Quattro quarti

di Daria Premoli
Copertina: Cormorano di Gabriella Comparato

Estate – Un nido di Cormorani

Miriam

Mentre attraversano il villaggio diretti alle Dune, non incontrano nessuno. La sera prima si è alzato il maestrale e ora minaccia pioggia.

Sono tutti in casa, aspettando che passi.

Il cielo è grigio e basso con le nuvole che coprono tutto l’orizzonte come strati di bambagia. L’aria è densa di umidità e in lontananza il mare sembra una distesa di mercurio, lucente e compatto.

Camminano uno di fianco all’altra. Come sempre Miriam fa fatica a stargli dietro. Carlo non si rende mai conto di quanto va veloce, e a lei scoccia dirglielo. Non vuole fargli notare che è più piccola di lui. Per un attimo sono così vicini che le loro dita si sfiorano e Miriam pensa che le prenderà la mano. Non l’ha mai fatto, ma le piacerebbe.

«Sei sicuro che sia una buona idea?» gli chiede bloccandosi all’improvviso con gli occhi fissi al cielo.

«Non ti fidi?» le chiede mentre aggrotta la fronte. Gli si è formata una ruga tra gli occhi.

«Non so, dovrei?» risponde lei, spostando il peso da una gamba all’altra.

«Mi pare proprio di sì. Ti sei già dimenticata di settimana scorsa? Adesso sbrigati. Sennò ci becchiamo davvero un sacco di acqua», taglia corto lui prendendola per un braccio.

Miriam non può fare a meno di pensare al giovedì prima, quando l’aveva chiamata verso le 2 di notte e l’aveva convinta a sgattaiolare fuori di casa. «Devi venire: è uno spettacolo!» le aveva detto. E aveva ragione. La luna sembrava una gigantesca sfera arancione che lasciava una scia colorata sul mare così scuro da sembrare quasi nero. Il pomeriggio successivo quando era passato a prendere suo fratello per andare a giocare a tennis al campo dell’albergo, l’aveva salutata appena con un cenno della testa e un mezzo sorriso, ma forse se l’era solo immaginato.

Fanno zig zag tra i sentieri che costeggiano le villette e arrivano al muretto a secco che separa il villaggio dai terreni confinanti. Carlo le prende la mano e l’aiuta a scavalcarlo, anche se ce la farebbe da sola perché è basso e abbastanza largo da sedersi sopra.

Camminano un po’ tra le rocce e la terra arida. Nessuno dei due parla. L’aria fresca sa di salmastro e di elicriso.

Superate alcune calette, arrivano alle Dune. È una lunga spiaggia a forma di mezzaluna, non molto larga. Alle sue spalle c’è un avvallamento e poi cominciano delle piccole montagne di sabbia finissima, le dune vere e proprie. Nonostante vada in vacanza lì da quando ha 10 anni, non è che conosca così bene la zona. È stato lui a portarcela la prima volta.

Si inerpicano tra le creste modellate dal vento fino a raggiungere lo stagno, nascosto da cespugli di giunchi verdi e pungenti, e lo costeggiano per un lungo tratto, e poi Carlo le dice: «Guarda là, la vedi quella macchia scura?» indicando un punto dove la vegetazione si fa più fitta «È un nido di cormorani».

«Oh. È vero! Sono così piccoli» gli dice. 

Non li trova particolarmente belli. Le sembrano fragili, così esposti al tempo e ai predatori. Hanno un corpo minuto e un lungo collo che sembra spalmato con del lucido da scarpe nero. Si agitano e spalancano ritmicamente il becco giallo.

Rimangono a osservarli per un po’ mentre la mamma fa avanti e indietro dal mare. Li imbocca con cura assicurandosi che tutti ricevano un po’ di cibo.

Tornati verso la spiaggia si siedono ai piedi delle dune. Il vento si è alzato e Miriam ha la pelle d’oca dappertutto. Sono così vicini che sente il respiro di Carlo. Gli appoggia la testa sulla spalla e lui si muove appena. Lei trattiene il fiato perché ha paura che si allontani, invece si gira verso di lei e le scosta un ciuffo di capelli dal viso. Miriam sa che la sta guardando ma fa finta di niente.

«Perché mi hai portato qui?» chiede.

«Per vedere i pulcini. Pensavo ti sarebbero piaciuti» le dice lui.

«Si?» gli chiede dubbiosa.

«Non so» le risponde mentre si massaggia l’orecchio, come se volesse lisciarne il bordo in alto. Lo fa sempre quando è nervoso. «Di solito ti piacciono queste cose. Non sei come le altre…»

«Ah. È vero: le altre le saluti» gli dice, ma se ne pente subito.

Carlo sta guardando il mare come se stesse pensando a qualcos’altro e le accarezza una guancia con il dorso della mano.

Il cielo ora si è fatto di piombo. Ha un colore pieno e senza sfumature, come se fosse appena stato dipinto. La pioggia comincia a cadere. Le gocce sulle braccia di Miriam sono come biglie fredde e pesanti.

«È meglio che andiamo» aggiunge Carlo alzandosi, mentre le prende una mano per aiutarla.

«Sei gelata. Vieni qui» le dice e la prende tra le braccia.

Miriam appoggia la testa contro il suo petto ed emette un suono che dovrebbe essere un respiro profondo ma che sembra tanto un sospiro.

«Dovevi dirmi che avevi freddo» le sussurra sfiorandole i capelli con le labbra. «Ti avrei riportato a casa prima».

«Mi piace stare qui» gli risponde lei, scostandosi leggermente per poterlo guardare. È la prima volta che lo guarda negli occhi oggi.

«Anche a me» le dice Carlo. Poi le sorride e la bacia.

Carlo

Carlo si nasconde dietro una pianta di bouganville che lo copre quasi completamente e lancia qualche piccolo sasso contro la persiana socchiusa della camera di Miriam. Quando le imposte al primo piano si chiudono, si allontana e va ad aspettarla al Picco del Diavolo: è lì che si incontrano sempre. È un grosso sperone di roccia circondato da fichi d’india e cespugli di macchia mediterranea. Sta in mezzo a una lunga striscia di terra arida, ricoperta in qualche punto da ciuffi di erba gialla bruciata dal sole, e separa due file di villette che guardano il mare. Non c’è un vero sentiero e non ci passa mai nessuno.

Si ripara dal sole spostandosi dal lato dove si è formato un triangolo d’ombra. Vorrebbe fumare una sigaretta ma le ha lasciate a casa, così prende qualche pietra da terra e cerca di colpire la foglia secca e spinosa di un cactus qualche metro più avanti. Qualcuno ha intagliato due buchi rotondi in alto e c’è un’incisione lunga e stretta in basso, così da farla assomigliare ad una faccia.

Per quanto sia sempre circondato da tanti amici, quello è il momento che aspetta di più di tutta la giornata: solo con Miriam non sente il bisogno di essere qualcosa che non è.

Quando Miriam lo raggiunge gli sorride e Carlo la saluta con un cenno della testa. È tentato di toglierle un ciglio che le è caduto appena sotto l’occhio, ma si incammina senza dire nulla e Miriam lo segue.

“Non mi hai ancora detto dove stiamo andando” gli dice Miriam mentre costeggiano il muretto a secco che delimita la proprietà. La linea tagliafuoco non è stata ben ripulita e mentre camminano tra cardi selvatici e cisti si graffiano un po’ le gambe nude e abbronzate. Ogni tanto incontrano un’agave in fiore, dal suo fusto spuntano tante infiorescenze simili ad alberelli punteggiati di giallo che svettano come se volessero toccare il cielo.

“È una sorpresa” le dice Carlo.

Ieri mattina ha scoperto un nido di cormorani tra i giunchi dello stagno che c’è dietro la spiaggia delle Dune. Ha subito pensato che le sarebbe piaciuto.

Non sa spiegarsi come, ma ultimamente c’è sempre Miriam nei suoi pensieri.

Quando gioca a tennis gli pare di vederla sui gradoni di cemento che danno sul campo, ma è il troppo sole e pensa che dovrebbero smettere di prenotare all’ultimo momento e andarci dopo il tramonto quando fa meno caldo.

Quando vanno all’isolotto dei corbezzoli con le tavole da surf, vorrebbe che ci fosse lei seduta davanti a fargli compagnia, e non una delle ragazze che gli girano sempre intorno.

Quando lo coglie l’insonnia, si alza presto e va a nuotare alla Spiaggetta sperando di incontrarla, come la prima volta che si sono parlati. Lei era al largo e faticava a tornare a riva perché il vento era girato e portava fuori. Lui l’aveva aiutata e lei l’aveva ringraziato.

Superata la spiaggia, salgono verso le dune. Qui la sabbia è quasi bianca e ancora più fine. Il vento l’ha modellata fino a formare delle specie di gradini che come tanti semicerchi arrivano alla sommità. I piedi affondano leggermente e il calore li avvolge salendo dal basso, anche se è stato nuvoloso per tutto il giorno. Quando arrivano in cima a Carlo prende una strana euforia, come se all’improvviso il suo corpo fosse diventato l’epicentro di un terremoto e faticasse a stare fermo. C’è così tanta bellezza tutt’intorno: le dune sotto i suoi piedi, il mare alla sua destra, lo stagno un più in basso e Miriam al suo fianco.

Avrebbe voglia di prenderla per mano, di correre, di rotolarsi giù fino in fondo e di sentire la sabbia infilarsi dappertutto. I suoi amici lo troverebbero strano, lei no. Eppure non lo fa.

 “Guarda là. C’è un nido di cormorani” le dice Carlo quando arrivano vicino allo stagno, mostrandole un punto dove la vegetazione sembra farsi un po’ più rada.

“Dove? Mi sembra di vedere solo cespugli”.

Allora lui le si mette alle spalle e le solleva una mano e con la sua le indica il punto esatto.

“Li vedo! Come sono piccoli! Pensi che siano appena nati?”

“Penso di sì. Ieri non c’erano.”

Si intravedono almeno tre pulcini in mezzo a piccoli rami scuri e a qualche piuma grigia. Sono minuti ma sembrano già forti. Tendono il collo decisi verso la mamma per prendere il cibo. Quando lei si allontana non si lamentano, sembrano stringersi l’uno con l’altro come a farsi coraggio, nell’attesa che torni.

Scesi verso la spiaggia si siedono uno accanto all’altra ai piedi delle dune. L’aria è fresca e satura di umidità. Non si vede nessuna barca in mare: sono già rientrati tutti. Non piove ancora ma non manca molto.

Miriam appoggia la testa contro la sua spalla e lui la sente rilassarsi. Carlo si gira verso di lei, le prende il viso tra le mani e la bacia. All’improvviso gli sembra che la felicità abbia un sapore di salsedine e profumo di vaniglia.

Ormai il maestrale si è alzato, le creste delle onde sono bianche e ricciolute, e si infrangono contro gli scogli mentre la pioggia comincia a cadere.

“È meglio andare” le dice, guardandole la maglietta rosa che si sta ricoprendo di gocce grosse come ciliegie.

“Sì, comincia a fare freddo” dice Miriam sfregandosi le braccia con le mani per scaldarsi un po’.

Carlo la aiuta ad alzarsi, anche se vorrebbe che il pomeriggio non finisse.

Oggi, per la prima volta, ha capito come potrebbe essere la sua vita se non si sentisse sempre come un elastico, tirato tra quello che vorrebbe e quello che gli altri si aspettano da lui.

Autunno – Fame d’aria

Miriam

«Vai cara. Non è ancora passato nessuno a trovarlo, a parte la sua famiglia. Gli farà piacere vedere una bella ragazza» dice l’infermiera mentre le fa un cenno con la mano per indicarle la porta di fronte.

Miriam si domanda come sia possibile che non sia passato nessuno. Dove sono finiti gli amici, i compagni di università e quelli del basket?

C’è lo stesso odore di disinfettante e di malattia di tutti gli ospedali in cui è stata.

Le gira la testa e la determinazione che l’ha portata fino a lì sembra essersi polverizzata, e ora rimane solo la paura.

Quando entra nella stanza Carlo è a letto con gli occhi chiusi. Il viso è più magro e pallido, ha gli occhi segnati e una flebo attaccata al braccio. Per un attimo le sembra quasi di vedere quella piegolina che gli si forma di fianco alla bocca quando sorride.

«Vi ricordate quel mio amico del mare? Carlo, quello di Torino. Ieri mi ha chiamato Michi e mi detto che ha tentato il suicidio. Gliel’ho dovuto far ripetere due volte. Non riuscivo a crederci. Stava bene quando ci siamo salutati dopo Ferragosto» dice suo fratello Marco scuotendo la testa e poi allungando la mano per prendere del pane.

Sono tutti seduti a tavola sul terrazzo di casa per il pranzo della domenica. È già ottobre ma l’aria frizzante e umida del mattino adesso si è fatta tiepida.

Suo fratello studia in un’altra città e un paio di volte al mese torna a casa per il fine settimana.

A Miriam manca il respiro: si sente come se tutta l’aria le fosse stata risucchiata via dai polmoni. Deve essere quello che si prova quando si sta per affogare, pensa. Ha letto da qualche parte che prima si consuma tutto l’ossigeno e poi si perde conoscenza. Forse sta succedendo anche a lei: le voci le sembrano lontane e confuse.

«Come è successo?» chiede sua mamma.

«Da quanto si è capito, sembra che abbia preso un mix di antidepressivi e analgesici» spiega suo fratello.

«Sembrava un ragazzo così perbene, con la testa sulle spalle» aggiunge il papà.

«Non si può mai dire…» fa la mamma alzandosi per andare in cucina.

Nessuno chiede come sta, pensa. Neanche lei ci riesce.

Quando la pasta al ragù arriva in tavola il profumo non sembra invitante come al solito. Lei ormai ha solo fame d’aria, così si alza da tavola senza dire nulla.

Quando Carlo apre gli occhi non riesce a nascondere lo stupore di vederla lì.

È passato più di un anno dall’ultima volta.

L’estate appena trascorsa lei non è andata alla casa del mare e lui si è fatto sentire solo con un paio di messaggi per sapere dove fosse andata.

Ha passato due mesi a Dublino per migliorare l’inglese, o almeno è quello che ha detto ai suoi genitori. In realtà stava scappando. Non riusciva a sopportare l’idea che Carlo l’avesse dimenticata, che la sua vita fosse andata avanti mentre lei non aveva fatto altro che pensare a lui.

Sente il cuore pulsarle nelle orecchie, e i suoni dal corridoio sono come amplificati: un telefono che squilla, il vociare di un gruppo di infermieri, lo stridio delle ruote di una barella sul pavimento di linoleum.

«Mi sei mancata» le dice.

Miriam si muove come a rallentatore. C’è una poltroncina alla destra del letto, vicino alla finestra che dà sul giardino interno. Un signore coi capelli bianchi si stringe la vestaglia scura in vita e si guarda in giro come se aspettasse qualcuno. Un po’ più in là due infermiere camminano a passo svelto, una delle due sta fumando una sigaretta. C’è una ragazza che spinge la sua carrozzina sotto un lungo pergolato. Ormai il glicine ha perso quasi tutte le foglie, ma deve essere bellissimo a primavera. Lì vicino un bambino raccoglie piccoli mucchi di foglie gialle e arancioni, le stringe tra le mani come fossero un bouquet e le porta alla mamma seduta su una panchina di metallo verde.

Si lascia andare sulla sedia e emette quasi un sospiro, come se fosse la cosa più faticosa che ha fatto negli ultimi mesi.

Carlo non ha mai smesso di guardarla.

«Vieni più vicino» le dice con un sorriso incerto.

Fa per accostare un po’ la sedia al letto ma lui batte piano una mano sul materasso.

«Non credo di potermi sedere lì» gli dice.

«Io penso di sì».

«Meglio di no».

«Vedilo come un ultimo desiderio».

Miriam sussulta e comincia a scrutarlo per cercare qualche indizio che forse le è sfuggito.

«Ferma quella testolina. Non morirò, se è quello che stai cercando di capire» le dice.

«Sei un cretino!»

Lui scrolla le spalle e le fa di nuovo cenno di avvicinarsi. Miriam si sistema quasi ai piedi del letto. Il lenzuolo è ruvido, e appena sotto si sente la plastica con cui è ricoperto il materasso. Nessuno dei due parla, lei fissa una macchia sul muro di fianco al comodino mentre tamburella con le dita su un ginocchio. Alla fine si alza e lui si scosta un po’ per farle posto. Miriam si stende su un fianco, sopra le coperte, con la testa appoggiata al suo petto e il resto del corpo quasi rannicchiato appena sotto la spalla di Carlo, come l’incastro di un puzzle.

Lui l’avvicina un po’ a sé e i singhiozzi che ha trattenuto le esplodono dentro come piccoli fuochi d’artificio. Cerca di attutirli nascondendo la faccia nella sua maglietta. Sa di menta e di pulito. Carlo le dà un bacio sulla fronte e allunga una mano per accarezzarle i capelli. È un tocco leggero perché è il braccio a cui è attaccata la flebo e deve stare attento a non strapparla.

Carlo

È un giovedì di fine ottobre e Carlo respira per la prima volta. È un respiro incerto e doloroso. È un suono ancora grezzo, come se la vita stesse cercando di farsi strada attraverso i polmoni.

«Va tutto bene» gli dice il dottore toccandogli una spalla. «È normale. Ti abbiamo dovuto intubare. Per un po’ farai fatica a respirare».

Carlo fa un cenno con la testa prima di chiudere gli occhi.

È appena uscito dal coma che gli hanno indotto dopo che ha tentato di suicidarsi con un mix di sonniferi e barbiturici.

Lo sa.

Lo sente addosso: il torace stringe e brucia e gli fa male dappertutto, come fosse stato picchiato.

Lo vede: nelle occhiate di traverso del dottore più giovane e nel sorriso forzato dell’infermiera che gli sta cambiando la flebo.

Non è pentito, né arrabbiato. Si sente, anzi, quasi sollevato, come fosse una cosa che andava fatta.

Carlo si accende una sigaretta e controlla di nuovo la porta dalla copisteria. È un bugigattolo che si trova appena prima dell’ingresso principale dell’Università dove a malapena ci entrano un paio di persone e bisogna sempre aspettare fuori che qualcuno esca. C’è odore di inchiostro e un calore strano e asciutto prodotto dalle stampanti e dalle fotocopiatrici sempre accese. Si respira la stessa trepidazione che c’è nelle aule prima di un esame.

«Michi ci ha detto che ti stai per laureare. Non ci credo!» gli dice Anna mentre lo abbraccia, poi cerca la mano di Matteo che le sta accanto.

«Pare proprio di sì» risponde Carlo mentre spegne la sigaretta schiacciando il mozzicone con la punta della scarpa.

«Ecco perché non ti si vedeva più in giro. Sempre un passo avanti a tutti!» gli dice Matteo dandogli una pacca sulla spalla.

È passato qualche mese dall’ultima volta che gli ha visti. Si sono conosciuti durante il primo anno di Giurisprudenza, quando si sono trovati seduti vicini al seminario di Diritto Costituzionale. Dopo aver superato quell’esame a pieni voti, hanno formato un gruppo di studio e sono stati a lungo inseparabili. Quando Anna e Matteo si sono messi insieme all’inizio del terzo anno, il loro sodalizio si è incrinato e si sono un po’ persi di vista.

«Certo che ti invidio, sai…» aggiunge Anna storcendo un po’ la bocca «…tra poco ti laurei e hai già il posto assicurato nello studio di papà.”

«Eddai Anna! Anche se i notai si tramandano il titolo di padre in figlio, gli toccherà comunque passare l’esame di Stato» dice Matteo.

Carlo annuisce. Gli sembra quasi di perdere l’equilibrio e appoggia la mano sul lampione che c’è lì vicino.

«Scusate, si è fatto tardi e devo andare prima che chiuda il dipartimento. Forse oggi espongono le date delle discussioni di laurea. Ripasserò domani in copisteria» gli dice Carlo, andandosene senza neanche salutare.

Percorre qualche centinaio di metri e si infila in un vicolo. Non c’è nulla, solo inferriate alle finestre, pareti imbrattate e il retro di un paio di locali. Si appoggia al muro con la schiena e si lascia scivolare a terra.

Si passa una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore, alcune goccioline gli scivolano lunga la nuca e rimangono intrappolate nel colletto della camicia, che ormai è tutto umido. I cubetti di porfido sotto i suoi piedi sono pieni di macchie scure e c’è qualche scheggia di vetro verde e appuntita.

Quando si sveglia e riapre gli occhi Miriam è davanti a lui. Lo guarda, sembra sorpresa e spaventata, come se l’avesse colta a fare qualcosa che non avrebbe dovuto.

«Vieni qui» le dice Carlo. La voce gli esce roca e gli pare quasi di sentire dei graffi quando deglutisce.

Miriam si siede sulla poltroncina che c’è tra il letto e la finestra, forse dà sul giardino e ci sono malati che passeggiano piano sottobraccio a qualche parente, forse su un cortile interno dove parcheggiano le ambulanze e gli infermieri vanno a fumare. Ogni tanto sente dei rumori ma sono troppo lontani per distinguere qualcosa. Lui non si è mai alzato dal letto e non sa cosa ci sia là fuori.

«Non è stato lo stesso senza di te, quest’estate» le dice cercando di incrociare il suo sguardo, senza riuscirci.

«Non pensavo che ti sarebbe importato» gli dice Miriam alzando le spalle.

«Lo so, non ti ho mai chiamato. È che ho studiato come un matto per finire gli esami con quasi un anno di anticipo. Non ho fatto altro, praticamente».

«Perché?»

«Più vicino» le dice Carlo, mentre si scosta un po’ per farle posto.

«Mi sei mancata» le sussurra in un orecchio quando lei gli si sdraia accanto.

«Che cos’è successo, Carlo?» gli chiede.

Lui fissa il liquido trasparente che dalla sacca della flebo scende nel contenitore più piccolo. Una goccia buca la superficie, che traballa per un attimo, e poi ne cadono altre, a decine, tutte grandi uguali. Tic tic tic.

Non l’ha ancora raccontato a nessuno. Non che qualcuno gliel’abbia chiesto, neanche i suoi genitori. Miriam però non ha paura.

«Volevo solo chiudere con l’università. Ma qualche giorno fa ho capito che non stavo finendo niente. Era solo l’inizio del resto della mia vita. E non ce l’ho fatta più» le dice. La voce gli esce come un lungo sospiro.

Miriam comincia a piangere e i suoi singhiozzi gli rimbombano dentro come se gli fosse cresciuto un secondo cuore. Per un attimo gli viene voglia di dirle di smettere, solo perché gli sembra che sia troppo, invece le fa scorrere piano le dita sulla nuca tra i capelli, avanti e indietro, finché il suo respiro ritorna regolare.

Inverno – Una crepa sottile

Miriam

«Torni a casa per le feste?» gli chiede Miriam. È seduta su una panchina sotto il pino più grande di tutto il Belvedere. Si sfrega le mani per riscaldarle un po’ mentre traccia dei piccoli cerchi nella ghiaia con la punta della scarpa.

Carlo è in piedi vicino a lei; ha una mano affondata nella tasca del giubbotto e con l’altra tiene stretta una sigaretta. Ogni tanto l’avvicina alla bocca e aspira. Gli sbuffi di fumo si mescolano a quelli del fiato che si condensa.

Il cielo è grigio e le nuvole lo ricoprono tutto come una patina di sporco. L’aria è fredda e leggera. Sembra che domani nevicherà.

«Non credo. Penso che rimarrò da mia nonna» le dice.

«Ma adesso vi parlate con tuo padre?» gli chiede.

«No. Non è cambiato nulla» Carlo scrolla le spalle.

«Cioè non ti ha più rivolta la parola dalla clinica?»

Carlo fa un cenno con la testa e aggiunge: «L’ultima cosa che gli ho sentito dire è stato un buona fortuna detto tra i denti. Non è neanche sceso dalla macchina».

«Ma non sei tornato a casa un paio di mesi fa?»

«Sì, per il compleanno di mia mamma. Lei ha talmente insistito che sono andato, ma lui non è riuscito neanche a stare nella stessa stanza con me. Non si è neanche fatto vedere quando abbiamo tagliato la torta».

«Mi dispiace» gli dice e lo sfiora appena, anche se le piacerebbe abbracciarlo.

Carlo sembra non farci caso mentre osserva il fumo dissolversi nel buio.

Il parco è deserto. Sono già andati via tutti e c’è solo silenzio e un brillare intermittente di luci in lontananza. Mancano pochi giorni a Natale.

«Non ti avevo mai visto fumare» gli dice.

Miriam non ha mai sopportato il fumo, ma le piace guardarlo. Forse sono i suoi gesti un po’ nervosi e svelti, o il modo in cui si concentra come se volesse consumare la sigaretta il più in fretta possibile. Non sembra che gli piaccia davvero.

«Strano. Sono più di due anni» dice e si stropiccia un occhio col dorso della mano. «A pensarci bene, ho cominciato l’estate che ci siamo conosciuti. Fumavo tantissimo in quel periodo».

«Io mi ricordo che stavi sempre lì a fare qualcosa: tennis, barca a vela, beach volley, gare di nuoto. E poi eri come un magnete, nessuno faceva niente se non c’eri tu».

Carlo fa un cenno con la testa e scrolla le spalle.

«Sembravi felice» gli dice.

«Non lo ero, non in quei momenti, almeno» le confessa guardandola negli occhi.

E Miriam prova come una vertigine, come quando ha visitato la Sagrada Familia con la scuola, con tutte quelle scale in pietra che salivano e salivano in una specie di spirale infinita, ed erano così strette da doversi appiattire al muro quando incrociavano qualcuno che scendeva, e non riusciva a decidersi se fosse meglio tornare indietro o andare avanti fino a vedere un po’ di luce.

Miriam abbassa lo sguardo e deglutisce. All’improvviso le sembra faccia troppo caldo e allenta un po’ la sciarpa intorno al collo.

«Ti ho preso una cosa» le dice frugandosi in una tasca. «Volevo dartela adesso. Non so se ci vedremo ancora prima di Natale».

Le allunga un pacchettino. È avvolto in una carta blu e decorato con un nastro argentato.

A Miriam tremano leggermente le mani mentre la apre. È un anello d’argento molto sottile che al centro si piega verso l’alto a formare una piccola onda.

«Non è niente di che» le dice lisciandosi il bordo esterno dell’orecchio «Certe volte penso che non so come avrei fatto in tutti quei mesi in clinica. E anche dopo».

«Grazie» gli dice piano mentre infila l’anello e lo guarda brillare sotto la luce gialla del lampione.

«Grazie a te. Per la tua amicizia» le dice senza riuscire a guardarla negli occhi.

E Miriam si sente come tirare, come un taglio fatto con un foglio di carta, che lascia la ferita frastagliata con mille piccoli strappi e brucia così tanto che sembra non si rimarginerà mai.

Ricaccia indietro le lacrime e si alza: «È meglio che andiamo, tra poco il parco chiude e ci vuole un po’ per arrivare all’ingresso».

Carlo la segue e dopo un po’ le dice: «Non ti è piaciuto il regalo?»

Miriam continua a camminare. Le sue labbra sono socchiuse, vorrebbe dire tante cose ma è troppo stanca e ha freddo.

Carlo

Carlo non riesce a smettere di guardare Miriam mentre lei solleva e avvicina un po’ i lembi del bavero del cappotto. Vorrebbe baciarle il naso che si è fatto tutto rosso.

Stanno salendo lungo il sentiero che porta al Belvedere. La ghiaia sotto i loro piedi stride e le foglie sembrano quasi croccanti quando le calpestano.

Si sta facendo buio e non c’è in giro quasi nessuno. Ad ogni passo il rumore degli zampilli della fontana che c’è all’ingresso dei Giardini si fa più lontano e dall’alto la città diventa sempre più piccola, come se la stesse guardando attraverso un cannocchiale rovesciato.

Sta per prenderle una mano ma all’ultimo la ritrae e si accende un’altra sigaretta. È già la terza da quando si sono incontrati. Non si vedono da mesi, anche se si sono sentiti qualche volta.

«Torni a casa per le feste?» gli chiede Miriam mentre se ne stanno seduti sul muretto del Belvedere con le gambe che penzolano nel vuoto.

Carlo guarda avanti, ed è tutto un lampeggiare di luci colorate che si riflettono sull’acqua scura e oleosa del lago. Appena dietro, si intravedono i profili delle montagne, e sulla vetta più alta c’è una decorazione luminosa a forma stella, a chilometri di distanza sembra il puntale col monte che fa da albero di Natale.

«No» le dice e si accende un’altra sigaretta.

«Com’è andata l’ultima volta?»

«Mio padre non mi parla ancora. Sarebbe stato meglio se non fossi andato. Mia mamma ci teneva, ma credo di averle rovinato il compleanno».

«Mi spiace» gli dice lei.

«Prima o poi se ne farà una ragione. Magari uno dei miei fratelli lo accontenterà e diventerà un notaio come lui. Certo non sarà il primogenito come vuole la tradizione, ma meglio che niente» le dice alzando le spalle.

Prova ad accennare un sorriso ma non ci riesce perché sta cercando di ricacciare indietro quel sapore acido che gli è salito fino in bocca.

Aveva creduto che la terapia avrebbe cancellato via tutto e avrebbe potuto cominciare daccapo, come rovesciare una colata di cemento dove prima c’era un prato. per costruirci sopra qualcosa di nuovo. Invece quando ogni settimana si trova a fissare il diploma di laurea appeso al muro dietro la scrivania, gli sembra che ci sia così tanto da smantellare che il tempo di costruire qualcosa di nuovo non arriverà mai.

Spesso, di notte, se ne sta disteso sul letto con le braccia incrociate dietro la testa a fissare il soffitto e ad aspettare che faccia giorno. È da un po’ che ha notato che la terza e la quarta stecca della tapparella, partendo dall’alto, non combaciano perfettamente anche quando è tutta abbassata. Si crea una crepa sottile nella struttura compatta di legno chiaro, e in quel punto preciso, all’alba, la finestra si accende di tanti puntini luminosi, come una fila ordinata di stelle.

Combatte il sonno per aspettare quel momento, e nel dormiveglia, a volte, gli sembra di sentire le voci della sua vita di prima: i cori dagli spalti durante le partite di pallacanestro, i rimproveri e poi i lunghi silenzi di suo padre per un voto troppo basso, il buongiorno di sua mamma mentre gli versa il caffè nella tazza di Paperino, regalo per i suoi otto anni, i colpi di tosse per nascondere le risate che risuonano sotto le volte della biblioteca dell’università, e le chiacchiere coi suoi amici seduti sul muretto vicino alla torre dell’Orologio.

Si è lasciato tante cose alle spalle. A pensarci bene non gli manca nulla. Solo Miriam.

Non che lei abbia mai fatto davvero parte del suo mondo. L’ha sempre tenuta un po’ ai margini, come a preservarla.

Ad un certo punto, non avrebbe saputo dire quando, aveva cominciato a trasformarsi in quello che gli altri si aspettavano da lui: il figlio premuroso, lo studente brillante, lo sportivo vincente. Gli riusciva tutto così bene che lui stesso ci credeva, per la maggior parte del tempo. Quando voleva ritrovare la parte più autentica di sé Miriam era il filo da seguire per uscire dal labirinto dove si era infilato. Un po’ per volta era diventata l’àncora a cui aggrapparsi per non rimanerci intrappolato dentro.

«I suoi voti peggiorano di settimana in settimana» gli ha detto Marco. «Lasciala in pace e fatti una vita tua!» ed è uscito senza salutarlo.

Qualche giorno fa è andato a trovarlo il fratello di Miriam. Una volta erano amici. Ha capito subito appena l’ha visto che ormai l’amicizia apparteneva al passato. Non gli ha mai sorriso e neanche gli ha chiesto come stava.

«Ti ho portato una cosa» le dice. Scende dal muretto, si fruga nella tasca della giacca e ne estrae un pacchettino.

Le mani di Miriam tremano leggermente mentre lo scarta: è un anello con una piccola onda al centro. L’ha visto nella vetrina di una gioielleria e ha pensato subito a lei.

Lo indossa e gli sorride, poi inclina leggermente la testa, guarda come le sta e sorride di nuovo tra sé.

«Grazie per essermi stata vicino. Sono fortunato ad avere un’amica come te» le dice.

L’anello luccica alla luce del lampione e anche gli occhi di Miriam. Lei balza in piedi all’improvviso e si avvia verso il sentiero senza dire nulla.

Vorrebbe seguirla ma sa che è più giusto lasciarla andare.

Primavera – La strada verso casa

Miriam

Quando Miriam va alla Pieve le piace stare sdraiata all’ombra del tiglio. I grappoli di fiori gialli sembrano bouquet rovesciati e sfiorano appena l’abside. Chiude gli occhi e si perde nel profumo dell’estate che sta arrivando, che sa di ghiaccioli alla menta e sale sulla pelle.

Mentre torna a casa spinge veloce sui pedali e l’aria le asciuga le goccioline di sudore sul collo e sulla fronte.  Percorre in bicicletta i chilometri che separano la chiesetta dalla casa di sua nonna fin da quando è una bambina.

Incontra solo un paio di case e qualche fattoria, per il resto è tutto un susseguirsi di campi di granturco e filari di pioppi. Ha piovuto per giorni e ora i fossati che costeggiano i campi sono quasi pieni. Oggi il cielo è di nuovo azzurro, e solo velato di umidità.

Le strade sono deserte e la campagna intorno è quieta. Si sente solo il monotono frinire delle cicale e ogni tanto un cane che abbaia.  È l’ora più calda, quella del riposo che precede il ritorno al lavoro nei campi e alla cura degli animali. L’asfalto si è fatto rovente sotto le ruote della bicicletta. Ogni tanto un sassolino si infila tra i raggi e produce un rumore ritmico e metallico.

Quando arriva la nonna l’aspetta sull’uscio e Totò abbaia e le fa le feste scodinzolandole intorno, come se non la vedesse da giorni.

«È successo qualcosa?» le chiede, mentre appoggia il manubrio al muro nel punto dove è già un po’ scrostato e accarezza il cagnolino.

«Hai visite ninì» le dice la nonna, scostando la tenda a righe verdi e gialle che copre l’ingresso. Li chiama ancora tutti così i suoi nipoti, ninì, come quando erano piccoli. Anche se ormai non lo sono più da tanto tempo.

«Sono arrivati i miei?» le chiede Miriam, mordendosi il labbro un po’ troppo forte. Adesso la sua bocca è asciutta e ha un vago gusto metallico.

È venuta per passare le vacanze di Pasqua e non è più tornata a casa, e neanche all’università. È passato più di un mese e la sessione estiva sta per cominciare. Forse i suoi vogliono fare un ulteriore tentativo per convincerla a dare qualche esame.

Chiude gli occhi e prende un lungo respiro.

La nonna le fa strada verso il salottino buono.

«Qui?» le chiede aggrottando la fronte.

È l’unica stanza della casa che non viene mai usata. I mobili sembrano ancora nuovi e c’è sempre un leggero odore di chiuso. Da bambini avevano il permesso di entrarci solo se la nonna aveva bisogno del maraschino per fare un dolce. Lo tiene ancora lì, nella credenza dietro il tavolo, insieme agli altri liquori. 

«Ciao» le dice Carlo quando la vede entrare.

Miriam non sa cosa dire e si blocca sulla soglia. La nonna le stringe un braccio per incoraggiarla e si allontana chiudendo la porta.

«Come mai sei venuto?» gli chiede, senza neanche salutarlo.

Carlo le sorride. «Ho saputo che ti nascondevi qui».

«Ti hanno mandato i miei?»

«No» risponde lui ridendo. «Ho visto tuo fratello alla festa di laurea di Michi e mi ha detto che eri da tua nonna».

«Comunque non mi sto nascondendo. Mi sono presa un po’ di tempo per pensare».

«Sì?»

«Sì».

«Ti va di parlarne?»

«Non so».

Carlo si siede sul divanetto di vimini sotto alla finestra, scosta uno dei cuscini e le fa cenno di sedersi vicino a lui.

Miriam scuote la testa e comincia a camminare piano per la stanza, come se volesse contare le piastrelle di graniglia.

«È che l’università fa schifo. Io faccio schifo. Ho passato solo un esame e prima di Pasqua sono stata bocciata a due scritti su tre».

«Ehi, succede. Rimettiti a studiare e riprovaci».

«Di certo non parli per esperienza. Tu hai sempre preso tutti 30»

«Lo sai che non mi è mai piaciuta giurisprudenza. L’ho fatta solo per far contento mio padre. E sai com’è andata a finire»

Miriam distoglie lo sguardo e comincia a giocare con una ciocca di capelli.

«Scusa. Odio le lezioni e non ho legato con nessuno. Sono tutti così noiosi. Penso di aver sbagliato ma non voglio deludere i miei».

«Sono certo che capiranno».

«Non so. Mi piaceva l’idea di diventare commercialista come la mamma e di lavorare insieme. E anche lei era contenta».

«Non ti ci vedo passare la vita in mezzo ai numeri. Forse dovresti pensare a cosa ti piace fare davvero. Io ho sempre immaginato che avresti fatto qualcosa di creativo».

Si ferma davanti a lui e lo guarda. «Tipo l’Accademia? È un po’ che ci penso».

Carlo ricambia il suo sguardo e mentre annuisce le prende una mano e comincia giocare con l’anello che le ha regalato il Natale precedente. Fa scorrere più volte l’indice sulla piccola onda che c’è al centro e poi glielo rigira un po’ intorno alla base del dito. Miriam sussulta per quel tocco inaspettato.

«Ce l’hai ancora».

«Non l’ho mai tolto».

L’attira a sé e Miriam finisce seduta sulle sue ginocchia.

«Pensavo non lo portassi più».

«Perché?»

«Non hai più risposto alle mie chiamate e ai messaggi».

«Sono stufa. Di essere solo amici».

Il respiro di Miriam si è fatto più corto e anche quello di Carlo.  Lui le prende il viso tra le mani e la bacia. Poi la stringe a sé e lei chiude gli occhi mentre ascolta il loro battito tornare normale.

Lui le scosta un ciuffo dal viso e glielo sistema dietro l’orecchio.

«Per una volta vorrei fare le cose per bene, con te» le dice lui.

Miriam lo guarda confusa.

«Vieni a studiare a Firenze» le dice.

«Sul serio?»

Carlo annuisce. «Così possiamo stare insieme».

Mentre il sole del tardo pomeriggio filtra attraverso le tende e illumina la stanza di una luce gialla e calda, loro si sono allungati sul divano. Sembra che non ci sia nessun rumore intorno: ogni tanto si sente qualche scricchiolio della casa.

Miriam è di spalle e riposa con la testa appoggiata al petto di Carlo. Lui le passa una mano tra i capelli e le accarezza una guancia, mentre Miriam traccia delle linee invisibili sul suo braccio.

«Stai sorridendo» gli dice lei.

«Come fai a dirlo? Non mi vedi».

«Lo so e basta».

Carlo

Quando Carlo scende dalla macchina gli corre incontro un cane. Gli sembra tanto un cucciolo di cinghiale: è piccolo, tozzo, con un pelo ispido tra il marrone e il nero. Abbaia un po’ senza troppa convinzione e poi si acciambella sullo zerbino davanti alla porta d’ingresso della casa, come se fosse soddisfatto del suo lavoro e potesse finalmente tornare a sonnecchiare.

«Come puoi vedere non è un cane da guardia» gli dice la nonna di Miriam mentre scosta la tenda a righe verdi e gialle che copre la porta. «Qui in campagna non c’è granché da rubare. Totò più che altro serve a prendere i topi».

«Mi chiamo Carlo» dice mentre le porge la mano per presentarsi. «Sono un amico di Miriam».

«Ah, lo so» gli dice sorridendogli. «Entra, così mi fai compagnia mentre l’aspettiamo. È andata a fare un giro in bici».

«Sono Vittoria» gli dice mentre gli fa cenno di accomodarsi al grande tavolo che occupa buona parte della sala da pranzo.

Nonostante il sole del primo pomeriggio, la stanza è fresca e poco illuminata. Carlo strizza gli occhi un paio di volte per abituarsi al contrasto col chiarore del cortile di cemento.

C’è una specie di tepore e di vitalità, come se il camino fosse acceso e la sala fosse piena di gente.

«Hai mangiato?»

«Non si preoccupi. Va bene così».

«Hai fatto un bel viaggio, da quanto ne so».

«Volevo vedere Miriam».

«Le farà piacere. Siediti che ti porto qualcosa» gli dice mentre si avvia verso il cucinotto che c’è in fondo alla stanza.

Carlo preferisce guardarsi un po’ in giro. È incuriosito dalla vetrinetta della credenza di noce scuro appoggiata alla parete più corta. Ci sono così tante foto e cartoline incastrate tra il vetro e le ante in legno che i piatti e i bicchieri si intravedono appena.

«Questo è mio marito» e gli indica una foto un po’ sbiadita con un uomo sulla sessantina seduto su un trattore parcheggiato nel cortile della casa. Ha in braccio una bimba sorridente che fa finta di guidare. «E lei è Miriam. Qui aveva 3 anni. Lo adorava. Anzi si adoravano a vicenda».

Carlo non può far a meno di pensare che già allora aveva lo stesso sorriso, con una fossetta appena accennata sul lato destro della bocca.

«È morto una decina di anni fa, ma certi giorni faccio ancora fatica a crederci. Qualche tempo fa ho visto un bel maglione verde nella vetrina di un negozio e ho subito pensato che lo avrebbe tenuto caldo d’inverno quando doveva alzarsi per mungere le mucche» gli dice mentre liscia gli angoli della foto.

«Senza pensarci sono entrata, ma quando la commessa mi ha chiesto di cosa avessi bisogno, sono uscita senza dire niente. Mi sono sentita una stupida».

A Carlo piacerebbe dire qualcosa, ma gli sembra di essere un intruso: l’affetto e l’intimità tra i nonni di Miriam sono ancora così reali che gli sembra quasi di poterli toccare. Alla fine non dice niente, pensa solo che è quello che vorrebbe anche lui.

Dalle finestre socchiuse si sente il cane abbaiare.

«Sta arrivando Miriam» dice lei. «Ti faccio accomodare di là, così potete chiacchierare in santa pace» e gli fa strada verso una stanza dall’altro lato del corridoio.

Quando Miriam si affaccia alla porta sembra accaldata e ha le guance arrossate ma si tira le maniche della maglietta fino a coprirsi le mani e stringe i polsini con le dita, come se avesse freddo.

Se ne sta in piedi davanti a lui e non dice nulla.

«Tuo fratello mi ha detto che eri qui e ho pensato di passare a trovarti».

«Avevo bisogno di pensare».

«C’è qualcosa di speciale in questa casa».

Lei annuisce e gli sorride.

«So che non stai più andando a lezione. Cos’è successo, Miriam?» le chiede mentre si siede sul divanetto rosso sotto alla finestra.

«Credo di essermi un po’ persa» gli dice mentre scrolla le spalle. «Nell’ultima sessione ho passato un solo esame e mi hanno bocciato agli altri due. Sono un disastro».

«No che non lo sei. Cerca di capire cosa non ha funzionato e rimettiti sotto» le dice e vorrebbe che lei si avvicinasse un po’ ma continua a passeggiare per la stanza.

«Credo di aver sbagliato facoltà e non so come dirlo ai miei. Non voglio deluderli».

Mentre Miriam parla muove le mani e Carlo nota come un bagliore.

«Perché ridi? Sono seria» gli dice.

«Sto sorridendo».

Lei lo guarda e aggrotta la fronte.

«Hai ancora il mio anello».

«Non l’ho mai tolto».

«Vieni qui» le dice e Miriam gli si siede sulle ginocchia. Carlo comincia a giocare con l’anello, fa come per sfilarglielo e poi glielo rimette a posto.

«Cosa ti piacerebbe fare, allora?» le chiede senza smettere di guardarla.

Miriam sussulta e sposta lo sguardo verso la finestra senza dire nulla.

«A che corso ti piacerebbe iscriverti?»

«Ah. All’Accademia, credo».

«Bene. Sai dove c’è un’ottima scuola d’arte?»

«Dove?»

«A Firenze. Se decidi di cambiare facoltà, potresti venire. Adesso ho un lavoro, un appartamento mio. E sto bene. Pensavo che sarebbe bello» le dice e si tocca l’orecchio come se volesse lisciarlo dove si ripiega.

 «Si?»

«Potremmo provarci. Vedere come va».

Miriam annuisce. Gli sembra di non averla mai vista così felice. Le prende il viso tra le mani e la bacia.

Il sole è quasi calato e forma delle piccole pozze di luce giallo-dorata tra il tavolo e la credenza. Miriam respira piano tra le sue braccia, forse si è addormentata. Non può vederla, ha il viso affondato nella sua maglietta e le loro gambe sono intrecciate mentre sono stesi sul divano.

«Quindi è così che ci si sente» pensa Carlo con un sorriso appena accennato che gli increspa il viso.


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