di Sara Mazzini
copertina dell’autrice
Anche se ho avuto dalla vita più di quanto desideravo, a volte penso ancora a te
Ottobre 2017
Questa sera avrò un incontro importante col passato. Yurij mi ha telefonato dall’Ucraina, sta venendo a Monaco insieme a due amici per l’Oktoberfest. Non ci vediamo da quindici anni. Ha dovuto chiamarmi al telefono perché in Ucraina non abbiamo Facebook. C’è una specie di social che usiamo per tenerci in contatto con gli amici dell’università, ma Yurij non è quel genere di amico.
Siamo stati molto innamorati, in Ucraina, ma mia madre non poteva sopportarlo e ha fatto di tutto per separarci. Non so perché. Forse era una questione di chimica. Lui, Yurij, è molto diverso da quello che appare. Sembra un tipo arrogante, e forse è questo che a mia madre non è andato giù. Oggi fa il programmatore e ha una sua ditta, serve quasi tutto il mondo. In Ucraina ci sono ottimi programmatori, e molto economici. Informatici, ingegneri: uomini e donne. Non avevamo niente e quindi studiavamo. Per riuscire a lavorare. Le donne ucraine e russe hanno iniziato a lavorare molto prima rispetto alle donne europee. Quando ho iniziato a studiare all’università tecnica tedesca eravamo solo due ragazze in mezzo ai maschi. Entrambe venivamo dall’Ucraina. A mensa ci guardavano tutti. Avevo un po’ di problemi, mi sentivo al centro di attenzioni poco lusinghiere, e di pregiudizi. Ora la situazione è molto diversa, le donne sono quasi la metà degli studenti.
Quando penso all’avversione di mia madre nei confronti di Yurij penso a una sera in particolare, Yurij e io eravamo fuori e lei in casa mi aspettava. Vivevamo al sesto piano e dalla finestra mia madre poteva vedere lontano. Era quasi mezzanotte. Allora non c’erano né bus né metropolitana, solo il tram, e spesso non viaggiava perché c’era qualche guasto. L’ultimo tram era in arrivo e io dissi a Yurij di prenderlo, anche se lui insisteva per accompagnarmi. Sono solo cinquecento metri, Yura, posso farli anche da sola, gli ho detto. Se non fosse salito su quel tram avrebbe dovuto attraversare a piedi la città. Alla fine acconsentì. Mia madre non aveva sentito la conversazione e quando mi vide tornare da sola non volle ascoltare giustificazioni, prese a insultare Yurij. Quell’episodio le era bastato per giudicarlo come il tipo che ti lascia per la strada in piena notte. Da allora non volle più vederlo, né sentirmi parlare di lui. Io avevo vent’anni e non sapevo cosa fare. Non sopportavo quella situazione, perché amo mia madre e la sua approvazione per me era vitale. Così scelsi di partire. Nella mia cerchia di amicizie fui la prima a lasciare l’Ucraina. Quando tornai in vacanza l’anno successivo scoprii che Yurij mi aveva aspettata. Mi disse: ricominciamo. Ma io ero cambiata, mentre tutti erano ancora gli stessi di prima. Due anni dopo lui ha trovato una ragazza e si è sposato. Non ci siamo visti né quasi sentiti per quindici anni e sarà emozionante incontrarsi di nuovo. Perché la nostra è una storia che non ha avuto una fine, si è interrotta contro la nostra volontà, ed è rimasta in sospeso.
Adesso io sono felice. Ho un marito splendido e una bambina che affascina tutti, ma mia madre continua a colpevolizzarsi. Ripensa spesso al passato e non riesce a spiegarsi il suo comportamento. Dice, Natal’ja, perché mi sono messa in mezzo? Avrei dovuto lasciarti vivere la tua vita. E io le dico: mamma, è tutto passato, ma lei non mi crede. Forse pensa che, se fosse riuscita ad accettare il mio amore per Yurij, adesso sarei ancora in Ucraina. Mi ha chiamata Nataša, come l’eroina di Guerra e pace. Amava la Rostova, e nel darmi il suo nome sperava che le assomigliassi, ma io mi sono sempre identificata con la sorella di Andrej, che per colpa del padre era come in prigione. E poi, pensare a Nataša Rostova mi faceva male. Quella povera creatura, un solo errore a diciassette anni le ha rovinato la vita. A quel tempo, al tempo di Tolstòj, un uomo poteva commettere errori su errori e proseguire con la propria vita, mentre l’errore di una donna era spesso fatale. Nataša ha sedici o diciassette anni quando partecipa al suo primo ballo, l’anno seguente dovrebbe sposarsi e qui la sua vita è finita. Andrej è più vecchio di lei, è un uomo fatto, ha trentun anni in un mondo in cui a quarant’anni si è considerati vecchi. Ancora oggi nelle aree di cultura russa nessuno festeggia i quarant’anni perché si pensa che porti sfortuna. Non so da dove abbia origine questa superstizione. Da noi tutto significa qualcosa. Puoi non crederci, ma se ci sei cresciuto in mezzo ne sarai sempre influenzato.
Conosco bene Guerra e pace perché l’ho studiato al liceo. L’insegnante di lingua e di letteratura, professoressa Zacharova, era una vera donna russa. Bellissima. Aveva un’aria fiera e una corporatura imponente, né grassa né magra. Un celebre poeta aveva scritto che una vera donna russa è capace di fermare un cavallo al galoppo e di attraversare un edificio in fiamme. Tutto questo, nel mio immaginario, si addiceva perfettamente alla professoressa Zacharova. Ancora oggi, nel ripensare a lei, mi trovo a spingere indietro le spalle, per via di un riflesso dettato dall’istinto. La mia classe, come ogni classe, era formata da un insieme eterogeneo di individui, e ce ne erano alcuni piuttosto chiassosi. Un giorno uno di questi si rese molesto e la Zacharova non riuscì a trattenersi dal dirgli tutto quello che pensava. La lingua russa è molto ricca, anche di brutte parole, e la professoressa Zacharova era talmente infuriata con quel mio compagno che gli presentò l’intero repertorio. Ricordo che in classe nessuno osò più fiatare.
Il programma di letteratura per la quarta classe prevedeva tra le altre cose la lettura del colosso di Tolstòj. Esisteva in commercio una versione ridotta, studiata per le scuole, per consentire di leggere un romanzo che in forma originale avrebbe preso il tempo necessario ad affrontare gli altri testi; ma questo non piacque alla professoressa Zacharova. Decise che potevamo risparmiarci tutto il resto, ma il romanzo di Tolstòj dovevamo leggercelo intero. I miei compagni e io eravamo disperati. Guerra e pace era formato da quattro libri, più di duemila pagine in totale, e a ogni lezione era prevista una discussione sui capitoli assegnati per quel giorno. La Zacharova conosceva il romanzo alla perfezione e portava la nostra attenzione su dettagli che noi, per via delle numerose distrazioni dell’età, non trovavamo importanti. Ricordo che parlammo per ore della quercia di Andrej, che era diventata come un’amica per lui, e lui le parlava, in inverno, in primavera. Dovevamo imparare quel passo a memoria, per riuscire a capire la psicologia di Andrej. Non è stato facile. Non era come mandare a mente una poesia, dove c’erano i versi e le rime ad aiutarci a ricordare. Eppure, la lettura di Guerra e pace con la professoressa Zacharova fu un’esperienza esaltante. Discutemmo il romanzo per circa un semestre, e ogni lezione era così interessante che io non studiavo più né matematica né fisica pur di lasciarmi il tempo per leggere fino alle due di notte. Per niente al mondo avrei sprecato l’occasione di partecipare alla discussione del mattino successivo. Si capisce che per me erano più interessanti le scene mondane, i grandi ricevimenti e i balli, le vicende di Natasha con Andrej e Pierre e Anatol’. Ogni volta in cui il discorso si spostava sulla guerra scorrevo le pagine senza più leggere parola per parola. Ma Guerra e pace diventava spesso interessante anche per la storia, almeno dove si parla di Napoleone e Kutuzov. Se i libri di storia ci avevano abituati a considerarli soltanto nomi legati a eventi che non avevamo vissuto, nel romanzo questi nomi si muovevano, agivano e parlavano come persone vere. I russi hanno sempre avuto l’arma segreta dell’inverno russo. Se non erano in grado di vincere attiravano il nemico aspettando l’inverno, sapendo che quello non sarebbe riuscito a sopravvivergli. D’inverno la temperatura scende fino a meno quaranta gradi: francesi e tedeschi non erano altrettanto abituati a sopportare un simile rigore. Inoltre, avevano grosse difficoltà a orientarsi. Su tutto il territorio russo non esistevano strade, ma solo viottoli fangosi in cui era facile restare impantanati. In Guerra e pace si parla dello zar che è rimasto ferito perché lanciato fuori dalla sua carrozza. Fuori dalle grandi città le strade sono problematiche tutt’ora. Non sono asfaltate, ma coperte di piccole pietre tenute insieme con la sabbia. Polacchi e austriaci sapevano come tenere insieme le pietre, ma gli ucraini non hanno questo know-how e così ci sono continuamente lavori per la strada, perché la pioggia si porta via la sabbia e le pietre saltano via.
Quando ho lasciato la mia città il bus si muoveva in mezzo al buio. Sembrava di stare su una nave in mare aperto. La neve era caduta altissima e non era stata spazzata via, ma solo accumulata ai bordi della strada. Avevo una paura terribile, ma tanta era la voglia di fuggire che mi sono fatta coraggio.
Il paese in cui sono nata, oggi non esiste più. La mia città natale, L’viv, faceva parte dell’Unione Sovietica. I russi la chiamano L’vov. Anche allora era una città atipica per l’Ucraina, l’architettura risentiva delle influenze polacche, austriache e ungheresi. Gli edifici cadevano a pezzi e io avevo paura a passarci sotto. Anche le statue: L’viv era piena di statue e quando una statua crollava, invece di ricostruirla, ci si limitava a circoscriverne il perimetro e ad avvertire la gente: di qui non si passa. In anni più recenti si è investito molto sulla ricostruzione, grazie agli Europei di calcio del 2012. Oggi L’viv è una città bellissima, lo so perché l’ho vista alla televisione.
A L’viv, quando ero bambina, pioveva sempre. Il cielo, me lo ricordo grigio. Ricordo una pioggerella sottile, che si vaporizzava sul viso. Mia madre, che oggi vive a Kiev, ne sente la mancanza. Kiev è una citta calda d’estate e da giugno in poi è tutto giallo. Se Kiev era la capitale politica dell’Ucraina, L’viv era la capitale culturale. Era una città piccola, ma molto bella. Ogni sera c’erano concerti, i teatri sempre pieni, i biglietti costavano una sciocchezza. Oggi il prezzo è salito alle stelle. Ecco perché possiamo permetterci di ospitare artisti stranieri, come Al Bano.
Sono molto grata alla mia famiglia, perché sono cresciuta in amore. Mio fratello e io abbiamo sempre ricevuto attenzione dai miei genitori e loro avevano sempre del tempo per noi. Se qualcosa non andava mia madre se ne accorgeva subito e cercava di farmi parlare dei miei problemi. La mia infanzia, la ricordo felice. Mio padre lavorava molto, aveva un posto di rilievo nel partito comunista. Aveva un’auto e uno chauffeur, tutto fornito dal partito. Di nostro non avevamo nulla. A volte non avevamo neanche da mangiare. Ricordo mio padre e mio fratello frugare nelle tasche dei cappotti alla ricerca di quei pochi spicci che di solito la gente si scorda nelle tasche: un rublo, due rubli, alcuni piccoli copechi, per comprare un po’ di pane. Vivevamo in una casa grande e bella, dai muri bianchi. Era una casa speciale per i compagni del partito e la vivevamo come un privilegio. Per me era un privilegio anche che mio padre mi portasse a scuola in auto. Molti dei miei compagni erano invidiosi. Ma la casa non apparteneva a noi, era dello stato. Se volevamo trasferirci dovevamo trovare qualcuno disposto a fare uno scambio. Non avevamo neppure vestiti. Quante volte ho fatto incursioni nell’armadio di mia madre in cerca di vestiti nuovi, ma neppure lei ne aveva. Se volevi comprare una macchina o un mobile nuovo dovevi iscriverti a una lista, e i tempi di attesa potevano protrarsi anche per anni. Buffo pensare che adesso si può comprare tutto, ma non ci sono i soldi.
Ricevevamo delle tessere con cui si poteva comprare da mangiare, ma nei negozi gli scaffali erano quasi sempre vuoti. Quando in un negozio arrivava una grossa partita di una merce, fuori si vedeva una fila enorme. Allora chiedevi a chi era in fila che cosa fosse arrivato, e loro dicevano: burro, così ti mettevi in fila per comprare un po’ di burro. Un giorno mio fratello e io avevamo ricevuto il compito di comprare il burro. Non si poteva usare più di una tessera alla volta, così ci mettemmo in fila entrambi, per poterne usare due. Poi venne il nostro turno. Il bancone era davvero molto alto e quando mio fratello consegnò alla negoziante le due tessere lei lo guardò storto e chiese, sei da solo? e lui mi tirò su. In quel momento ero completamente assorta nei miei pensieri e fu una sorpresa essere tirata su in quel modo, come un gatto. Quando penso a quel tempo ricordo sempre lunghe file dappertutto.
La propaganda cominciava già all’asilo. Dentro l’asilo c’era un quadro di Lenin con un gran mazzo di fiori; lo chiamavamo nonno Lenin, e noi eravamo i suoi bambini. Si diceva che fosse una persona molto bella. Il giorno in cui ci raccontarono della sua vita mia madre venne a prendermi all’asilo e mi trovò in lacrime. Ci avevano detto che nonno Lenin era morto perché una donna gli aveva sparato, mi fece un tale dispiacere. Mi chiedevo perché questa donna avesse fatto una cosa del genere: a lui, una persona tanto buona.
Indossavamo un’uniforme, che per le bambine era un vestito marrone con un grembiule, nero per tutti i giorni e bianco per le feste. Tutti si mettevano in bianco per il compleanno di Lenin o alla fine della scuola. Indossavamo anche polsini e colletti bianchi che andavano staccati per essere lavati ogni settimana, così non era necessario lavare tutto il vestito. I bambini piccoli indossavano una stella sul petto e si chiamavano Oktjabrjata, un nome che si collegava alla rivoluzione di ottobre. Alla fine della terza classe si faceva un giuramento e a quel punto si toglieva la stella per ricevere un fazzoletto rosso da annodare al collo, diventavano Pionieri. Quel passaggio era così importante che solo a ripensarci mi viene la pelle d’oca.
Mio fratello e io passavamo le vacanze a Kiev, nella dacia di mia nonna. Allora Kiev era bellissima, con le sue grandi strade, c’era tutto. Solo a Kiev e nelle grandi città come Mosca e Leningrado si potevano trovare la Pepsi e altri prodotti che venivano dall’estero. Mia nonna aveva una piccola dacia sul Dnepr e io passavo le mie ferie lì con la mia bicicletta. Era felicità senza fine. Una dacia è fornita di un piccolo campo, dove puoi coltivare pomodori e altre verdure, e piccole case di legno in cui si può vivere solo in estate. Mio fratello e io andavamo a nuotare nel fiume, c’era un’ansa riparata, la chiamavamo la spiaggia dei bambini. Il disastro di Černobyl’ è successo il 27 aprile: me lo ricordo bene, perché in quel periodo cadevano le festività del primo maggio e mio fratello era già a Kiev. Scoprimmo cos’era successo solo dopo il primo maggio, perché il governo cercò di tenere la notizia nascosta per non compromettere la grande manifestazione, altrimenti nessuno avrebbe partecipato. Chi capiva l’inglese sentì la notizia alla radio, a Voice of America. Normalmente non si potevano ricevere quelle frequenze, ma qualcuno riusciva a intercettarle. A dare l’allarme fu qualcuno in Scandinavia, forse in Svezia, che aveva registrato gli alti valori di radioattività e diramato la notizia che da qualche parte era successo qualcosa. A quel punto non si poté più tenere nascosto il disastro. Černobyl’ è solo una fabbrica, ma tutto attorno c’era una città; il novanta per cento degli abitanti di quella città lavorava per la fabbrica e la città doveva essere evacuata. Oggi si sono trovati i colpevoli, ingegneri e direttori della fabbrica, ma tutto il regime era colpevole per aver taciuto la notizia. Il primo maggio era un grande giorno di festa e tutti erano fuori, in strada, e quando prese a piovere era pioggia radioattiva. Chi si è bagnato in quella pioggia ha perso i capelli. Mia madre ha avuto una crisi di nervi, ha voluto che mio fratello tornasse subito a casa. Mia nonna invece non si è preoccupata. Diceva: radiazioni, che cosa sono mai? Se non si riescono a vedere non possono far niente. Un paio d’anni dopo il panico è scemato e si è tornati alla vita normale. La zona è stata ripulita per un raggio di trenta chilometri, ma da quel momento Kiev ha sempre registrato alti valori di radioattività e mia madre continuava a opporsi alle vacanze dalla nonna.
Mia madre era un’insegnante di musica. Quando ero ragazzina mi ha costretta a studiare musica perché così non sarei stata in giro a non fare niente sulla strada. Suonavo il pianoforte, studiavo storia della musica e solfeggio, imparavo la struttura, la scrittura musicale. Funzionava così: qualcuno suona la melodia e tu la devi scrivere, ma io non avevo orecchio. Cantavo sempre a casa, ma ero stonata. Mio fratello mi pregava di smettere. Cantavo anche nel coro, e gli insegnanti mi invitavano a cantare un po’ più piano per non far sentire la mia voce. Ma io amavo cantare e volevo farlo a tutti i costi. A fine semestre si teneva il saggio e nei giorni precedenti facevamo lezioni straordinarie che si tenevano la domenica mattina alle nove. A volte mi svegliavo alle otto e mezza e scoprivo che di notte era caduta la neve e che tutto era bianco, non si vedeva niente. Allora correvo in cucina da mia madre e le dicevo che dovevo andare, e lei diceva: stai tranquilla, non vedi che gli autobus non viaggiano, oggi resti a casa, facciamo colazione. E io: non se ne parla neppure. Arrivavo in ritardo e tutti erano arrabbiati, ma non ho mai perso una sola lezione.
Ricordo che si organizzò un gruppo di dieci persone per fare un tour in diverse città e io ero devastata perché non ero stata scelta. Mia madre cercò di consolarmi ma non c’era niente da fare. Ho smesso di cantare dopo essermi sentita registrata per la prima volta: ero terribile. Mia madre cercò di farmi capire che tutti possono imparare. Non sarei mai stata una grande solista, d’accordo, ma potevo inserirmi in un gruppo come le Spice Girls. Spesso i membri di gruppi come quello erano solo belli. Non sapevano cantare, ma imparavano a eseguire qualche facile canzone e guadagnavano dei soldi. Io ero abbastanza carina per considerare l’idea, per il resto bastava studiare. Avevamo la nostra diva in televisione, da cui potevo prendere ispirazione. Si chiamava Alla Pugacheva. Non era solo una cantante ma anche un’attrice, perché viveva nelle sue canzoni, dove tutto era emozione. Aveva una voce incredibile e poteva fare di tutto, si evolveva nel tempo e rendeva brillante ogni canzone. Aveva una figlia che non aveva ereditato il suo talento musicale: sapeva ballare, ballava benissimo, ma non aveva la voce della madre. Voleva cantare e le prime canzoni non erano granché, ma con il suo buon gusto ha sempre scelto canzoni giuste, si è impegnata. Adesso, dopo vent’anni, canta bene. Ha fatto un percorso incredibile. Tutto si può imparare, diceva mia madre. Mi ha proposto di studiare con una sua amica, ma io non ho voluto. Con una sconosciuta ci sarei forse riuscita, ma non potevo pensare di farlo davanti a un’amica di famiglia, una persona che era sempre in casa nostra. Così non ho cantato più.
Mia madre a quel tempo forse aveva dei pensieri, ad esempio su cosa cucinare il giorno dopo, perché non c’era niente, ma io non avevo di questi problemi. Ero un’adolescente, ero sempre innamorata. Di un compagno di scuola, di una star. Di Toto Cutugno o di Alain Delon. Io e i miei coetanei siamo cresciuti coi film della Seconda guerra mondiale, i nostri eroi erano i soldati dell’Armata Rossa. La censura era molto forte e decideva che cosa mostrare; dall’estero arrivavano film poco impegnativi, film francesi con Catherine Deneuve o Alain Delon. Mia madre mi portò al cinema a vedere Il tempo delle mele. Era la storia di una famiglia, la vita normale di questa famiglia. Ogni membro ha i suoi problemi, tutte le generazioni insieme, sullo sfondo di una meravigliosa Parigi anni Ottanta. Forse oggi Parigi non è la stessa cosa, ho sentito che ha un sacco di problemi con gli immigrati. Credo che il problema sia che, a differenza dei tedeschi, i francesi non hanno fatto mai nulla per integrarli. I tedeschi hanno offerto dei servizi come i corsi di lingua gratuiti, invece gli immigrati francesi vivono nei ghetti e c’è sempre il solito problema dei sobborghi: i ricchi vivono in centro e i poveri nelle periferie. Comunque sia, quando ho visto Il tempo delle mele sono rimasta stregata. Mi ha trovato nella giusta età perché la protagonista era un’adolescente come me e nonostante le differenze geografiche aveva i miei stessi problemi. E i vestiti magnifici che aveva. Indossava jeans, interi capi in denim, gonne in denim, cose mai viste prima. In una scena aveva avuto dei problemi con il suo ragazzo, era caduta in Liebeskoma, mal d’amore. Era come malata, sempre a letto, e doveva mangiare solo cose buone. Io chiesi a mia madre: cos’è quella cosa che mangia? e lei non seppe rispondermi. Solo in seguito ho capito che era yogurt. Non avevo mai mangiato uno yogurt, non sapevo neanche che sapore avesse.
Dall’Italia arrivavano i film di Adriano Celentano, che per noi era il simbolo dell’italiano vero. Quando la Perestrojka è finita e sono arrivati La piovra e Il padrino siamo rimasti scioccati. Erano visioni così brutali e sanguinarie, e si discostavano completamente dall’idea che ci eravamo fatti; ci siamo detti: davvero succede questo in Italia?
Gorbačëv rappresentò un wind of change. A quel punto potevamo ricevere lettere e io avevo un’amica di penna in Svizzera, sul lago di Costanza, si chiamava Sandra. Ci scrivevamo in inglese. All’inizio mi faceva dei disegni, disegnava sé stessa spiegando quanti anni aveva e quanto era alta grazie al disegno di una torta con delle candeline, e poi di lei accanto a un animale. Disegnò una tartaruga. Le prime lettere erano così. Poi le cose cominciarono a farsi più complesse. Tutto quello che lei mi raccontava, le fotografie che mi inviava, mi mostravano un mondo nuovo e sconosciuto. Mi scriveva: questa estate andrò con i parenti in Sardegna, e io rispondevo: questa estate andrò di nuovo dalla nonna a Kiev. Ci siamo scritte per sette, otto anni. Per Natale mi spediva sempre un pacchettino, profumava di estero e al suo interno era sempre tutto bello, così diverso dai nostri oggetti scuri, impersonali e tetri. Mi spedì cioccolata fondente, una pochette per il trucco, addirittura un maglione. Per me fu qualcosa di incredibile perché non avevo altri vestiti all’infuori della mia uniforme.
Quando il regime crollò avevo dodici anni. Ricordo che tutto cambiò in un momento. A L’viv ci furono manifestazioni. Gli ucraini diventarono molto nazionalisti. All’improvviso tutti dovevano parlare la lingua ucraina e non il russo. La censura cadde. Prima dovevamo stare attenti a ciò che dicevamo perché c’era sempre qualcuno che poteva male interpretare i nostri pensieri e riferirli, e in un attimo ti saresti ritrovato la milizia alla porta. Anche i muri erano sottili, perfino in casa si doveva fare attenzione. Adesso invece si poteva dire tutto, era il caos. Dalla nostra vita ordinata passammo all’incertezza, all’imprevedibilità. Per la nostra insegnante di storia fu un momento terribile. Sui giornali e alla televisione era un’onda di informazione: scoprimmo cose terribili su Lenin e Stalin, che per noi erano idoli e adesso eravamo costretti a vederli come assassini della gente e del libero pensiero. Tutto quello che avevamo imparato era diventato falso. Tutti i valori che erano importanti per noi diventarono niente in un secondo. Chi aveva creduto nel sistema perse tutto, o quasi. Da un attimo all’altro diventò molto pericoloso portare il fazzoletto. Io fui tra gli ultimi a toglierlo. Quasi tutta la scuola lo aveva già tolto, ma io mi ostinavo a portarlo. Ovunque sentivamo storie di bambini fermati per la strada da qualcuno che gli aveva strappato il fazzoletto dal collo per bruciarlo sulla strada. Anche le uniformi diventarono proibite, ma chi non aveva soldi continuava a indossarle e questo lo esponeva al mobbing. Qualcuno aveva parenti in Polonia o disponeva di più soldi e poteva comprarsi dei jeans. Io ho ricevuto i miei primi jeans a sedici anni, come regalo dei nonni, perché i miei genitori non potevano permetterseli. Costarono cento dollari, perché il rublo era caduto già due volte e nessuno si fidava più. Tutti volevano i dollari.
Mio fratello trovò un lavoro all’aeroporto. Mia madre trovò lavoro a Kiev e mio padre andò con lei per qualche settimana. Ci lasciarono dei soldi. Venne la mia amica Olga, voleva andare al mercato a comprare dei sandali. Per la prima volta avevo dei soldi e comprai dei sandali anch’io. Quando mio fratello tornò mi disse: dove sono i soldi? E io: ho comprato dei sandali. Bene, mi disse, mettili in frigo perché mangeremo quelli. Per fortuna all’aeroporto c’era sempre qualcosa da mangiare. Sull’aereo venivano servite fettine sottili di formaggi e insaccati e i resti si giocavano alla tombola coi dipendenti. Nei giorni in cui avevamo la casa vuota gli amici venivano da noi per vedere la Formula 1. Eravamo tutti fissati in quel periodo. Venne il vicino, che era benestante, e scoprì che non avevamo nulla da mangiare; tornò dopo poco con un intero sacco di patate. Le cucinai per tutti e poi rimasero patate per giorni e giorni. Poi mio padre tornò e cominciarono i problemi. Era un uomo autoritario e non voleva i miei amici per la casa. Ancora oggi, se sono a casa di un’amica, mi sento a disagio quando vedo rientrare il marito. Ho questa regola stampata nella testa: quando il capo rientra, l’ospite toglie il disturbo.
A quel punto eravamo liberi di andarcene. Per lasciare il paese servivano il visto e la valuta straniera, ma potevamo ottenerli, mentre prima non era possibile. Allora pensai: voglio andarmene da qui. Voglio vedere il mondo. Volevo andare da Sandra. L’ho fatto, e poi sono finita in Germania a studiare. Quando sono arrivata in Germania per me era tutto così strano. Strano che chi voleva andare in vacanza doveva solo preparare una valigia, prendere e partire.
Avevo trovato lavoro come ragazza alla pari, ero ospite in una famiglia. Ricordo che al mio arrivo ero molto stanca e affamata, ma non volevo causare disturbo. Mi misero a tavola davanti a una minestra, non c’era che quella. Un po’ di verdure passate. Svuotai la mia scodella e mi chiesero se volevo altra minestra. Dissi di no per cortesia, perché mi aspettavo che mi venisse offerta ancora altre due volte. Alla terza avrei accettato. Ma la signora disse: come vuoi, e portò via la pentola, lasciandomi a stomaco vuoto.
In Germania puoi sfruttare davvero ogni minuto del tuo tempo. Tutti hanno un mezzo proprio, quelli pubblici sono sempre in orario e se hai cinque minuti liberi puoi approfittarne, per esempio per fare la spesa. E molti lo fanno, ecco perché i supermercati possono permettersi di chiudere presto. Puoi fare molte cose in un giorno e questo ti spinge a pensare a come riempire ogni buco. Per esempio, se avanza mezz’ora ti dici: che cosa posso fare in questa mezz’ora? In Ucraina è diverso, lì riesci a fare al massimo una commissione al giorno e se va tutto bene puoi già dirti felice.
Avevo un amico africano, Francis; veniva dall’Uganda. I suoi genitori erano stati uccisi in guerra. In Uganda ci sono sempre guerre e lui diceva che se vivi in quel paese non puoi stare mai tranquillo. Suo zio lavorava per il governo e lo ha aiutato a venire in Germania con una piccola somma di denaro, lo ha iscritto all’università. Gli africani vivono per godersi la vita, cantano, pregano e non lavorano. Francis era molto religioso, andava sempre in un Gemeinde, una comunità parrocchiale, a cantare e pregare, e non faceva altro tutto il giorno. Io un po’ lo capisco, se sei cresciuto in una certa situazione devi avere qualcosa a cui aggrapparti, una speranza. Una volta mi ha detto che non mangiava da tre giorni perché non aveva più soldi. Gli ho dato cento euro, che per me era lo stipendio di un’intera giornata. A quel tempo non ero più una ragazza alla pari, avevo trovato un lavoro nel weekend che mi permetteva di studiare durante il resto della settimana. Ho proposto a Francis di venire a lavorare insieme a me ma lui ha detto di no, perché la domenica doveva servire Dio. Gli ho detto: come pensi di vivere qui e continuare a studiare se non hai un soldo? Lui ha risposto: se Dio vorrà che continui a studiare troverò qualcuno che pagherà al posto mio. E ha trovato davvero un signore tedesco che gli ha pagato il resto degli studi.
Il lavoro era in una fabbrica di chip elettronici. Aperta ininterrottamente, sette giorni su sette, perché fermare le macchine e farle ripartire è più costoso che assumere studenti per farle funzionare anche nel weekend. I chip servivano per tutto; telefoni cellulari, computer, tutto. Ci vestivano di una tuta di plastica bianca, completa di guanti e mascherina, e prima di accedere alle sale sterili dovevamo passare attraverso un canale ad aria per rimuovere qualsiasi possibile particella di pulviscolo. I wafer sono estremamente delicati e un semplice granello di polvere può comprometterne il funzionamento. I guanti li cambiavamo tutti i giorni. Le donne non potevano truccarsi. Per poter andare in bagno dovevo togliere tutto. Per andare in pausa pranzo dovevo togliere tutto. Avevo una pausa grande di mezz’ora e due pause minori di quindici minuti, e ogni volta dovevo togliere tutto e rifare da capo la trafila prima di entrare. Nelle sale sterili non c’erano finestre; era come trovarsi in una camera oscura con luci gialle anziché rosse, e tutto cambiava colore. Le persone diventavano gialle. Attraverso una finestra che viene subito richiusa tu ricevi i wafer, che sono molto sensibili e sottili, quasi trasparenti, dentro una scatola. Occorre fare molta attenzione perché se la scatola cade si rompono tutti. Ci sono delle vasche con diversi acidi per pulirli; gli si fa un bagno con un programma speciale, ad esempio cinque minuti in una vasca e cinque minuti in un’altra; e ne arrivano sempre di nuovi, perché tutto funziona a catena di montaggio. Sulla scatola sono scritti tutti i passaggi e vanno seguiti alla lettera. Tu spunti i passaggi che hai fatto e scrivi il tuo nome, poi passi il wafer all’anello successivo. Dopo il bagno ci sono persone che aspettano di ricevere i wafer per posizionarli in una specie di forno; la cottura a vapore la facevano sempre gli uomini. Poi si arriva al controllo. Ogni wafer ha circa quattrocento chip: ne vengono provati dieci a caso e se tutti e dieci vanno bene si passa al controllo successivo. Se uno solo non funziona, se la corrente non passa, il wafer è scartato e passa a un ingegnere addetto a controllare dove sta l’errore. Il controllo successivo è visuale, occorre controllare se c’è un graffio. Anche un graffio piccolissimo può compromettere centinaia di chip. Superati tutti i controlli si va al taglio, ma io non sono mai stata ammessa a questa parte della catena. In generale era un lavoro di grande responsabilità, e molto complicato, perché c’era bisogno della massima concentrazione, e alle sei del mattino è davvero difficile (si cominciava alle sei del mattino). Ma era anche molto interessante, e poi aveva un sacco di vantaggi. Per esempio, per via dell’obbligo di indossare la tuta ricevevo una maggiorazione sullo stipendio. I guanti venivano buoni per il giardinaggio. Non era concesso portarli a casa, quindi a volte li infilavo nella tasca dei jeans e fingevo di scordarmeli. Erano perfetti per i lavori domestici, perché il palmo era di gomma e il dorso in materiale sintetico traspirante, così sottili che non perdevi mai la sensibilità, era come avere una seconda pelle. C’era anche un lavandino in cui era possibile pulirsi gli occhi con un collirio speciale e c’era una crema per le mani che si assorbiva immediatamente, non sono mai riuscita a trovarla in commercio.
La Germania è ricca, ma è ricca perché la gente lavora un sacco. I tedeschi lavorano come matti e pagano un sacco di tasse. Ci sono persone che ricevono il sussidio e vivono con trecento euro al mese; pensano: perché devo andare a lavorare se alla fine del mese rischio di rimanere con meno soldi in tasca di quelli che ricevo col sussidio? Mio marito si sveglia alle quattro del mattino, tutti i giorni. Quando rientra a casa si butta sul divano e non ha forze per fare nient’altro. E quando vedo quanti soldi paga allo Stato mi viene da piangere. Senza contare il fatto che sono quasi sempre sola, e che devo occuparmi da sola della casa e di mia figlia. Di recente mio marito è tornato dopo un viaggio di tre settimane e lei non lo ha riconosciuto. Non è abituata a vederlo, perché non c’è mai. Quando ero più giovane non ho mai avuto niente e adesso che abbiamo una casa dobbiamo guadagnare soldi per mantenerla. È strano. Ma devo accettare la situazione e pensare che è normale, che tutte le altre famiglie che conosciamo vivono esattamente come noi. Almeno, tutte quelle che non hanno ricevuto qualcosa dai loro genitori, ma si tratta di pochi fortunati. Ci sono persone che hanno potuto permettersi un’educazione e adesso lavorano nella ditta del padre e non hanno problemi. Mio marito invece ha una responsabilità enorme: non solo la sua famiglia, ma anche quella di ogni suo dipendente. Trenta dipendenti, trenta famiglie. Se il lavoro non va bene le famiglie non mangiano. È dura vivere così, con questo peso. Quando vedo in televisione cosa succede a quella povera gente che arriva dalla Siria penso che io sto benissimo, ma è difficile pensare in relazione a quello che succede fuori dalla tua situazione.
Mio marito è una persona più libera di me. Non è così quadrato. Io penso di non riuscire a sentirmi libera perché se nasci e cresci in un sistema come quello in cui sono cresciuta non puoi abbandonarlo mai. Sei sempre condizionato, nei pensieri e nelle azioni.
Mia figlia Anna è la più libera di tutti. Qualche settimana fa l’ho portata al lago per fare un ultimo bagno prima dell’arrivo dell’autunno. Gli altri bambini vogliono essere accompagnati in acqua e non vogliono andare dove non toccano, invece lei andava da sola, non voleva neppure essere sfiorata. Erano tutti molto sorpresi: una bambina così piccola che già può nuotare. Anna è così indipendente. Anche se all’asilo è molto ricercata tende a preferire i giochi da sola. A casa è diverso; a casa accetta di giocare con una bambina che viene a trovarla, ma all’asilo la ignora. C’è un’altra bambina Anna, che è nata due giorni dopo di lei, e per qualche ragione la cerca sempre. Ma la mia Anna appena la vede la spinge via. Le piace stare solo con me; vuole sempre stare in braccio ma è diventata pesante e mi affatica le braccia e la schiena. È una bambina robusta. Se la vedi è del tutto normale, non ti aspetteresti che pesi così tanto. Mio marito si chiede a chi può assomigliare: chi in famiglia è così grande? Io dico: non lo so, tu hai sangue ungherese, io ho sangue cosacco; forse da qualche parte si nasconde un gene impazzito, fuggito, non so. Io mi preoccupo perché Anna è una ragazza, non voglio che sia grossa. Quando vede i bambini giocare a pallone corre in mezzo anche lei, per giocare, e si diverte come una matta. Le piace il calcio, ma io spero che le passi. Il calcio fa le gambe muscolose e le gambe muscolose non stanno bene su una ragazza. Sto provando a farla interessare alla danza, al pattinaggio artistico. A casa ho un video di Oksana Bajul, delle Olimpiadi invernali del 1994. Aveva solo diciassette anni, Oksana. Credo che fosse orfana. La sua vittoria fu una sorpresa per tutti. Fino a quel momento le grandi campionesse erano sempre state russe, perché la scuola russa è molto buona, e severa. Era la prima volta che riuscivamo a battere la Russia. Eravamo tutti così fieri. Come tutti gli ucraini neanche Oksana aveva nulla, e perfino riuscire a procurarle i pattini e quei costosi costumi di scena era stato un problema. Si racconta che fu fatta una colletta, a Odessa. La cosa strana è che lei dopo è scomparsa. Ho sentito che ha avuto dei problemi per via del successo improvviso, che non ha retto e si è data all’alcool. Si pensa che sia andata negli Stati Uniti ad allenarsi, ma di fatto nessuno ne ha saputo più nulla.
Mio marito non sa di tutte queste cose. La sua è un’altra cultura. Un altro modo di pensare. Non sa nulla nemmeno di Yurij. Sa che stanno arrivando alcuni amici dall’Ucraina, e che li accompagnerò all’Oktoberfest. Tutto qui. Ho programmato di cenare all’Hofbräuhaus, sapendo che sarà dura riuscire a entrare per mangiare nei capannoni della festa. Negli Zelte, i capannoni, andremo dopo a bere. Ai ragazzi ucraini basterà, è molto più di quello a cui sono abituati. Sono andata dal parrucchiere a farmi praticare un’acconciatura tradizionale, con piccole trecce che corrono lungo la testa. L’aria è piena dell’odore del concime e le siepi sono già state coperte. La terra è così secca, qui. La terra in Ucraina è molto ricca, nera, e come burro. Perfino Hitler se la portava via. Quando mia madre viene a trovarmi rimane scioccata, dice: perché i tedeschi buttano le pietre sulla terra? E io le dico: mamma, qui la terra è così, non ne ricavi quasi niente.
Mio marito è a casa con Anna; mangeranno e andranno a letto presto, perché lui deve svegliarsi molto presto. Sono molto emozionata, è la prima volta che mi capita di portare in giro degli ospiti. Per un caso è il compleanno di mia nonna, che celebra i suoi novant’anni, ma probabilmente ne ha pure di più. Al tempo della guerra tutti i giovani oltre i sedici o i diciassette anni sono stati deportati in Germania per andare a lavorare. Lei sembrava più giovane e per non essere deportata ha dichiarato di essere più piccola. Non aveva documenti, così ha scelto una data a caso e da quel momento questa è la data del suo compleanno. Al tempo di mia nonna in Ucraina nessuno ricordava il proprio compleanno, non si ricevevano regali, non era una cosa importante. Al massimo ci si ricordava di essere nati in autunno, o in primavera.
Yurij arriva con Vasyl e Yan, vecchi amici di altra vita. Fatico a riconoscerli, tutti e tre sono cambiati. Hanno pance gonfie di birra, la pessima birra che si beve in Ucraina. Appena scesi alla stazione hanno comprato una cassa di birra locale e hanno già cominciato a berla. Hanno i capelli grigi, Yurij li sta perdendo. Non è più bello come un tempo. Io invece sono ancora la stessa, mi dice Yurij. Ho indosso il mio Dirndl, l’abito tradizionale bavarese; lui non mi ha mai vista vestita così e dice che sono bellissima. Io dico: avrete fame, andiamo all’Hofbräuhaus. Fuori c’è radunata una gran folla di turisti e mi sento morire, pensando che non riusciremo a entrare. Chiedo al buttafuori cosa sta succedendo, lui mi sente parlare in tedesco e mi dice di passare da una porta secondaria, senza farmi vedere dai turisti. Porto i ragazzi attraverso il salone delle feste, da cui poi possiamo scendere alla sala per la cena. Senza volerlo ho trovato un accesso privilegiato. È tutto bellissimo e i miei amici sono entusiasti. Ci sediamo, ordiniamo boccali birra e per loro il grosso stinco di maiale. Scattano foto al cibo con le facce rosse e gli occhi spalancati. Per loro è un banchetto da re. Li capisco, ma fatico a condividere lo spirito. Io non mi riconosco più in quella vita.
Dopo cena andiamo al Theresienwiese, dove si svolge l’Oktoberfest. Porto i ragazzi al capannone dove sono solita andare, più costoso degli altri perché offre cibi biologici, ma è stato chiuso. Anche il Biergarten all’esterno è chiuso da un recinto. Busso alla porta e si apre uno spioncino, come nei vecchi bar americani al tempo del proibizionismo. Il tizio dietro lo spioncino mi chiede: quanti siete? Gli dico: io e questi tre ragazzi. Non ho posto, mi dispiace, e richiude lo spioncino. Ha visto i tre energumeni e ha individuato tre potenziali portatori di guai. Poco dopo passano tre ragazze, vengono fatte entrare e i miei amici lo vedono. Sono ucraini orgogliosi, mi dicono di lasciar perdere. Ma quando vedo uscire un gruppo di dieci persone busso di nuovo, dico: adesso avete posto. Il tizio chiede: sempre per quei tre? Sì. Sono brave persone. Okay, mi dice, ma si ricordi che lei è responsabile per loro. Mi viene un brivido, ma poi entriamo e mi dimentico quello che ha detto, perché è tutto bellissimo. Anche se dobbiamo stare fuori, nel Biergarten, attraverso una vetrata vediamo la sala all’interno, con il palco dell’orchestra e le persone che ballano sui tavoli. La musica arriva fino a noi. Siamo felici. I ragazzi bevono altre birre. Io ho ordinato una Radler, birra allungata con la limonata, perché devo guidare. Loro non capiscono la lingua e non sanno che cos’è, pensano che sia birra normale. Mi vedono berla e rimanere lucida e si meravigliano di come tengo l’alcool. All’uscita Vasyl e Yan se ne vanno via presto per non perdere l’ultima metropolitana e io rimango sola con Yurij, che adesso dovrà attraversare a piedi tutta la città. Per un riflesso alzo gli occhi e cerco l’ombra di mia madre alla finestra. Hai visto, mamma, te lo dicevo che è un bravo ragazzo. Ma mia madre è in Ucraina, e io ho indosso il mio Dirndl. Ho una casa e un marito. È tutto diverso ora.
Yurij è ubriaco, ha l’alito pesante, la faccia rossa. La testa lucida e sudata. Mi dice che sua moglie lo ha lasciato, e poi ricordiamo il passato. Lui ha ricordi diversi dai miei, ma la cosa non mi turba. Anche mia madre ha ricordi diversi, che io invece non ho. Per esempio, ricorda una volta in cui sono andata a un concerto col mio amico Andriy e al ritorno pioveva fortissimo, sulla strada c’erano due dita d’acqua, così ci siamo tolti entrambi le scarpe per non rovinarle e le abbiamo infilate sotto i vestiti. Avevo comprato un paio di scarpe per la stagione, perché c’era sempre un unico paio di scarpe a stagione, e le avevo comprate coi tacchi. Quando mia mamma le aveva viste aveva detto: davvero puoi andare sempre in giro con queste? E io: sì, sì, sicuro. Andavo con i tacchi anche sul ghiaccio, sapevo starci sopra, ma non volevo rovinarli con la pioggia. Dice mia madre che quella sera Andriy e io siamo tornati a casa fradici e scalzi, ma io non ho ricordi di questo episodio. Andriy era un artista, un romantico. Alto, capelli lunghi e occhiali, mi faceva sempre un sacco di regali. Era innamorato di me e io stavo attenta a non illuderlo, lo incontravo solo in mezzo agli altri amici. Di solito andavamo al L’jal’ka, che significa bambola; una vecchia discoteca interrata nel teatro dei burattini, al centro di L’viv. Un posto per artisti, piccolo e frequentato sempre dalla stessa gente. Gente un po’ matta. Era sicuro vedere Andriy in quel modo. Non so perché quella sera eravamo soli.
Yurij mi chiede perché me ne sono andata. Non capisce. Io ora ho il doppio passaporto, una figlia tedesca. Per lui sono sempre la stessa. Gli dico che posso accompagnarlo, ma lui insiste che chiamerà un taxi. Ci abbracciamo e per un attimo non vuole più lasciarmi andare via. Ci sono le luci della festa oltre la strada. Nell’aria l’odore di vomito, vaniglia e sterco di cavallo. Le grida dei ragazzi sulle giostre. Lo lascio. È ora che Yurij torni a casa attraverso le strade buie di L’viv, senza bus né metropolitana, insieme al mio passato. I ricordi che non ho. Torno a casa; Anna sta dormendo. Anche mio marito è a letto. Mi infilo al suo fianco e lo abbraccio. Lui si muove appena, forse mi sente, e continua a dormire. Sottovoce, gli dico: grazie. Grazie per essere così sobrio. Così magro. Così bello.
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