Ci sono corpi che non hanno voce, ma parlano

di Mariel
Copertina di Hacca

Maura Chiulli ha esordito con il romanzo Piacere Maria (Editrice Socialmente, 2010), cui sono seguiti i saggi Maledetti Froci & Maledette Lesbiche (Ed. Aliberti Castelvecchi, 2011) e Out. La discriminazione degli omosessuali (Ed. Internazionali Riuniti, 2012). È docente di scrittura autobiografica della scuola Macondo, lavora con il corpo – è body art performer e mangiafuoco – e dà corpo alle parole. Dopo il silenzio che parla, ora è il corpo che urla, lancia razzi. Ho amato anche la terra, oggetto dell’intervista e, oggi, tra i libri presentati allo Strega, è il suo terzo libro per Hacca edizioni, dopo Dieci giorni (2013) e Nel nostro fuoco (2018).

Da precedenti interviste e dalla chiacchierata insieme, emerge una persona generosa, che ricerca gli ultimi perché è lì che si sente e si ricongiunge; ricerca nell’arte le varianti dell’espressione e il modo per esprimere la diversità e sentirne la verità.

Quando la incontro, un sabato pomeriggio, ha alle sue spalle una libreria. Un libro attrae la mia attenzione: è il secondo volume della Trilogia normalissima di CTRL, I dimezzati. Dentro il primo, Gli ultrauomini, un reportage di Maura. Una wrestler in Comune.

Maura Chiulli: “Sì, lei l’ho raggiunta in macchina in Calabria, un viaggio lungo, ma nella storia di Ortenzia, ho trovato un sacco di forza, di coraggio. L’emozione più grande me l’ha regalata lei, dopo qualche settimana dalla pubblicazione del libro, quando mi ha scritto un lungo messaggio di ringraziamento, per aver dato luce alla sua storia. Nella sua vita nessuno le aveva riconosciuto i meriti di nulla”.

Maura, Ho amato anche la terra è stato annunciato.

MC: “Sì, esce il 26 maggio. Sono enormemente grata.
Ho lavorato a questa storia per quattro anni, anche se per me non c’è niente di più meraviglioso del lavoro di editing che faccio con Francesca Chiappa, di Hacca edizioni. Quando c’è lei, la paura se ne va. Scrivo tutto, fino all’ultima parola e soprattutto la parola che non vorrei dire. Anche stavolta, io e il mio romanzo ne siamo usciti più grandi, più liberi, più potenti.
Livia, la protagonista, è una donna di quarant’anni che si ritrova ad aver perso ogni suo riferimento certo, prima il marito, poi la madre. Deve fare i conti con una vita che non ha mai desiderato, fino a quando accade qualcosa dentro, sotto la pelle e Livia si muove dal suo stallo, mi dice riprendendo le fila della trama”.

L’incipit del libro «Il mio corpo ha oltre quarant’anni, anzi, l’ho usato per oltre quarant’anni»: c’è fin dall’inizio una scissione corpo-anima, interno-esterno, un dualismo che dialoga persistente per tutto il testo: c’è Livia e c’è Corpo. Crede nella sopravvivenza dello spirito al corpo?

MC: “Quando ho iniziato a pensare al libro avevo in mente l’idea platonica della separazione del corpo dall’anima, del corpo come carcere dell’anima. Ma scrivendo, guardando Livia, ascoltando i rumori e le voci della carne e delle ossa, ho capito che c’è di più, che Corpo forse è il luogo dell’anima e che noi non possediamo il nostro corpo, siamo il nostro corpo che parla per giunta”.

A un tratto della narrazione, però, c’è uno spostamento di discorso, di focus: non sono più i chili di troppo che influiscono sullo stato d’animo della protagonista, ma il contrario. Quanta colpa ha il pensiero sull’apparenza?

MC: “Io non lo so se Livia abbia mai pesato centoventi chili o venti, ma so per certo che quando sentiva di scoppiare era il peso dei pensieri a schiacciarla. Erano i dolori a pesare. Poteva nascondersi sotto la carne, per proteggersi, farsi scudo, oppure trasformarsi in un cactus, ossa come spine. Così affrontava il mondo. Era il suo corpo a parlare, anche se lei taceva”.

Quanto la società influisce su di noi? Con le sue convenzioni, i suoi tabu?

MC: “Lacan credo abbia detto che il corpo è linguaggio e che se nessuno ci ha mai detto che siamo belli, non ci sentiremo mai davvero belli. Non lo so se funziona davvero così, ma di certo lo sguardo dell’altro, la parola dell’altro, il giudizio dell’altro hanno un peso sulle nostre vite. Su quella di Livia hanno un peso enorme e diretto sul suo corpo. Io non sono Livia, ma come lei ho usato il corpo e l’ho scambiato per un campo di battaglia. Ho utilizzato in esergo Ana Mendieta («Cerco la forma del mio corpo/ in un albero» – ndi), un’artista secondo me ancora troppo poco celebrata, ho scelto lei proprio perché nelle sue performance – ad esempio quella in cui si cosparge di fango per poi accostarsi e confondersi con la corteccia di un albero – forse voleva anche dirci che possiamo essere tutti i corpi che vogliamo, tutta la vita che vediamo”.

Livia si attacca a gesti scaramantici per non soccombere. In De Martino, emerge come la magia non sia un modo irrazionale di affrontare le negatività della vita, ma un insieme di certezze – penso alla scienza, alla religione, all’Arte – che ha efficacia se ha una base di consenso, se ci crediamo. Cosa ne pensa?

MC: “Mi viene in mente Max Ernst: “la magia è il mezzo per avvicinarci all’ignoto per vie diverse da quelle della scienza o della religione”. I gesti che Livia fa, il numero tre, le ripetizioni, le corna, le preghiere dispari sotto voce sono modi per mettere ordine, per trovare una dimensione conosciuta che la faccia sentire al riparo. Non c’è niente di irrazionale nelle sue superstizioni”.

C’è un vero ritrovarsi, tirare le fila, nel ritorno nel suo paese, nella sua casa, in cui non si è sentita di appartenere, un ritrovo doloroso dove scopre cose che le erano sempre state precluse e da dove riparte.

MC: “Sì, Livia fa i conti con un rapporto sofferto e pieno di fraintendimenti con sua madre. Abbiamo tutti sensibilità differenti e allora le parole, i gesti a volte vanno a posarsi dove già ci sono delle ferite che bruciano, altre volte siamo noi a farci del male a offrire in pasto agli altri le nostre fragilità, a lasciar fare di noi carne da macello. Ma è quando Livia deciderà di tornare a casa, di ritrovare sua madre che accadrà qualcosa di davvero straordinario…”

Grazie mille Maura. In bocca al lupo per il libro.

MC: “Viva il lupo”.


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