rese conto che David e la sua matrigna erano una famiglia e che insieme aspettavano il ritorno della persona che li avrebbe completati.
David ruppe il silenzio con una domanda: «Se potessi riscrivere le cose d’accapo, che cosa cambieresti?» domandò. Ellie pensò che avrebbe voluto parlare con lui molto prima e anche chiedergli di suo padre mesi addietro. Poi, pensò alla casa che David le aveva promesso e a quella vita insieme che non avrebbero avuto. Pensò che quello era un addio e che il suo treno partiva quella mattina stessa.
«Vorrei che Charlie fosse la nostra bambina», sussurrò.
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Mi è piaciuto molto, una bella atmosfera e ambientazione. Però siete sicuri di quel d’accapo?
ciao!
Ci è sfuggito. Grazie, Marco.
Grazie a voi!