di Vargas
Copertina di Pidgin Edizioni
Nel ‘93 in un saggio sulla televisione negli USA (il compianto) David Foster Wallace (ma vedi tu se devo citare Foster Wallace) si arrischia di prendere una posizione contro il meccanismo di difesa preferito del nuovo millennio: l’ironia.
Parafrasando, forse eccessivamente, l’ironia era stata la risposta perfetta alla rigidità degli anni ‘50-60, una ricerca continua dello scandalo, dell’oltrepassare il limite, un fuoco da attizzare sotto i censori per farli borbottare come teiere. Ma per gli anni ’90 l’oltraggio era diventato un linguaggio codificato e assorbito dal canone: i nuovi ribelli sarebbero stati quelli che avrebbero eliminato la distanza tra sé stessi e la materia raccontata: un ritorno alla sincerità, al melodramma, alle sensazioni vissute e non riviste con distacco e condiscendenza.
Foster Wallace si riferiva a contesti quotidiani che potevano sembrare anche banali, ma che aveva senso raccontare dopo decenni di inflessibili storie rispettabili seguite da deliri pulp.
Il problema è che la realtà corre più veloce della letteratura e quella stessa quotidianità che negli anni ’90 aveva un determinato volto, nel 2018 si era fatta del tutto irriconoscibile.
Darryl è un romanzo di Jackie Ess, pubblicato da Pidgin e tradotto da Stefano Pirone, che poi è sempre lui, il signor Pidgin, come nello sketch di Così Parlò Bellavista.
Parla dell’esperienza privata di un cuck: un individuo che si eccita a vedere lə propriə partner che fa sesso con qualcun altrə. Il termine è entrato in certi ambiti del linguaggio comune, principalmente come appellativo denigratorio usato dall’estrema destra USA per definire maschi smidollati e incapaci di sopravvivere nell’ambiente dinamico e competitivo dell’occidente.
Il nostro cuck di turno, Darryl Cook è un piccolo ereditiere quarantenne che spende la sua vita di nullafacenza a Eugene (Oregon) con la moglie Mindy e i due omaccioni da competizione che se la scopano per il sommo diletto del protagonista: da una parte Bill, un ragazzotto progressista, sindacalizzato, affettuoso e di buon cuore, dall’altra Clive, finto analista e spacciatore sociopatico.
C’è un meme che ho visto qualche tempo fa che sottolinea come, appena colpiti da una novità, o immersi in un determinato argomento, tendiamo a rileggere tutta la nostra realtà come metafora e astrazione di quello stesso elemento. È esattamente ciò che accade qui.
Darryl è ossessionato dalla propria sessualità: il cuckholdismo per lui è un’esperienza talmente totalizzante che la usa per rileggere qualsiasi contesto. È completamente immerso nella feticizzazione dei corpi che fanno sesso con sua moglie, tanto che di lei non sappiamo nulla, se non il fatto che esiste. Del resto non ha nemmeno altre preoccupazioni. Campa di rendita, ha una casa di proprietà, fisicamente è in buona salute. Può dedicarsi del tutto a scoprire sé stesso.
Fin qui potrebbe sembrare semplicemente un libretto pruriginoso, ma la premessa da film porno anni ’80 viene rivoltata dallo svolgimento: tutto questo rimuginare sulla propria identità, su cosa significhi essere un cuck spinge Darryl ad una lunga sequela di riflessioni, sedute allucinogene e autoanalisi finché la sua identità non si frammenta nell’incertezza e l’incertezza non si riplasma in risposte ogni volta diverse.
La quarta di copertina del volume parla di “esplorazione della sessualità” ed effettivamente di questo si tratta, ma in una maniera talmente pura da disorientare. Con buona pace di roba tipo Valerie Solanas, questi viaggi esplorativi in letteratura tendono sempre a rimanere marginalmente macchiati da una qualche ombra pedagogica, le storie a essere misericordiose con ciò che trattano.
Darryl invece esplora nel vero senso della parola. Si muove a caso, sbaglia strada, ci ripensa e raccoglie relazioni umane lungo il percorso.
Darryl è per prima cosa una brava persona. Vuole bene al suo prossimo, è comprensivo, cerca il dialogo. Soffre anche di qualche disturbo psichiatrico ed è martorizzato dalla sensazione di essere una creatura senza valore, ma invece di incarognirsi e scegliere qualche trito iter di cattivismo da due soldi si sforza di cercare modi per essere felice. Che ci riesca poi è un altro discorso.
Uno degli elementi che rende questo libro emotivamente faticoso (e qui torniamo a Foster Wallace) è la completa assenza di distanza: Darryl non ha secondi fini o segreti misteriosi, a differenza di chiunque gli stia attorno a lui. Del protagonista sappiamo tutto. Parla al lettore in seconda persona (anche se non è davvero il lettore) condivide i suoi pensieri, le sue ansie, in un certo senso ci vìola violandosi per noi, in questa continua ammissione di tutto ciò che un maschio della sua estrazione non potrebbe ammettere a sé stesso o chiunque altro. Non prova nemmeno a mentire. Che senso avrebbe?
Questa sincerità si trasferisce anche in una sorta di misurata ignoranza mimetica: per qualcuno immerso in una comunità tanto estrema come quella cuck, limitrofa a BDSM e altre espressioni di sessualità radicale, all’inizio della narrazione sa veramente poco dei propri simili e piano piano impara ad interfacciarsi a realtà che gli sono del tutto estranee e che comunque accoglie a sé, anche solo per il tempo di una riflessione.
Darryl è disarmante.
E non solo per la prosa secca, le frasi brevi e le verità esistenziali buttate là come auto-evidenti. Il protagonista non scrive per giustificarsi col suo interlocutore (lui già sa), ma per spiegare a sé stesso, raccogliere le idee. Il vero motivo per cui non credo sia possibile provare vera commiserazione esistenziale per Darryl è lo vediamo grossomodo a suo agio in un ruolo servile rispetto a chi ha attorno. È la lettura che la società da a questo ruolo di sudditanza a destabilizzarlo.
In romanzi del genere, normalmente un personaggio alla deriva è tenuto a galla dal senso di rivalsa: la commiserazione è il delta tra il nulla che possiede, il marcio in cui rotola e ciò che sente di meritare, ma Darryl ha già quello che merita, quello che desidera e se questo cambia, prova ad accomodare la propria vita e gli affetti in modo da preservare la propria oasi di relativa pace.
Non chiede qualcosa che sente spettargli, ma di esistere.
In brevissima sostanza, Darryl è un libro su ciò che è talmente diverso da noi da essere diverso addirittura da sé stesso. Attraverso un’infinita disponibilità verso il prossimo, scardina l’assunto per cui gli altri non sono mai davvero così differenti.
Darryl è diverso davvero: è in mezzo a troppe cose, incarna troppi dei taboo che imbrattano il nostro rapporto col genere e col sesso, persino in mezzo agli altri cuck si trova a disagio e nonostante ciò abita una dimensione di bizzarra serenità.
Che poi uno fa due conti, non c’è un vero conflitto, l’insoddisfazione di Darryl è semplicemente quella di dare un nome alle cose. È un turista di eventi che si sono già verificati e che proseguiranno senza di lui.
Viene quasi da chiedersi se questa non sia la prima volta in cui il microfono della narrazione viene raccolto da un insignificante extra di scena, che libero dalle costrizioni della vita da protagonista può permettersi di raccontare una storia che non avevamo ancora mai ascoltato.
Che a malapena sapevamo esistesse.
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