Una breve visita

di Vargas
Copertina di Wojtek + Susan Orlok

Immaginatevi la maestà fantascientifica del primo contatto tra l’umanità e una specie esoplanetaria: la magnitudine incomprensibile dei veicoli spaziali; le forme a malapena intellegibili dei visitatori; gli organi che questi prepongono alla vista posarsi sulle nostre faccette speranzose, sui petti gonfi di orgoglio perché tra tutte le specie senzienti gli alieni sono venuti proprio da noi, quegli umani che pendolano tra la scimmia e il divino e tutte quelle cose che ci siamo detti addosso nel corso dei secoli.

Immaginate le estremità prensili dei visitatori profondersi in un gesto inconoscibile, ma che assomiglia tantissimo a quando ci si batte una mano sulla coscia all’epifania di aver sbagliato strada. Guardate i visitatori fare dietro-front sul proprio velivolo.

Immaginate di non prenderla bene.

Una breve visita è un romanzo di fantascienza scritto da Andrea Betti per Wojtek, che narra delle conseguenze della breve apparizione di una razza esoplanetaria denominata Cilestrina e delle conseguenti reazioni del tutto posate e ragionevoli dell’umanità.

Si pregano i lettori di abbandonare tutte le sfumature di invasione aliena messe a disposizione dal genere. I Cilestrini di Betti non sono qui per restare e sorge anche il dubbio volessero arrivare sin dall’inizio. Appaiono a caso per un weekend, si fanno un giro agli Uffizi, un paio rubano una bici perché sì. Ridacchiano.

E poi se ne vanno.

A questo punto l’umanità, privata del sottotesto di autolegittimazione che sempre l’ha contraddistinta, reagisce in due modi, entrambi accostabili alla Panacedia, una forma di depressione catatonica simile alla Resignation Syndrome, che si manifesta su buona parte della popolazione all’abbandono del pianeta da parte dei Cilestrini. Il primo è il Movimento Svalutazionista (SVA): siccome l’umanità non ha meritato l’attenzione degli alieni, tocca flagellarsi fino a canalizzare la Panacedia. Il secondo è quello RAD: siccome l’umanità non ha meritato l’attenzione degli alieni, tocca regredire a primati afasici e SPACCARE TUTTO. Gira che ti rigira, ogni qual volta ci muore un Dio tra le mani si torna sempre al caro vecchio nichilismo passivo.

Il mondo del Dopo è senza Cloud, Internet, catena del freddo e voli aerei per via del Radiocaos, un altro degli eventi straordinari collegati (?) ai Cilestrini. La conservazione dei dati è talmente compromessa da riplasmare la struttura interna del romanzo: invece del racconto cronologico degli eventi abbiamo il disperato tentativo storiografico di un monaco archivista del futuro di far luce sugli anni oscuri del Dopo a distanza di alcune centinaia d’anni.

Nonostante queste condizioni siano mature per il classico scenario post-apocalittico, i personaggi e le atmosfere suonano bizzarramente novecentesche. Specie nella prima parte, sembra di essere incappati nell’immobilismo malinconico di qualche romanzo sudamericano: Marcus mangiato dalla Panacedia, i ricordi nostalgici di Guinevier a cui tocca accudirlo, la colf Ayuracaba col suo daimon Hayakoari che vanno a comprare i mandarini al mercato, o il marito Nicanor che non fa altro che bere e farsi offrire da bere.

L’indole più squisitamente fantascientifica dell’opera emerge in particolar modo nei due personaggi di Eugen Urmach e Gustav Amirani, i due “titani” che si fanno un punto di reagire all’insopportabile scoramento generato dai Cilestrini, il primo attraverso l’arte e il secondo con la scienza. È interessante da questo punto di vista notare come, mentre ad Amirani siano dedicate lunghe parti di testo, Urmach non parli quasi mai, appaia a stento e tutto quello che sappiamo di lui sia per via dei galleristi che ne curano l’opera.

Così come la vicenda è frammentaria e ondivaga per via del lavoro imperfetto di ricostruzione del Kibernetes, così le voci di ogni singolo personaggio portano con sé generi e convenzioni stilistiche distinte: i galleristi di Urmach sembrano usciti da una vignetta antintellettualista di Sex and the City; Amirani è un costante volteggiare di parlesia scientifica, massimi sistemi e prometeismo hard sci-fi; le confessioni di Guinevere e Marcus sono infarcite di gergo da raver e riferimenti alla scena clubber europea del secolo nucleare. Il linguaggio e lo stile sono curati con estrema attenzione per aderire il più possibile ai vari punti di vista, senza mai abbandonare una sottotrama allo stesso modo colta e divertente.

Il risultato di questa macedonia eterogenea potrebbe spingere a leggere Una breve visita come la decostruzione di un romanzo di fantascienza più classico: i personaggi vengono presentati in testa, come in un’opera teatrale; poi c’è la trama, ipermimetica e priva di contesto; infine, una serie di glossarietti a opera del Kibernetes su storia e worldbuilding, tutti ingredienti distribuiti in maniera pulita e chirurgica sul piatto, lasciando eventualmente al commensale il compito di mescolarli. La “storia” vera e propria, però, non mostra alcuna pretesa di andare da qualche parte: il brancolare nel buio, la preferenza per fenomeni sincronici piuttosto che correlati, l’assenza di spiegazioni di fronte a un florilegio di ipotesi che nessuno sopravviverà per verificare, confermano quanto detto da Betti riguardo al fatto che l’opera sarebbe in realtà un diario trasfigurato. E i diari, in quanto impresa tendenzialmente fallimentare di documentare un’esperienza individuale, non portano la croce del dover avere un senso compiuto e definitivo.

Forse una delle chiavi di lettura del libro è proprio l’approccio de-razionalizzante che trova il proprio riflesso nella Panacedia, un’immobilità che è allo stesso tempo crollo post-traumatico e lento metabolismo di una nuova forma mentis che smetta di mettere in ordine gli eventi alla ricerca di una causalità che non deve necessariamente esistere e si concentri maggiormente su nessi e relazioni reticolari, un punto di vista olistico dove i grandi traumi della storia, che siano una pandemia, o la consapevolezza di non essere poi così interessanti nell’universo, vengano metabolizzati.


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