Lava

di Marco Cavaliere
Copertina di Pablo Follieri

Un giorno Luigi, il tuo amore Gigi, non torna dalla pesca. Lo aspetti camminando avanti e indietro sulla sabbia nera, scrutando l’acqua in cerca del suo boccaglio e del pallone rosso. Lo aspetti a lungo, ma il mare rimane immobile. L’onda s’infrange nella sera che cala sull’Isola di lava. La spiaggia si svuota. Gli ombrelloni si chiudono e rimani da sola.

È quasi buio quando ti decidi a dare l’allarme. Alla capitaneria di porto parli della secca dove amava immergersi. Agli uomini in divisa confermi che è esperto; è un bravo pescatore, il tuo Luigi.

Le ricerche iniziano immediatamente. Vedi le luci dei motoscafi prendere il largo nella notte che avanza da oriente.

Adesso devi fare una telefonata difficile e appena sua madre risponde ti manca il fiato perché hai paura a pronunciarlo, perché quando le dici le cose diventano vere: Luigi non si trova, è andato a pesca e non è tornato. Senti l’affanno di Rita dall’altro lato del telefono.

Aspetti seduta su una sedia di plastica in un corridoio spoglio. Non c’è niente, in quel corridoio, tranne una carta nautica dell’Isola: è uno scoglio in mezzo al mare enorme. Guardi le curve batimetriche sprofondare in burroni sottomarini, t’immagini la solitudine degli abissi e un brivido ti corre lungo la schiena.

Ogni cinque minuti fai irruzione nell’ufficio del capitano chiedendogli notizie. Il capitano ha uno sguardo deciso che un po’ ti rassicura. Prende la radio, si mette le cuffie ma scuote la testa. Ti dice di avere fiducia. Altri uomini vestiti di bianco ti offrono caffè, acqua e qualcosa da mangiare. Tu non vuoi niente. Ti accucci sulla tua sedia con la pancia che ribolle e la pelle che trema.

Ogni dieci minuti Rita ti chiama e tu non puoi dirle nulla di nuovo. Provi a rassicurarla, ma alla fine è lei che ti dice di stare tranquilla. Forse, pensi, perché non può vedere adesso quanto è buio lì fuori, dove si trova Gigi, da solo nelle tenebre.

Ogni venti minuti esci sul molo sperando in un segnale, sperando di vederlo su una pilotina della Guardia Costiera di ritorno dalle ricerche con ancora indosso la muta, di vederlo riemergere proprio lì, in mezzo ai pescherecci ormeggiati.

Sull’Isola quella notte è buia e piena di silenzio. Non c’è luna, il mare è deserto, la terra si confonde con aria e acqua in un unico ammasso nero.

Tra le ombre vedi i sommozzatori che preparano l’attrezzatura. Dispongono le bombole e gli erogatori. Fai pensieri orrendi. Con il cuore in gola chiedi al capitano cosa vanno a fare quei sub. Lui ti prende una mano e ti dice, quasi scusandosi, che devono controllare anche il fondale. Luigi pesca profondo, vero?

Senti le lacrime che salgono, ma riesci a trattenerle. Pensi che quella notte non finirà mai. Hai freddo, anche se deve fare caldissimo perché sono tutti sudati.

Quando è quasi l’alba e la testa ti si è appena piegata su una spalla per la prima volta, il capitano si inginocchia al tuo fianco e ti dice che hanno ritrovato il suo pallone ancorato sulla secca, e il suo fucile, a galla, con la sagola che punta verso le pendici sommerse del vulcano. Aveva preso qualcosa. Lì sotto c’era ancora una grossa cernia arpionata. E poi deve aver abbandonato il fucile, una volta riemerso.

Allora è riemerso?! Gli chiedi se è un buon segnale, ma lui non ti risponde.

La luce penetrante del mattino ti acceca e ti ripari lo sguardo con una mano mentre osservi le manovre di attracco del primo traghetto. Dalla città sbarcano molti volti abbronzati; quelli di Rita e Filippo, i genitori di Gigi, sono gli unici pallidi.

Ora siete in tre ad aspettare nel corridoio. Fuori il sole d’agosto picchia sulla sabbia scura e sui cactus, sulla terra e sugli scogli di lava del vulcano, un cono nero che sbuca in mezzo alle immense praterie di onde.

Filippo fuma senza sosta e guarda continuamente l’orologio. Rita racconta di tutte le volte che suo figlio l’ha fatta preoccupare in passato. Di quella volta che da piccolo con un canotto a remi scomparve per quattro ore. Quando torna si merita qualche schiaffo anche questa volta, no Filippo? Lui prova a sorridere e continua a fumare in silenzio. Tu ascolti le sue storie come se fosse divertente stare lì, negli uffici della Guardia Costiera a parlarne, come se essere in pensiero fosse qualcosa di stupido ma inevitabile; è così scontato vederlo tornare su un gommone sano e salvo, da un momento all’altro. Gigi è un grande nuotatore, questo lo sapete tutti.

Dentro di te l’ansia ti sta corrodendo e guardi negli occhi del capitano ogni volta che vi passa davanti. Quasi non ascolti più ciò che continua a ripetervi. Vi assicura che stanno facendo il possibile. Ci sono elicotteri in ricognizione dalle prime luci, tutte le imbarcazioni disponibili stanno pattugliando le coste e il mare aperto. Non bisogna perdere la speranza.

Dopo un po’ Rita smette di parlare e restate in silenzio a fissare il pavimento.

Il caldo sta svanendo. Ti alzi e guardi dalla finestra. Fuori, sul mare piatto e sconfinato, il cielo sta diventando di nuovo rosso. Il tempo è infame: proprio adesso che dovrebbe rallentare per concedere più spazio alle ricerche si mette a correre. Sono già passate quasi ventiquattro ore. Quanto si sopravvive senza bere in mare?

Ogni tanto si sente un ronzio che proviene dalla sala radio. Senti parlare di correnti e velocità di deriva. Per un bel pezzo ancora nulla accade, nessuno si muove nel corridoio: tu e i suoi genitori, siete pietrificati.

Proponi di uscire un attimo. Insieme a Rita e Filippo resti in attesa guardando il giorno scomparire. Ti sembrano vecchissimi. Gigi, se torni ti regaliamo una barca e una nuova canna da pesca, basta che sott’acqua non ci vai più. Luigi, amore mio, se torni non ti lascio più un minuto da solo, neppure quando fai la doccia.

È il capitano a comunicartelo. Ti viene incontro con una smorfia sul viso e il cappello tra le mani. Ricorderai la sua voce bassa che retrocede come la risacca, fino a evaporare. Il corpo di Gigi è stato ritrovato venti miglia al largo dell’Isola con la testa in acqua.

Intorno a te tutto scompare.

Luigi, Gigi, il tuo amore è morto annegato.

Abbracci sua madre. Le sue urla squarciano il silenzio dell’Isola. Piangete sotto gli ultimi bagliori violacei del tramonto che si spengono alle spalle del vulcano.

Le barche tornano in porto e il buio assorbe ancora a lungo la vostra disperazione.


I primi giorni sono solo dolore. Le ultime settimane d’estate non si decidono a passare tanto in fretta. Le ore di luce sono le peggiori.

Il pianto ti coglie all’improvviso ovunque: mentre sei alla guida, in camera tua, quando fai colazione. Le immagini delle sue labbra, del suo sorriso nelle sere di luglio sono lampi di dolore che colpiscono a intermittenza e si lasciano dietro l’eco di un’assenza straziante.

A settembre, sotto le carezze del Maestrale, la costa del golfo si staglia cristallina nell’aria nitida. A settembre si sta in pena anche quando si è allegri. Ma le giornate poco a poco si accorciano, e questo per te è un bene. Non hai mai aspettato l’autunno con tanta impazienza. La tua chitarra aspetta in un angolo. In testa una sola canzone, uno stesso desiderio. Mare, mare, voglio annegare, portami lontano a naufragare.

Hai ripreso a fumare e hai passato due giorni senza dormire e senza parlare. Capita che ti fermi con la sigaretta sospesa, nel silenzio della tua cucina, colta dal pensiero della cernia. Pensi: la cernia, arpionata sul fianco a quaranta metri di profondità, doveva essere ancora viva mentre lui annegava. La vedi un attimo prima di essere colpita, affacciata all’anfratto della sua tana, che fissa uno strano animale che nuota a testa in giù verso il fondo e che le punta contro un fucile. Poi è nella sua tana buia, con l’arpione metallico che le lacera la carne, ad aspettare di morire. Com’era lontana, quanto era profonda la cernia. Eppure quella distanza non è bastata per salvarli l’uno dall’altro. C’era un limite che si è spezzato. Gigi, perché sei andato oltre?


Ti risvegli sul tavolo della cucina senz’aria. Stavi trattenendo il respiro. Hai la testa ammaccata e i capelli impiastrati di saliva. Apri la finestra e osservi il crepuscolo farsi largo tra le antenne e i palazzi. Nel sogno eri in apnea. L’acqua ti circondava scura e tu nuotavi in cerca della superficie senza trovarla. Scalciavi, i polmoni che ti scoppiavano ma non riuscivi a orientarti, il liquido era un labirinto colloso, finché qualcuno non ti prendeva la mano e t’indicava la luce. Di colpo eri leggera. Era Gigi? Non lo sai. Ti accorgi che non riesci a ricordare il suo volto e questo pensiero ti riempie di odio verso te stessa. Cominci a dimenticarlo? Stai scegliendo i ricordi di lui da portare con te in futuro?

In realtà il dolore non matura, si sta cicatrizzando nelle tue spalle e sulle tue labbra. Quante domande gli vorresti fare adesso. Se fosse qui adesso lo sommergeresti di baci e carezze.

Un giorno, senza averci pensato su, riprendi la chitarra e suoni finché non ti fanno male le dita. Quando smetti sei stordita e hai la testa vuota come non ti capitava da tempo. Allora cominci a suonare e a cantare sempre più spesso, da sola e di fronte alla gente.

Mentre canti tieni gli occhi chiusi, ma qualcosa continua a penetrarti attraverso le palpebre: è la luce di quella mattina che si riflette sulla sabbia nera; lo rivedi a riva che si infila le pinne; ti saluta calandosi la maschera sul viso e tuffandosi verso il largo. Quando riapri gli occhi, tutti intorno a te ti sanno applaudendo.

Canti per ritrovarlo, ma è sempre più faticoso. La sua immagine si sbiadisce nel tuo ricordo.


Tutti te lo sconsigliano, dicono non è una buona idea, ma un giorno non resisti e fai qualche ricerca su internet. All’inizio c’è un fatto che ti fa arrabbiare: capisci che se tu fossi stata lì con lui avresti potuto salvarlo, ma sai bene che Luigi amava pescare da solo, e se tu sei rimasta a leggere mentre il suo corpo senza vita galleggiava alla deriva, trasportato dalle correnti del Tirreno, non è stato frutto delle tue scelte. Infine, ciò che leggi finisce col consolarti: scopri che non è stato il poco ossigeno a ucciderlo, ma la troppa anidride carbonica nel sangue che lo ha fatto svenire. Ora riesci quasi a immaginare la sua ultima immersione. Il silenzio delle profondità, una sagoma bruna dietro uno scoglio, il dito sul grilletto, l’asta scoccata che trafigge le branchie della cernia, la gioia per la cattura, l’arrampicata verso la vetta d’aria, la parete di acqua che si fa sempre più ripida, e a pochi passi dalla luce la fame di respirare che si fa schiacciante – ma c’è ancora il mare a circondarti. Si sviene sempre a pochi metri dalla superficie. Tutto pian piano diventa buio e ci si addormenta. Lo chiamano black-out. Si sviene, ma è come addormentarsi, racconta chi lo ha provato e si è risvegliato, salvato da un compagno.

 Addormentato. Il tuo Gigi si è addormentato, cominci a pensare. Così guardi il suo ultimo tuffo con più dolcezza.


Una notte, in preda alla tachicardia, ti vesti, scendi in strada e t’incammini senza meta mentre la città si risveglia. Macini passi su passi senza alzare la testa. Dopo tanti chilometri sei distrutta e hai voglia di caffè. Ti guardi intorno e ti accorgi di essere sotto casa sua.

Mentre sei al bancone, nel bar dove avete spesso fatto colazione assieme, entra sua madre.

Rita ti vede e ti viene incontro. Tu l’abbracci e piangi sulla sua spalla. Il profumo sul suo cappotto di lana ti calma, ti ricorda le magliette appena stirate che si metteva lui.

Sedute a un tavolino del bar, lei ti racconta delle storie di quando lui era piccolo, e lo fa sorridendo, come se fosse partito per un viaggio, come se in realtà fosse altrove. Gli occhi di Rita sono spenti, ma dello stesso colore di quelli che hai amato. Chiedile un consiglio; chiedile: “Come fai a non pensarci ogni istante?”. Lei ti dice che non è così, che ci pensa ogni secondo che passa, anche se prova a tenersi occupata. Fa tante cose. Ha fondato perfino un’associazione per la difesa del mare. Non lo sapevi? Organizzano incontri, progettano giri in barca. Tante persone con questa passione, come te e Gigi. Ti assicura che un giorno dovresti andare a trovarli. Ti farebbe bene, dice lei, riconquistare il rapporto con il mare.

Scuoti la testa. Il mare non è più un amico. Non ti è mai stato così distante e ostile.

Non devi essere arrabbiata, ti dice Rita. Il mare non ha colpe. Non si è preso Luigi in un naufragio o in una notte di tempesta. No. Luigi ha cercato qualcosa dentro di sé, e si è addormentato dopo essere forse riuscito a comprendere un segreto troppo grande da poter esser riportato in superficie. Quel segreto rimarrà per sempre nella pace degli abissi. Per questo, prendersi cura del mare è un po’ come riabbracciarlo.

Ora per te il mare è una trappola notturna in cui ti ritrovi immersa. Trattieni il respiro per incontrarlo, lui è da qualche parte, lo sai, ma non riesci a vederlo, intorno a te è tutto buio. Riemergi dagli incubi a corto d’aria e con il cuore che scoppia. Stavi annegando. È questo che hai paura di voler provare?


Una sera, per caso, leggi di un incontro organizzato dall’associazione di Rita. È vicino casa tua e ci vai a piedi per salutarla. Lei ti abbraccia forte. Ti presenta un po’ di persone. C’è anche sua sorella Anna. Vi salutate con la mano. Sei confusa.

All’inizio la folla ti stordisce, ma sono tutti sereni e ti trasmettono affetto. Ci sono foto di fondali marini: scogli, coralli, balene e granchi appese alle pareti. Sono ricordi di un luogo che hai amato tanto tempo fa. Prendi posto e ascolti i racconti di biologi e fotografi, le loro poesie e i loro progetti mediterranei.

Un uomo dagli occhi blu parla di scendere sott’acqua trattenendo il respiro. Dice che è meraviglioso, una forma di meditazione. E parla di quanto era bravo Luigi.

Lo ascolti da lontano, senza il coraggio di avvicinarlo. Vorresti dirgli che non è meraviglioso, è una scemenza, ci sono le bombole per esplorare il mondo sottomarino, e tutti quelli che trattengono il fiato sono dei cretini.

Invece resti zitta e saluti tutti. Rita ti dice che ti aspetta. Tornerai, non è vero?


Il sonno continua a essere acqua torbida in cui non puoi respirare.

All’inizio ti sembra una follia ciò che ti hanno suggerito. Eppure, le paure che non affronti diventano terrori. C’è qualcosa che hai smarrito là sotto. In fondo hai sempre amato il mare anche tu, no?

Non lo ammetterai mai, ma hai una paura matta. Rita non è sorpresa quando ti dà il suo numero. L’uomo dagli occhi blu ha una voce tranquilla al telefono. Gli chiedi se conosce un buon corso ed è pronto ad aiutarti. Lo tiene lui stesso.

Vi incontrate a un tavolino di un bar e gli racconti la tua storia. Fidati dei suoi occhi fluidi. Lui ti ascolta e non ti fa nessuna domanda. Ti dice solo che il mondo sommerso è un luogo da visitare per ascoltarsi. Ascoltandosi si diventa consapevoli e con la consapevolezza si possono sconfiggere le proprie paure.

Quando vai in piscina la prima volta, l’odore di cloro ti brucia le narici già dallo spogliatoio, dove senti allarmata gli schizzi provenire dalla vasca lì affianco. Percepisci una presenza acquatica nemica poco distante. Non nuoti dall’estate scorsa e la piscina all’inizio ti è così estranea che sembra voglia risucchiarti. Un tuffo e sei in acqua. Calma ora. Se stai calma e muovi le gambe, resti a galla, come sempre.


Le lezioni si tengono tre sere alla settimana. L’acido lattico delle prime volte riesci a smaltirlo in pochi giorni. Dopo due settimane hai smesso di fumare e per la prima volta concludi un’intera sessione. Dopo un mese cominci a infilarti nel letto prima di mezzanotte.

Ti insegnano dei trucchi per respirare meglio e per rilassarti quando sei nervosa o prima di addormentarti: il diaframma soffia aria dentro e fuori con un ritmo che puoi arrivare a controllare. Ascolta com’è strano il nostro organismo: quando immergiamo la testa in acqua, il nostro cuore rallenta per sprecare meno ossigeno; quando scendiamo a quote dove la pressione potrebbe ucciderci, il sangue si concentra nei nostri polmoni affinché non esplodano. Non siamo fatti per vivere in acqua, ma il corpo umano sa adattarsi in modi ingegnosi all’immersione. Veniamo tutti da lì, in fondo. Da una pozza d’acqua.

I sogni in apnea diminuiscono. Spesso sei ancora immersa, ma questa volta a nuotare verso il largo. Senti che il mare, sotto di te, è profondissimo, ma non hai paura e continui a nuotare sebbene non si veda il fondo. Vorresti che Luigi fosse lì con te adesso. Vorresti fare un giro con la maschera con lui come quando ti insegnava i nomi dei pesci. Eppure non riesci a incontrarlo nemmeno in quelle terre misteriose.

Tre sere alla settimana, quando sei in acqua, impari a conoscere il silenzio.

A volte, mentre trattieni il fiato pinneggiando da un bordo all’altro della piscina fissando le piastrelle azzurrognole del fondo, ripensi alla sua risalita e alla superficie illuminata, che doveva essere così vicina. Riemergi, riprendi aria. Fai scorrere questa paura dentro di te, falla fluire insieme all’acqua che scivola sulla tua pelle. Mentre sei immersa, prova a concentrarti sul tuo corpo, sulla punta dei tuoi piedi tesa come una coda, immaginati come se ti stessi osservando. Stai planando sospesa nel nulla. Saresti mai riuscita a immaginare che esiste il nulla?


Il giorno della prima immersione in mare si tiene una domenica di giugno. Il sole sparge la sua luce tiepida sulla costa e sulle piccole onde.

Vi preparate su una spiaggia. Indossate le mute e le zavorre e salite a bordo di una lancia. La piccola barca solca la pianura d’acqua verso il largo.

C’è tanto cielo. Fa caldo con la muta di neoprene addosso. Metti una mano nell’acqua che scorre lungo lo scafo: è fresca. Ti sciacqui la faccia e vorresti berla.

L’istruttore ti sorride dal timone. Anche gli altri sub ti sorridono.

Guardi verso terra, il profilo della costa si è rimpicciolito, e gli alberi e i palazzi si appoggiano tranquilli sulla roccia. La barca si ferma e ti ritrovi nel silenzio. Nessuno parla. Qualcuno cala l’ancora. La barca si adagia sulla lieve corrente che le sbatte sulla prua.

Ti cali la maschera sul viso. Fai due respiri e con una capriola ti ritrovi in acqua.

Sei in mare. Galleggi una meraviglia. L’acqua fredda penetra nella muta poco alla volta, e poco alla volta si riscalda.

Il fondo non si vede. Ma non è importante. Non ti interessa dov’è il fondo, ti hanno detto più volte. Resti ferma così in superficie a scrutare l’acqua. Quanto ti è mancata. Acqua assassina e benedetta.

Stendono un cavo verticale da una boa che corre teso verso il fondo. È il vostro cavo guida. Quando scenderai in verticale a testa in giù, dovrai guardare il cavo, non il fondo, anche se all’inizio è la cosa più innaturale che c’è, come camminare all’indietro. Ma a te non deve interessare dove vai. Tu devi seguire il cavo quando scendi e anche quando risali.

Ora è il tuo turno. Ti avvicini alla boa. L’istruttore ti guarda da dietro il vetro della maschera. Gli fai segno che è tutto ok. Ti prepari con calma. Conti i respiri e provi a non pensare a altro se non all’aria che entra ed esce dal tuo corpo.

Guardi il cavo, una semiretta bianca che si perde nel verde sterminato e incerto degli abissi. Senti le tue pinne distese morbide sul pelo dell’acqua. Sei rilassata, ti ripeti.

Una grossa medusa ti passa accanto in balia della corrente.

Per un attimo pensi a Gigi, alla cernia, alle loro sagome perdute nel baratro.

La tua mente ritorna sgombra, in questo momento percepisci un’armonia silenziosa che ti avvolge.

Quando sei pronta, fai tre respiri a pieni polmoni e trattieni il fiato. Con una capovolta t’immergi e cominci a scendere in apnea verso l’ignoto delle profondità.


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3 Comments

  1. Contenta di aver letto questo racconto. Mi è piaciuto tutto .Interessante la trama e magnifica e potente la scrittura

    1. Bellissimo racconto commovente scritto molto bene l’autore dimostra sensibilità e insieme maturità cosa difficile oggi in un giovane scrittore

  2. Bel racconto con una buona misura di angoscia e di respiro, molto ben còlta e riproposta nella copertina

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