Cripte del sesso per persone tristi

La questione è molto semplice. Vargas si è letto Alien Virus Love Disaster di Zona 42 e sta avendo uno dei suoi rarissimi momenti di entusiasmo che normalmente sfocerebbero in una recensione, ma poi ci siamo detti Malgrado le Mosche pare sia una rivista di racconti e questa è una raccolta di racconti e per un caso del tutto fortuito uno di questi è talmente in sintonia coi temi che ci piacciono da dare l’illusione che Martello abbia telefonato dall’altra parte dell’Atlantico per chiederlo direttamente alla povera Abbey Mei, che giustamente l’italiano non lo capisce e sarebbe rimasta abbastanza confusa. Quindi abbiamo preferito chiedere a Zona 42 che ha graziosamente deciso di concedercelo in estratto.

La redazione

di Abbey Mei Otis, traduzione di Chiara Puntil e Chiara Reali per Zona 42
Copertina di Zona 42

Non è che sia un grande mistero. È un sacco di lattice traslucido di dimensioni umane. Mi tolgo i vestiti e mi ci arrampico dentro. Sigillano la parte superiore. C’è una guarnizione di gomma collocata sopra la bocca, così riesco a respirare. Le labbra sono l’unica parte di me che rimane esposta, motivo per cui devo mettermi il rossetto, ma l’ombretto è facoltativo. Poi attaccano un tubo a una valvola sul bordo inferiore e risucchiano tutta l’aria dal sacco. Le braccia mi si attaccano al corpo. Le gambe vengono strette insieme. Allacciano le cinghie rinforzate in cima al sacco a un gancio sul soffitto e mi sollevano di sessanta, ottanta centimetri dal pavimento. È come se mi appendessero dalla pelle, ma senza dolore. È come se il cervello mi affondasse in una pozza di crema.

Sono nel privé più esclusivo del club A Fior di Pelle; solo i soci Venere Dorata Tripla Deluxe possono entrarci. A volte sono dirigenti che folleggiano, ma stasera si tratta di un politico e dei suoi sodali dell’università. Non so altro. Su un tavolo coperto da una tovaglia bianca sono disposti tutti gli attrezzi tra cui scegliere, i vibratori e i rasoi di sicurezza, gli elettrostimolatori e il ghiaccio e i morsetti. Le regole sono: zero danni al sacco, zero danni alla perfomer. C’è sempre qualcuno che controlla, da qualche parte, una finestrella in alto.

Il lattice quadruplica ogni sensazione. Un colpetto sulla scapola si irradia attraverso tutta la schiena. I clienti lo adorano, quando gemo. Si allungano per sfiorarmi le labbra. A volte mi spingono avanti e indietro, come un blandissimo tira e molla.
A volte si strusciano contro di me. Questo politico adora il ghiaccio colorato. Regge i cubetti con pinze argentate e li fa scivolare lungo le mie cosce. I cubetti sono fatti di un liquido più denso e più scuro dell’acqua, e quando si sciolgono lasciano scie rosse e viola e verdi. I suoi compagni mi dipingono come se fossi una tela, e io urlo dal freddo.

Penserai che ogni tanto vada nel panico e mi contorca e ghermisca il sacco. Penserai, ma non lo faccio. Non l’ho fatto neanche la prima volta. Sono brava a non reagire al primo stimolo che mi passa per la testa. Quando i clienti se ne vanno e abbassano il sacco e lo aprono, ne esco senza nessun segno, solo un filo di sudore sulla schiena. Spolverano il sacco di talco, per essere sicuri che non ci rimanga incollata. Mi dà un profumo secco e floreale. Quando arrivo a casa, Kevin mi coccola sul divano e accarezza l’interno delle braccia. – Questo lavoro, piccola. – Lo dice come se fosse una maledizione. – Ti fa la pelle così morbida. Sei persino più morbida di Flower.

Sul pavimento, Flower è impegnata con un orecchio di maiale, ma picchia la coda quando sente il suo nome.


Ho conosciuto Kevin perché era un assistente nel reparto della casa di cura dove stava Mamma. Era sempre il migliore a spiegare le cose, a cosa serviva il nuovo macchinario o perché le avevano modificato i dosaggi. Mi scriveva a fine turno per farmi sapere che stava dormendo tranquilla. Mi dicevo che era gentilezza; era una persona gentile, il che era buono. Ma a un certo punto ha iniziato a farsi sentire anche quando non era al lavoro, e dopo un po’ ho preso a mandargli anche i più piccoli dettagli della mia vita. Ho un taglio da carta sotto l’unghia del pollice, e mi fa male. Oppure, pensavo di avere un insetto tra i capelli, ma non è così.

Te ne vai in giro per un bel po’ reggendo tra le mani le minuzie che ti compongono, e non è così male, neanche poi tanto pesante. È semplicemente una cosa che va fatta. E poi, ogni tanto, arriva una persona che spalanca le braccia come il piano sgombro e pulito di un tavolo, e di colpo le tue mani si sentono insopportabilmente piene, e sai che tutto ciò che era vero non lo è più, e non riusciresti a continuare a reggere così tante storie minuscole da sola neanche per un altro istante.

Una sera del weekend al Fior di Pelle mi frutta seicento per una nottata nella media, ma non riescono a coprire noi più Mamma più Kevin che vuole fare la scuola serale per infermieri, quindi durante la settimana lavoro con una seconda media dell’indirizzo Metodi di Apprendimento Alternativi all’interno dell’Accademia Preparatoria Libertà Collegiale Stelle & Strisce. La scuola è in un’area commerciale, in quella che credo fosse la sede di una banca. A volte i bambini vendono biscotti per beneficenza attraverso lo sportello del drive-through. La Stelle & Strisce mi ha assunta senza spiegarmi esattamente in cosa consistesse un Metodo di Apprendimento Alternativo, e sto ancora cercando di capirlo. Per esempio, da quanto vedo, il metodo di apprendimento di Champagne è riprodurre suoni tecnologici a un volume assordante. O il metodo di apprendimento di Brooklyn è la masturbazione furtiva e incessante. O il metodo di apprendimento di Jolie sono le balene.

Oggi, in classe, dovrebbero ripassare le origini dell’economia dell’offerta, ma Champagne continua a dimenarsi e quindi ha la testa sotto alla sedia e il culo che sporge a mezz’aria. – Mi fa male, – dice. Il signor K le dice di mettersi a sedere e lo fa, ma poi alza la mano, gesticolando bagno e facendo schioccare il catarro in gola come se fosse una macchina da scrivere.

Alla fine il signor K la lascia andare, e fa un buffo balzo convulso attraverso l’aula e fino al bagno. La classe è di nuovo attenta e il signor K. sta cercando di farsi dire chi è l’uomo nella foto sulla lavagna elettronica. Tirano a indovinare, Occhio di Falco o John Cena o forse Rainbow Dash e quindi il signor K batte le mani tre volte per avere un po’ di silenzio e poi dice, – A dire il vero, questo è John Maynard Keynes!

Dal bagno proviene uno schianto. I ragazzi saltano su e Prius dice – Pulizie al reparto 5! – imitando perfettamente un altoparlante. Quando arrivo in bagno trovo Champagne sul pavimento con i pantaloni dell’uniforme attorno alle caviglie, che si contorce come una sirena spiaggiata. Emette un suono acuto e insistente come quello di un rilevatore di monossido di carbonio e si artiglia i fianchi. Le sue mutande di Minnie sono probabilmente di quattro taglie in meno. L’elastico è teso come fil di ferro. Le affonda così tanto nella carne delle gambe che ha dei bozzi rosso vivo sulla pelle, e chiazze violacee sulle cosce. Interrompe il suono del rilevatore abbastanza a lungo da guardarmi con gli occhi traboccanti. – Mi fa male.

Torno in aula. – È incastrata nelle mutande, – dico al signor K.

Interrompe la sua spiegazione della curva di Laffer. – Cosa?

– Qualcuno le ha fatto mettere delle mutande troppo piccole. È incastrata.

Continua a guardare da me al diagramma sulla lavagna elettronica. – Cristo.

– Le fanno male. Dobbiamo tagliarle.

– Oh, no. – Porta entrambe le mani alle mascelle, come se improvvisamente qualcosa avesse preso a pulsare. – Non possiamo tagliare le mutande a un alunno.

– Beh. Non riuscirà a prestare attenzione.

Brooklyn alza la mano: – Io ho delle mutande.

Il signor K fa un cenno vago verso la lavagna. Si massaggia le palpebre. – Cristo. – Guarda verso di me. – Devi farlo tu. Non posso entrare lì dentro insieme a lei. Non mi pagano abbastanza per questo.

Prius dice, – Ora disponibile in tre comode rate da diciannove e novantacinque!

Quando torno in bagno, Champagne sta ancora tremando sul pavimento. Le appoggio la testa sul grembo. Emette un debole trillo da computer. Le faccio scivolare la lama delle forbici lungo il fianco, fra la pelle e le mutande. Il trillo si fa un tantino più pressante. Cerco di non pungerla, ma solo toccare i bozzi la fa sobbalzare. Champagne è grande, per avere dodici anni. La sua carne, liberata dall’elastico teso, esala di sollievo, torna liscia e compatta. Affetto il cotone su entrambi i fianchi e per un attimo lascio che si sdrai sul mio grembo, svestita, trillando, con la faccia sepolta nella mia gonna. Le sciacquo i bozzi solo con l’acqua, perché vedere il sapone la manda nel panico. Li bendo con garza e nastro, perché non abbiamo cerotti abbastanza grandi. Le abbottono i pantaloni dell’uniforme. Le allaccio la cintura. La tiro su dal pavimento e la faccio guardare verso di me. – Per oggi smutandata, Cha-cha. Non fa niente.

Emette un beep disperato ma quando apro la porta del bagno esce per prima.

Marcus ha prenotato il mio intero venerdì sera al Fior di Pelle. Marcus viene una volta al mese. Ha uno di quei mestieri che sembra importante se non stai troppo a pensarci. Porta degli anelli, ma non li usa mai per farmi del male. Stasera sta seduto a lungo a gambe incrociate sul pavimento di bambù, coi calzini di cashmere e la guancia premuta contro al mio polpaccio. Si aggrappa alle mie dita dei piedi come se fossi una donna gonfiata a elio che potrebbe volare via in qualunque momento.

Mi racconta dei suoi bambini, di come sua figlia pianga e non voglia andare a scuola. Sua moglie vuole parlare con degli specialisti. Lui ne ha paura. Non voglio che si senta un fallimento, dice di sua figlia. Non voglio che pensi che non va bene così com’è. Vuol dire che anch’io sono un fallimento? Vuol dire che io non vado bene? Lui e sua moglie hanno litigato ogni sera, questa settimana. Le ha detto che era troppo pronta ad ammettere la sconfitta. Lei gli ha detto che era deliberatamente cieco, troppo debole per chiedere aiuto, patetico nell’insistere ottusamente col suo va-tutto-bene.

Respiro forte perché sappia che sto ascoltando. Non parlo. Dopo un attimo va verso il tavolo e sceglie l’elettrostimolatore. Lo porta da me, dondola la sua punta sottile, come la fiamma di una candela fatta di vetro, a un millimetro di distanza dal mio stomaco. Sono immobile, non come qualcosa di morto: ma come una cosa assolutamente padrona della situazione. L’elettrostimolatore ronza. Per un attimo rimaniamo in equilibrio su questo picco di necessità. Niente di così misterioso, solo una persona che per un po’ vuole non fare male a qualcuno. Preme un pulsante sull’elettrostimolatore. Un unico filamento di luce rosata salta fuori verso di me e mi contorco come un pesce preso all’amo. Nella testa non mi è rimasto nulla, non il suono dell’elettricità che mi scoppietta sullo stomaco, lungo le cosce, solo un dolore come viti di metallo nella rete morbida dei miei nervi.

Piango e stacca la bacchetta di colpo. La molla sul tavolo e si preme sul mio corpo. La testa tra i miei seni, le labbra che premono sul mio sterno attraverso il lattice. – Non sono un fallito.

Ci vuole un attimo perché i miei nervi si svitino. La mia lingua si sblocca. La muovo all’interno della bocca e spingo la saliva verso la pelle di carta velina delle labbra. – No, – gli dico. – No, non lo sei.

Strofina il naso contro il mio petto. È così che parlo a Marcus. – No, non sei un fallito. Lavori così duro. Sei così intelligente. Così intelligente. Un bambino davvero intelligente. Un bambino proprio bravo e intelligente. – A ogni frase miagola e rotola la testa sul mio torso. Preme l’orbita dell’occhio contro il cuscino del mio braccio. Preme la bocca sulle mie costole. – Il mio bravo bambino. Sono così fiera di te. Così fiera di te.

Mi sfiora la clavicola con la tempia, ma non cerca di arrivare più in su. A Fior di Pelle ha misurato molto attentamente l’altezza da cui pendo. Sono alta quel tanto che basta a impedire che anche un uomo più alto della media riesca ad arrivare alle mie labbra con le sue. E quindi Marcus se ne sta con la testa rannicchiata su di me, le braccia avvolte attorno al mio corpo come se altrimenti potesse collassare. Il lattice ormai si è scaldato, teso tra noi due come una seconda pelle, anche se non è più chiaro se si tratti della sua o della mia.


Penserai che il mio corpo sia affollato dai ricordi del dolore. Lo penserai, ma non lo è. Di notte sono stesa nel letto con Kevin e sento solo il fresco del lenzuolo e il tepore della sua pelle. Quando ci siamo messi insieme, dormivamo aggrappati l’uno all’altra come amanti che attraversano il Niagara dentro a una botte, ma le cose vanno allentate, perché durino. Ora dormo supina con un braccio teso verso di lui, e Kevin dorme sullo stomaco con il braccio allungato sul mio petto. La punta delle sue dita mi sfiora appena il seno.

La prima cosa che gli abbia mai visto fare è stato contare le pillole di Mamma. Non riuscivo a staccare gli occhi dalla delicatezza delle sue mani. Ora ci sono volte in cui lo odio così tanto che macchie pallide mi offuscano la vista. Penso a tutte le minuscole cose che so di lui che nessun altro sa. Penso a quanto sono benevola, a non dirle ad alta voce. Piccinerie, scorrettezze, colpi bassi e velenosi. Voglio che mi sia grato perché non dico quello che potrei dire. Voglio che cammini in ginocchio da me e si aggrappi alle mie gambe e lecchi il miele che sgorga dalla mia pelle.

Per esempio, potrei dirgli che a volte lascio che mi aiuti a fare certe cose e poi ci torno su e le faccio per bene. O potrei dire, quando parli in pubblico non sei così bravo come credi. E inoltre, so che il tuo nuovo taglio di capelli dovrebbe darti un’aria professionale, ma a dire il vero sembri un po’ un nazista.

 Sono certa che ci siano anche cose che lui potrebbe dire di me, cose che non mi aspetterei ma che mi devasterebbero. Aprirebbe la bocca ed eccole lì, le mie più piccole paure messe a nudo sul tavolo. Tutte le cose di cui immagino non si renda neanche conto ma è ovvio che le sa, è ovvio che non c’è niente di nascosto tra noi, due pezzi d’ombra con la pelle d’oca e il cane disteso vigorosamente sui nostri piedi. Il cuore mi si gonfia dentro. Ci sono solo io, a proteggerlo da quelle ferite orrende. Solo la mia bocca fragile e perniciosa. Dovrebbe esserci una password, dovrebbe esserci una sicura. Chi si fiderebbe di me per un compito simile?

Suppongo che sia questo, l’amore. Traboccare fino all’orlo delle cose più crudeli che potresti dire a una persona, e non dirle. E loro se ne stanno lì, a pochi centimetri da te, a non dire le cose che ti farebbero più male. Portarsi dietro quella conoscenza insostenibile e sentire il calore irradiarsi dalla pelle dell’altro. Buongiorno, ciao, lascia che ti offra la colazione. Lascia che appoggi le labbra sul tuo collo come se stessi mettendo la testa dentro alla bocca di un orso. Sei tu l’unico missile, tu l’unico scudo.

Nella classe del signor K è l’ora di matematica, e stiamo studiando l’interesse composto. Tracciamo un grande grafico sul muro e usiamo pennarelli di diversi colori per indicare la differenza tra la capitalizzazione continua e quella giornaliera. – Ricordate, – dice il signor K. – Quando calcolate i pagamenti, dovete specificare sia la frequenza della capitalizzazione che il tasso d’interesse!

Oggi Champagne siede al banco composta. Continua a guardarmi di soppiatto, aggrottando le sopracciglia e mimando la parola Smutandata. Le faccio segno di girarsi verso il grafico. Accanto a me, Brooklyn strappa la sua scheda e la ripiega in piccoli aculei appuntiti che mi pianta nel braccio. Mi racconta di come l’Uomo Ago riuscirebbe a uccidermi lanciandomi uno di questi aghi nel collo alla velocità del suono. Seychelles si è appena ricordata di quando due anni fa è passato un camion dei pompieri che l’ha spaventata, e quindi ha iniziato a piangere. L’aiuto-preside butta dentro la testa e dice al signor K che durante la notte Jolie si è soffocata con il suo muco ed è morta.

Io sono dall’altra parte dell’aula che imparo tutto sull’Uomo Ago, ma vedo che il signor K incrocia le braccia molto in alto sul petto. L’aiuto-preside nota Seychelles che piange e annuisce. – Ah, ne eri già al corrente.

Non so ancora di cosa stiano parlando, ma intuisco che è una cosa seria dalla fermezza con cui il signor K scuote la testa. Brooklyn mi infilza di nuovo con la carta. – Invisibile a occhio nudo, ma un solo tocco ti distruggerà.

Champagne si sporge con la sedia per tamburellare sul banco vuoto vicino al suo. – Signor K, guardi, signor K? Jolie oggi è assente. – Assente è un termine che hanno imparato venerdì scorso, quando abbiamo spiegato loro la nuova politica sulla frequenza scolastica a tolleranza zero.

Finalmente il signor K si avvicina e me lo spiega e poi lo spieghiamo ai bambini. Lasciamo che si alzino dai banchi e girino per la stanza. Fanno suoni di campanelli e ballano il tip tap e si mangiano i capelli. Strofinano la faccia contro il mio corpo e miagolano. Nessuno di loro mi chiede perché. Ne sono felice perché non lo so, ma allo stesso modo in cui non so perché il padre di Brooklyn sia in New Mexico, o perché tutti gli altri alunni abbiano un intervallo di quindici minuti nel parcheggio dopo pranzo e loro no. Quando ti metti a pensarci sul serio, non credo ci sia un singolo mistero che è più grande di qualsiasi altro.

Il funerale è nella grande chiesa quadrata sotto ai binari della monorotaia. Non è sempre stata sotto ai binari, ma la chiesa è vecchia e il treno nuovo. I banchi riescono a riempire solo la metà anteriore della chiesa; la metà posteriore è piena di file di sedie pieghevoli con l’impronta di un culo scolpita sulle sedute di metallo. L’interno della chiesa è dipinto di un rosa salmone scrostato che è sbiadito in arancio nei punti dove arriva la luce delle finestre. Vado in bagno e i water sono bassissimi, come se fossero fatti per una prima elementare. Non serve dire nulla, credimi, so che al mondo ci sono posti che imprimono bellezza ai loro edifici e questo non è uno di quelli.

Questa settimana Kevin sta preparando un esame di anatomia, quindi sono qui da sola. Vado giù fino in fondo con la signora Madison del Consultorio e la signora Astrid del Centro per l’Impresa Creativa. Sediamo sulle sedie pieghevoli, le nostre ginocchia in fila avvolte nel poliestere dei pantaloni da chiesa. Sul davanti, la famiglia entra poco a poco, persone tranquille, con i vestiti da lutto ancora spiegazzati dall’essere rimasti nell’armadio così a lungo. Non è un posto bello, lo so, ma anche in questa chiesa le pareti color salmone si innalzano per due o tre piani. Persino in questa chiesa entri e riesci a sentire lo spazio fra te e il tetto aprirsi sempre di più. Puoi sederti assieme alla vastità della distesa d’aria.

Il sacerdote sul pulpito somiglia al cuginetto di Kevin. Tiene le mani alzate in aria per la gran parte del tempo, come se sperasse che lo faccia sembrare più alto. Ha molto da dire sulle cose da cui Jolie è stata risparmiata. È stata risparmiata dal crack, è stata risparmiata dalle anfetamine, è stata risparmiata dall’alcool, è stata risparmiata dal cristallo. Per ogni afflizione che sputa, protende di più le braccia, scuote le mani come se stesse cercando di scrollarsi un liquido denso dalle dita. È stata risparmiata dalla piaga, dall’altra piaga, risparmiata dal flagello innominabile.

Ci dice che non sta a Dio, farci alzare ogni mattina. I suoi occhi guizzano sopra le nostre teste come se stesse guardando dentro al mondo degli spiriti, ma io so che occhi hanno gli uomini quando assistono a un miracolo, e non sono così. Sta cercando di spiegarci come Jolie sia stata risparmiata dai peccati dell’adolescenza, ma continua a chiamarla Julie e finalmente uno degli zii seduto di fronte urla, – Jo-lee. Eddai, su.

Cerco con gli occhi la madre di Jolie. Da dove siedo riesco solo a vedere il retro della testa perfettamente sistemata e una parte minima della guancia. Quando veniva alle riunioni genitori-figli l’anno scorso non era neanche lontanamente così posata. Girava per tutta la stanza, raccoglieva giocattoli e li rimetteva giù. Avevamo visto la sua piccolina, ultimamente? L’avevamo visto, quanto stava migliorando?

Penseresti che sarebbe il tipo di donna che urla e si strappa i capelli, ma non lo fa. Il sacerdote sta lodando il signore per aver risparmiato Jolie dalla lussuria ripugnante degli uomini, e sua madre non piange né trema e nemmeno abbassa lo sguardo. La sala è piena di un’aria densa color salmone e non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Mi rendo conto che la sua è la tristezza più vera che abbia mai visto, e tutti noi abbiamo solo fatto finta. Lei è uno stadio della materia diverso da tutti gli altri presenti, una bruma, un getto di vapore. Come fanno tutti gli altri a non tremare al suo cospetto? Voglio strisciare ai suoi piedi. Voglio arrampicarmi nella nuvola che è, ritrarre tutti gli arti nella sua nebbia avvolgente. Non riesco più a sentire la voce del sacerdote. Tutti i fluidi dentro di me sono in pronti all’azione. Forza, mami, le direi, prendi il tuo fucile ad arpione, possiamo andare a caccia di Dio da sole, là fuori nel blu sconfinato, non ci perderemo niente.

Lo so, lo so, non sono affari miei. Sono brava a non reagire a ogni pensiero che mi passa per la testa. Non ho riflessi; compio scelte. Ce lo insegnano al Fior di Pelle.

E quindi scelgo di arrampicarmi sulle spalle di Astrid e Madison. Non mi sentono. Sono così leggera. Scivolo in avanti sopra ai banchi, passando da una testa all’altra come se fossero fronde di ninfea dentro a un’acqua immobile. Nessuno guarda in su, nessuno se ne accorge, sempre avanti fino alla parte anteriore della chiesa. Trovo la mamma di Jolie e le alzo le dita con le mie, sfiorandoci l’un l’altra così delicatamente, come se non fossimo nemmeno due corpi. Alza gli occhi verso di me e poi affonda la testa.

La porto fuori dalla chiesa e nessuno dice niente. La porto fino al Fior di Pelle, attraverso le porte scure, fino alla sala più in fondo. Le sto di fronte, le tocco il viso, le alzo delicatamente la camicetta dalle spalle. Ci spogliamo a vicenda senza neanche sfiorare la pelle dell’altra. Insieme entriamo nel sacco di lattice, e mi cinge con le braccia mentre lo alzano sopra alle nostre teste. Riesco a sentirla respirare; i nostri polmoni espandersi e contrarsi a turno.

Sigillano il sacco intorno a noi e rimuovono tutta l’aria in eccesso. Da fuori, il lattice vela le nostre forme e non si riesce a distinguere dove finisco io e comincia lei. Le mie braccia sfumano nella sua cintola. Il suo naso si fonde al mio collo. All’interno, il sacco è dolce e tiepido, la nebbia del suo respiro sulla mia pelle, i nostri seni che si affollano tra noi. Ci innalzano in aria e quindi siamo appese e possiamo sorreggerci solo all’altra. Due organi dentro a una sola pelle.

Poi entrano gli uomini. Tutti i più stimati clienti di A Fior di Pelle. Uomini ben rasati con i capelli impomatati. Uomini che si arrotolano le maniche della camicia, si allentano il colletto. Uomini che si massaggiano delicatamente i muscoli delle mascelle tesi. Gli uomini entrano e quando entrano passano accanto al tavolo coperto di una tovaglia bianca inamidata. Sulla tovaglia ci sono ciotole di cristallo, riempite di centinaia di cubetti di ghiaccio tinto di rosso.

Gli uomini entrano e prendono i cubetti di ghiaccio rossi e vengono verso di noi, me e mami, vengono verso di noi come se stessero entrando in chiesa. Sempre più uomini affollano la stanza, tutti col ghiaccio rosso che si scioglie sulle loro dita. Allungano le braccia verso i nostri corpi sospesi. Ci toccano con il loro ghiaccio. Fanno scivolare i cubetti lungo le nostre schiene, cosce, polpacci. Ci dipingono a strisce cremisi. Ci sono troppi uomini perché riescano tutti a raggiungerci, e quindi devono fare a turno. Come bambini che puntano i loro pastelli verso il muro, scribacchiano su di noi, disegnano spirali aggraziate, scarabocchiano le proprie iniziali per poi tamponarle. Ci strofinano finché ogni centimetro della nostra pelle traslucida sgocciola di rosso.

Ormai non mi ritraggo più per questo genere di cose, ma mami piange quando il primo tocco di freddo la brucia attraverso il sacco. Piange in modo così puro, con la bocca aperta. Sento i suoi sussulti caldi contro la spalla, gli spasmi dei suoi muscoli contro i miei. Anche se lì fuori stanno così attenti. Questi uomini che vogliono solo non fare del male a niente per un po’. Va tutto bene, sussurro. È tutto qui. Non ti tocca per davvero. Sembra di sì, ma non ti tocca. Anche quando il dolore è così grande da farti pensare che lascerà per forza il segno, o che forse non ne emergerai mai. Non preoccuparti. Sei tutta intera. Continuerai a vivere. Inarca il collo così.

La testa le cade all’indietro.

Affonda le unghie così.

Le sue dita mi cavano i fianchi.

Respira … così …

Respira,

e respira.


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