di Giulio Iovine
Copertina di Beatrice Nicolini
If chance will have me king, why, chance may crown me
Without my stir.Macbeth I 3
“…mi dispiace dirti che il tempo ha fatto veramente schifo. Sai quella guazzetta fastidiosa di maggio? La battaglia invece è andata bene, abbiamo vinto noi. Devo dire che in gran parte ce la siamo smazzata io e Banquo. C’è stato un po’ d’imbarazzo perché il Re di Norvegia si era fatto aiutare da uno nei nostri, il barone di Cawdor, che ovviamente Re Duncan ha insistito per far giustiziare appena catturato. Poi una scena commovente: il re ha ringraziato Banquo e me, e ha nominato suo successore Malcolm, che ora è principe di Cumberland. Chiuderei qui la mia lettera, tanto a breve sarò a casa, se non che mi preme di riferirti un fatto strano. Qualche ora dopo la battaglia ero in giro con Banquo per la brughiera, sudati come cavalli e con questo cristo di vento gelido che ti s’infila dappertutto. Abbiamo incontrato tre streghe, di cui almeno una soffriva di ipertricosi, le quali – senza che glielo chiedessimo – se ne sono uscite con delle profezie su me e Banquo. A me hanno salutato come signore di Glamis, signore di Cawdor, e futuro re. A Banquo hanno detto: inferiore a MacBeth, e più grande di lui; non così felice, eppure molto più felice; padre di re, ma non sarà mai re. Con Glamis ci hanno azzeccato e questo mi ha innervosito. Anche Banquo era molto nervoso. Bè, poi non salta fuori che il re mi ha appioppato la baronia di Cawdor, per via che il vecchio barone ha tradito…? Sarò a breve al castello e magari ne parliamo di persona, intanto ti prego di non dirlo a nessuno, sono già abbastanza confuso per i fatti miei. A prestissimo moglie, il tuo Findlaich.
Finito di leggere la lettera, Lady MacBeth si fece portare una tisana al finocchio e meditò per ore e ore alla finestrella delle sue stanze nel castello di Inverness, guardando il sole d’estate che indugiava sull’orizzonte e non calava mai. Tutta la Scozia, fiorita e verde, si estendeva nelle sue mille valli, conche e gobbe colline. Era talmente concentrata che non sentì bussare il domestico finché il poveretto non rischiò di buttare giù la porta.
«Che c’è?»
«Milady, il re Duncan viene qui con il padrone».
«Ma li aspettavamo per dopodomani».
«Credo siano in anticipo».
Lady MacBeth nascose la lettera nella guaina di cuoio dove teneva le poche pergamene della sua vita, si alzò e diede ordine alla servitù di prepararsi a ricevere il corteo reale. Si fece trovare alla porta da brava castellana, baciò la mano e l’anello a Duncan che fu complimentoso e discreto, e si ritirò poi nelle sue stanze, dove Lord MacBeth la raggiunse mezz’ora dopo.
«Scusate se sono arrivato in anticipo. Il re ha voluto saltare qualche tappa e non ho fatto in tempo ad avvisarvi».
«Tranquillo, succede».
(Si davano del tu nelle lettere e a letto; il resto del tempo, il voi.)
«Tutto bene mentre ero via?»
«Nessun problema».
«Moglie, bisogna che parliamo della lettera».
«Sono qui apposta».
Sedettero al tavolo davanti alla finestrella, si fecero portare due candelabri perché ormai veniva buio, e nell’attesa della cena fecero due conti.
«Non se ne esce, moglie. Perché io diventi re deve morire Duncan. Se al suo posto ammazzo Malcolm o Donalbain, uno dei due fratelli resterà per ereditare – e comunque Duncan vivrà ancora per molti anni. Se anche riesco a incolpare uno dei due fratelli per l’assassinio dell’altro, comunque Duncan rimane tra i piedi. Non c’è altra strada che farlo fuori, e sperare che i figli si scannino tra loro, o meglio ancora scappino».
«E vi dispiace l’idea di ucciderlo?»
«Non lo so. È un così bravo vecchietto. Ho le idee confuse. Voi no?»
Lady MacBeth arricciò le labbra, stette in silenzio, e poi:
«Avete pensato semplicemente che si potrebbe non ammazzare nessuno?»
Lord MacBeth sgranò gli occhi.
«Cioè, non fare niente?»
Sua moglie annuì.
«Niente. Rifletteteci. Se la profezia è falsa, non ci perdete niente ed evitate di sporcarvi le mani di sangue. Se è vera, diventerete comunque re, con o senza un assassinio».
«Ne siete certa?»
«È una questione di logica narrativa, marito. Se le streghe ci hanno azzeccato, il destino ha in serbo per voi la corona, anche se vi sedete sul divano a mangiare radicchio per i prossimi dieci anni. Si agisce per cambiare il futuro – ma se il futuro è già scritto, perché darsi pena?»
Frugò nella sua carpetta di cuoio e tirò fuori un pacco di fogli di codice traforati e legati assieme da corde, scritti fittissimi in una lingua che Lord MacBeth non conosceva.
«Lo dice anche qui, per esempio».
«Cos’è?»
«Una tragedia di un greco chiamato Sofocle».
«Non so il greco. Ve la siete letta di recente?»
«Sì, è passato a trovarci un monaco dall’Irlanda e mi sono fatta copiare uno dei suoi libri. Si intitola Edipo re. Parla di quest’uomo cui viene profetizzato che ucciderà il padre e sposerà la madre. Sconvolto, fa di tutto per evitarlo. E alla fine lo fa lo stesso, senza saperlo».
«Ma che sfiga».
«Lo so, e nel suo caso la predizione era brutta. Ma nel vostro è bella. Impariamo dagli antichi, marito. Erano pagani, ma mica scemi».
«Ah, su questo non ho niente da obiettare. Faremo come dite voi. Adesso andiamo, che la cena è in tavola».
Si alzarono, andarono a cena, risero e mangiarono e bevvero con tutti i loro ospiti, e non parlarono più della faccenda. Furono svegliati la mattina dopo da un trambusto per tutto il castello – i servi urlavano, gli attendenti del re correvano, crocchi di nobili e principi del sangue si riunivano per discutere. Lord MacBeth uscì dalla stanza in vestaglia e spada sguainata.
«Che c’è?»
Gli venne incontro Banquo.
«Hanno ucciso re Duncan ieri notte».
«Come?»
«Pugnalato nel sonno».
Lady MacBeth raggiunse suo marito sulla soglia della porta e non riuscì a trattenersi:
«Ma chi diavolo è stato?»
«I servi hanno ancora le mani sozze di sangue, milady. Sospettano di loro».
«Ma figurati», riprese Lady MacBeth «Li avranno drogati e poi sporcati perché sembrasse colpa loro. Io almeno avrei fatto così».
Un minuto dopo vennero tutti convocati nella grande anticamera. Il cadavere fu pianto, ripulito e vestito per la sepoltura, passò il prete costernato, e aspettarono Malcolm e Donalbain per trasportare la salma al cimitero dei re di Scozia.
Li aspettarono per tre ore.
Quando si resero conto che non sarebbero mai arrivati, interrogarono i servitori, i quali riferirono che i principi Malcolm e Donalbain erano scappati a cavallo in due direzioni diverse.
«O sono stati loro, o hanno paura che l’assassino se la rifaccia su di loro», commentò Banquo. «E adesso come si fa? Non ci sono eredi al trono».
«C’è Angus. Angus è primo cugino di Duncan».
«Neanche per idea. Non voglio corone sulla testa. Si muore».
«Ross? Ross è secondo cugino».
«Sono dipendente dalla morfina. Sarebbe poco serio da parte mia».
«Menteth, almeno voi?»
«Il mio commercialista me lo ha sconsigliato».
«MacBeth, ci fareste il favore…? Altrimenti è l’anarchia».
«O gli inglesi, che è peggio».
MacBeth sospirò. Lady MacBeth inarcò le sopracciglia.
«Va bene. Se deve essere, che sia».
Fu incoronato a Scone due giorni dopo. Cominciò così il suo regno. Al netto delle solite rogne, non fu niente di particolarmente disastroso – per i primi anni non ci furono guerre né usurpatori, l’economia fu forse un po’ moscia, ma nella Scozia di quei tempi era inevitabile. Buona parte delle scartoffie le compilava Banquo, così come molte delle decisioni era lui a suggerirle, perché pur essendo interamente privo di ambizioni era un buon amministratore. Il figlio di Banquo, Fleance, era sempre più alto, biondo e bello, e MacBeth un po’ invidiava al suo amico questo figlio che forse un giorno sarebbe stato re (anche se nessuno capiva come). Ma era un’invidia molto sottotono, e i due continuavano a essere buoni amici. Anzi, tenendosi Banquo vicino al trono, MacBeth ne ricavò un consigliere di cui si poteva fidare e che nei momenti di noia suonava il liuto e giocava a scacchi.
«Pensate mai alle streghe, maestà?»
«Quali?»
«Quelle che incontrammo dopo la battaglia».
«Le avevo quasi dimenticate».
«Non furono loro a predirvi che sareste diventato re?»
«Ah sì, mi ricordo. Chissà come se la passano, quelle tre vecchiette».
«Lo scoprirete presto», intervenne la regina, entrando senza bussare nella sala del trono (Banquo si inchinò). «Gli farete visita entro Pasqua».
«Perché, moglie?»
«Perché visto che a quanto pare quando predicono ci azzeccano, sono curiosa di sapere se hanno qualche dritta per il futuro».
MacBeth e Banquo tornarono nella brughiera di qualche anno prima. Ritrovarono le streghe, che li presero a male parole.
«Ma guarda questo disgraziato. Ha anche il coraggio di ripresentarsi. Non dovevi ammazzarlo, quel vecchio?»
«Evidentemente no, visto che sono diventato re lo stesso».
«Sì ma il punto era farlo fuori e poi rimanerci di merda».
«Ma rimaneteci voi, di merda. Io voglio campare felice».
«E ti sei portato dietro il tuo amico ciliegia! Vedi che sei proprio un coglione. Volevamo che facessi fuori anche lui».
Banquo non riuscì a smettere di ridere per i successivi quindici minuti mentre MacBeth riceveva altre tre profezie: guàrdati da MacDuff e dal signore di Fife; nessuno che sia nato da donna potrà ucciderti; e non potrai essere vinto finché la foresta di Birnam non muoverà contro di te verso la collina di Dunsinane.
Poi sparirono nelle tenebre fosforescenti.
«Stavolta mi sembra che abbiano detto scemenze».
«Non ti fidare», lo ammonì Banquo. «Sono state vaghe e hanno fatto ricorso al paradosso per farti venire ancora più ansia. Ma come la scorsa volta, hanno probabilmente detto la verità».
«Non hanno detto la verità neanche la scorsa volta. Tutta quella storia di tu inferiore e superiore a me, tu meno felice e più felice…?»
«Mah, sono qualità che puoi gradare anche al minimo. Tu fai il re, ma io sono più bravo di te ad amministrare. Né io né te volevamo fare il re ma ci sei finito tu. Ci sta dentro tutto».
«Non mi davi del voi, una volta?»
«Solo se hai la corona».
I due tornarono al palazzo e riferirono alla regina quanto avevano sentito.
«La più chiara è la prima. MacDuff e Fife sono sempre stati poco collaborativi. Si aspettavano Malcolm sul trono. Non mi stupirebbe se a breve cominciassero a fare i capricci».
«E che facciamo?»
«Niente, come la scorsa volta».
«Ma, moglie…!»
«Niente, vi dico. Se vi impicciate fate solo dei danni. Lasciate che le profezie si avverino».
«Le profezie hanno detto che un tizio non nato da donna mi ucciderà».
«Che potrà uccidervi. Non che vorrà, o che lo farà. I verbi modali sono importanti, marito».
Banquo era d’accordo, e così MacBeth non fece nulla. Un anno dopo fu informato che i baroni di MacDuff e di Fife avevano dichiarato illegale la sua acclamazione al trono, e marciavano contro di lui.
«Bene. Direi che adesso schiero l’esercito e li prendo a randellate. Almeno la guerra la so fare. Sei con me, Banquo?»
«Come sempre, sire».
«Fermi, voi due».
«Moglie, ancora…?»
«MacDuff è nato con parto cesareo».
«Veramente?»
«Sì. Complicazioni prima del parto, sua madre purtroppo ne morì e lui sopravvisse a stento, solo perché il medico di famiglia incise e tirò fuori il feto. Nella logica delle streghe, MacDuff non è nato da una donna – non naturalmente».
«E quindi?»
«Quindi se lo affrontate in battaglia rischiate che vinca e vi ammazzi. Sapete che fate, marito? Gliela date vinta voi per primo, e gli passate la corona».
«Ma, moglie…!»
«Datemi retta».
Fu così che, poco prima di dare battaglia, il re mandò ambasciatori a MacDuff e Fife, annunciando che abdicava e cedeva la corona di Scozia – a MacDuff. Se avevano bisogno di lui, era nel suo castello a Inverness con sua moglie, che gli scrivessero due righe.
Fu un anno molto sereno per la coppia. MacDuff era troppo impegnato col suo nuovo regno, e Fife era troppo impegnato a mangiarsi le mani dalla rabbia: nessuno aveva tempo o voglia di disturbarli. La regina, tornata Lady MacBeth, rimase inaspettatamente incinta. Aveva avuto un figlio dal precedente marito, quando aveva quindici anni, e le era morto dopo meno di sei mesi; ora che ne aveva trentacinque non credeva che ci sarebbe mai più riuscita. Pure, si ritrovò con un florido pancione. Spesso nelle notti d’estate, a letto con suo marito, guardavano la luce delle dieci di sera che tremolava giù dall’orizzonte, e passavano il tempo in chiacchiere.
«Spero che nasca in fretta perché non ne posso più. Non fa che scalciare».
«Però con la pancia sei bellissima. Sembri una foca».
«Come li fai tu i complimenti, Findlaich».
«Lo so. Hai già deciso come lo chiamiamo?»
«Aspettiamo che arrivi ad un anno. Così se muore prima non mi affeziono troppo».
«Ma no, ma no. Allora, se maschio?»
«Findlaich, come te. E se femmina?»
«Gruoch, come te».
«Bel nome del cavolo che ho».
«Ma no, è bellissimo».
«Com’è che non dormi, Findlaich? Io ho la scusa della pancia, ma tu?»
«Boh? Mi perdo a pensare».
Nacque il piccolino, un maschietto che fu chiamato Duncan, come il vecchio re gentile con la barba bianca. Fleance, il figlio di Banquo, fu il suo padrino di battesimo; Lady Macbeth fece da madrina alla figlia di Fleance e sua moglie, che chiamarono Gruoch come lei (‘povera disgraziata’, ebbe a dire la madrina). Il giorno dopo i due battesimi arrivò un messaggio da una cinquantina di nobili scozzesi che imploravano MacBeth di tornare sul trono; MacDuff e Fife avevano scatenato una guerra civile e non si sapeva più a quale santo votarsi.
MacBeth sospirò.
«Ti tocca, gli disse Banquo».
I due rimisero insieme un esercito, marciarono sulla capitale, affrontarono l’esercito di Fife che nel frattempo aveva ucciso MacDuff e si era proclamato re; lo sconfissero, lo spedirono dal boia, e MacBeth riprese per sé e per sua moglie la corona di Scozia nella soddisfazione generale.
«Però resta nei paraggi perché io i conti non li so fare».
«Ma sì, ma sì, rispose Banquo».
Vennero anni più tristi. Banquo si ammalò; una massa scura che gli crebbe nella faringe, e crebbe e crebbe, impedendogli di mangiare e parlare. Fu assistito dai medici e intrattenuto dagli amici e dalla famiglia; quando il dolore si fece insopportabile, misericordiosamente morì. Ma non prima di aver detto a MacBeth, con quel poco di voce che gli restava:
«Sto da cani, ma son fatti del corpo, non dell’anima. Dico al padreterno di lasciarti un posticino accanto a me, così quando vieni giochiamo a scacchi».
Fu sepolto con tutti gli onori, come un amico del re e della regina; suo figlio, sua nuora e sua nipote furono sempre ospiti graditi a palazzo. Arrivò però il giorno in cui MacBeth fu informato che Malcolm e Donalbain, i figli di Duncan, marciavano contro di lui, uno dall’Inghilterra e l’altro dall’Irlanda.
«Due contro uno! E Banquo non è più con me! Ma con che scusa mi fanno la guerra?»
«Dicono che siete un usurpatore, maestà».
«Un usurpatore, io! Dov’erano questi due imbecilli negli ultimi vent’anni che ho regnato…? Perché si ricordano solo adesso del padre assassinato?»
«Perché lo hanno ucciso loro».
Il re si voltò. La regina, seduta sul trono, era quasi invisibile nella penombra male illuminata dai grandi candelabri appesi al soffitto.
«Sono stati loro? Voi dite, moglie…?»
«Per forza. Noi non siamo stati. Banquo nemmeno. Chi se non loro due? Forse involontariamente, può essere stata una lite finita male. Poi se la sono fatta sotto e sono scappati. Adesso però vedono che invecchiate, e pensano di farvi la festa».
«Si sono venduti agli inglesi. Gliela faccio vedere io, gliela faccio».
«Lasciate stare. Non potete fare niente. E non vi conviene».
«Ma come…!»
«Ricordate la foresta di Birnam».
Il re se l’era quasi dimenticata.
«Se vi attaccano da lì, perderete e morirete. Dovete fare in modo di non affrontarli là».
MacBeth dette retta a sua moglie. Schierò le sentinelle davanti alla foresta di Birnam, istruendole di avvisarlo se fosse parso loro che la foresta si muovesse. E così avvenne: i soldati di Malcolm e Donalbain avevano tagliato i tronchi e avanzavano ognuno dietro ad un tronco. Ma il re era pronto. Dai due lati opposti della collina di Dunsinane fece uscire l’esercito che ci aveva nascosto, e circondò le forze nemiche. Chiese poi un colloquio con i comandanti.
S’incontrò con Malcolm e Donalbain in territorio neutrale, ai piedi di Dunsinane. Donalbain era indementito dalla sifilide, e ricoperto di papule – riuscì solo a rantolare. Parlò invece Malcolm, che aveva una cicatrice verticale dalla fronte al mento, e un occhio cavato.
«Che vuoi?», chiese.
«Siete circondati. Posso schiacciarvi dando un ordine».
«Ma?»
«Ma voi siete gli eredi legittimi. È giusto che sul trono di Duncan ci sediate voi due. Per cui, se mi date i miei vecchi titoli – MacBeth, Glamis, Cawdor, nonché il mio castello ad Inverness, con bolla reale e impunità, lascio a te e tuo fratello la corona, come ho già fatto con i baroni di MacDuff e Fife».
Malcolm lo guardò storto.
«Tu che ci guadagni?»
«Una vecchiaia felice».
«Lasci il trono a tutti e due. Cosa credi, che ci scanneremo come quei due idioti?»
«Lo lascio a tutti e due per gentilezza, ma a parte che tu sei il maggiore, non mi sembra che tuo fratello rappresenti un problema per te».
«Gluooosh mbglr gnurp», confermò Donalbain; poi gli prese un attacco epilettico.
«Voglio anche tutto l’esercito che vedi qui acquartierato nelle mie terre. A scanso di equivoci, sai com’è».
«Affare fatto».
Un anno dopo Malcolm regnava su tutta la Scozia, forse un po’ peggio del suo predecessore, ma tutto sommato – come ha scritto un’autrice più intelligente di me – godendo di un grado non disprezzabile di felicità domestica. Aveva sepolto Donalbain il giorno dopo l’incoronazione. Non dette mai fastidio a MacBeth, che cresceva suo figlio insieme a sua moglie nel loro vecchio castello ad Inverness, e invecchiava in santa pace.
Fleance, sua moglie e la piccola Gruoch erano spesso con loro. Una sera d’estate particolarmente calda, mentre cenavano sul tetto del castello con altri amici, MacBeth osservò:
«Ma in tutto questo, Fleance non è mica diventato re».
Fleance ci pensò un secondo, e poi:
«No, ma non ero io a doverlo diventare. Non per forza. ‘Padre di re’, hanno detto le streghe a Banquo. Può anche voler dire un discendente di mio padre, non per forza un figlio».
«La piccola Gruoch potrebbe diventare regina», esclamò MacBeth, facendo ciao con la manona alla bimba che gli rispose agitando una coscia di pollo.
«Le streghe hanno parlato di un re. Magari uno dei figli di Gruoch», commentò Lady MacBeth. «Magari uno dei suoi bisnipoti, fra tanti e tanti anni. In ogni caso, nulla che ci riguardi».
«No. Come si dice, questa è un’altra storia», concluse Fleance, versandosi una birra.
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